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L’AMORE DI VENDOLA di Moreno Pasquinelli

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[ 11 marzo ]

Com’è noto Nichi Vendola ha spiegato che il ricorso alla modalità dell’utero in affitto —pardon! GPA, Gestazione per Altri (miracoli della neolingua imperiale— è un “atto d’amore”.
Più in basso di così, nella scala del fariseismo, era difficile scendere. 
Sulla vicenda abbiamo già detto l’essenziale

Ora proviamo modestamente ad alzare il “livello del dibattito” —di contro a il manifesto e ad Il fatto quotidiano, che son giunti a sostenere che le femministe che criticano Vendola sono… omofobe!
Lo facciamo ripubblicando la voce “Amore” apparsa nella rubrica Dizionario comunista sul primo numero della rivista teorica ERETICA, gennaio 2006


«Per i primi filosofi greci l’Amore è quella forza cosmica che tiene assieme armonicamente forze destinate altrimenti a restare separate e opposte. 

Platone concepisce l’A. come desiderio del bene e della bellezza, e tra le svariate sue manifestazioni stabilisce una gerarchia per cui quella maggiore è l’A. verso la sapienza. Esiste tuttavia una modalità che incorpora tutte le altre: siccome il sommo bene è l’Uno, questo è l’oggetto ideale di ogni A., che è dunque il medium con cui l’uomo si congiunge estaticamente all’Uno. 
Aristotele, apparentemente, sorpassa questa impostazione metafisica ritenendo l’A. un’affezione tipica dell’uomo in quanto essere composto di anima e corpo. Esso si manifesta così in tre modi principali: quello sessuale (eros), quello che lega assieme solidaristicamente i membri di una data comunità, e l’amicizia (philia). In quanto a Dio, motore immobile che muove l’universo, Aristotele considera che esso prenda come oggetto d’A. proprio l’universo che ha creato affinché esso sia perfetto. In altre parole Dio può amare solo se stesso. 

Col cristianesimo l’A. subisce una radicale torsione mistica. L’eros viene cacciato dalla ribalta e al suo posto subentra una versione subblimata e spiritualistica. A questo scopo i Vangeli debbono prendere in prestito dal greco l’inusuale termine agape, caritas in latino—nell’Antico Testamento la parola ebraica più frequente è ‘ahab (e descriveva sia l’amore tra persone che quello verso Dio). L’agape, d’ora in avanti, indica invece sia Dio medesimo che l’A. di Dio per l’uomo. Inviando suo Figlio unigenito a morire per rimettere i peccati della sua creatura tanto imperfetta quanto prediletta, si è donato gratuitamente, senza alcuna contropartita. L’A. diventa quindi totale e incondizionato dono di sé. «L’uomo perciò non può amare Dio, che è l’Amore, se non ama l’altro uomo. L’Amore fraterno fra gli uomini non solo deriva da Dio, ma è Dio stesso». (S. Agostino). Si è cristiani, quindi, non solo nella misura in cui si fa di Dio l’oggetto privilegiato del proprio A., ma si considera l’A. di Dio verso l’uomo come archetipo dell’A. verso il prossimo. Da notare che lo stesso termine “prossimo” subisce una trasformazione. In ebraico il termine Rea’ (prossimo) significa infatti amico, compagno, connazionale, si riferisce quindi anzitutto a qualcuno con cui si ha un vincolo solidale. Nello stesso senso è utilizzato da Gesù nella parabola del buon Samaritano. 
Tuttavia la chiesa farà suo il concetto universalistico di prossimo accennato in altre parabole, per cui sarebbe imperativo amare anche i propri nemici: «Io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco e che neanche conosco» (Benedetto XVI.) In questo modo l’A., separandosi sia dall’eros che dal vincolo comunitario e solidale, non solo si smaterializza, diventa una sterile astrazione, un flatus vocis, una supposizione indeterminata e irrangiungibile. Non a caso, staccato da ogni criterio di reciprocità e e comunione, l’A. cristiano è vissuto come una prescrizione, un comandamento. In questa maniera il perscorso platonico viene rovesciato: se l’eros, per quanto estatico, era un umano ascendere dal basso verso l’alto, l’agape cristiano, all’opposto, è una discendere da Dio verso l’uomo. 
S. Tommaso sfuma il misticismo agostiniano, riconducendo la caritas alla philia, e ritenendo l’A. una dotazione costitutiva dell’essere umano nelle sue due forme: naturale e intellettuale. Se il secondo è più perfetto del primo, non per questo gli si oppone in quanto anche il primo è stato donato da Dio all’uomo. Da sottolineare che per S. Tommaso la caritas, o A. intellettuale (amor benevolentiae), per quanto facoltà naturale dell’uomo, può giungere a completezza solo attraverso uno sforzo razionale teorico e pratico. L’A. è infine una comunione, un vincolo di natura affettiva, per cui ama chi si relaziona all’altro cercando il suo massimo bene.
S. Francesco, nel fare sua la divinizzazione agostiniana dell’A., la trasforma però radicalmente. L’A. non ha più solo per oggetto il prossimo umano ma tutte le creature, la natura in quanto tale. L’opposizione tra la città di Dio e quella mondana viene superata in quanto il mondo è la fisica manifestazione della bontà e perfezione divina, e in quanto tale deve essere oggetto d’A. In secondo luogo, Francesco spoglia l’A. cristiano del suo astratto e sterile universalismo. Se Dio è nei poveri, negli afflitti, nel dolore degli ultimi, non basta andare verso di essi, occorre soffrire come loro, vivendo, come fece Gesù, al loro servizio. Solo nella pauperitas, donandosi ai poveri, rescindendo ogni legame con la mondana ricchezza. Si può amare davvero l’uomo, quindi Dio. L’A. è divino, il divino è nel creato, così che la sola modalità d’esistenza che corrisponda ad esso è la pauperitas, una vita mistica che rifugge dalla ricchezza materiale in quanto causa della depravazione morale. 

Spinoza, radicalizzando il dualismo aristotelico, considera l’A. in quanto emozione (affectus) una degradazione dell’essere, mentre solo l’A. intellettuale, ovvero la comprensione dell’ordine causale e necessario del mondo è, in quanto pura contemplazione, A. verace. 

Cartesio insiste che l’A. è desiderare il bene degli oggetti verso cui si dirige stabilendo una graduatoria per cui se stimiamo l’oggetto meno di noi stessi proviamo per lui solo affetto, se lo stimiamo come noi proviamo amicizia e quando lo stimiamo più di noi stessi proviamo devozione. Questa massima forma d’A. la si può provare non solo per Dio, ma pure per la comunità alla quale si appartiene, alla patria, o a qualsiasi uomo che stimiamo più di noi. 

Leibniz diede la nota definizione per cui: «Quando si ama sinceramente una persona non si cerca il proprio profitto né un piacere staccato da quello della persona amata, ma si cerca il proprio piacere nell’appagamento e nella felicità di questa persona. (..) Occorre dunque che si provi immediatamente piacere in questa felicità e che si provi dolore nell’infelicità della persona amata».
 
Kant, che distingue l’A. sensibile da quello pratico o morale, considera l’ideale cristiano di santità «non raggiungibile da nessuna creatura» e pur tuttavia esso è il modello etico da seguire per un corretto vivere civile. Il romanticismo riabiliterà la metafisica spinoziana per cui l’A. è sinonimo di contemplazione dell’infinito, di unità di Dio con se stesso, e quindi col mondo e gli uomini. 

Hegel accoglie questa impostazione, aggiungendo che l’A. è un sentimento infinito, destinato a vincere tutte le contraddizioni e a condurre la molteplicità ad unità:«L’A. è la coscienza dell’unità con l’altro, sicché io per me non sono isolato, ma la mia autocoscienza si afferma solo come rinunzia al mio essere per sé e attraverso il sapermi come l’unità di me con l’altro». Ancora: «La vera essenza dell’A. consiste nell’abbandonare la coscienza di sé nell’obliarsi in un altro se stesso e, tuttavia, nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest’oblio». 

Schopenhauer radicalizza la concezione cristiana, separando in modo radicale l’A. sessuale (eros) da quello puro (agape). Quello sessuale non sarebbe che la manifestazione cieca e malvagia della forza che regge il mondo: l’irriducibile e sorda volontà di vivere, mentre l’A. puro è compassione, conoscenza dell’altrui dolore. 

Feuerbach, facendo dell’umanità (e non di Dio) il supremo oggetto dell’A., considerando tutta l’umanità come prossimo, resta impigliato nella medesima astrattezza dei cristiani: l’oggetto è talmente smisurato e indeterminato che l’A. finisce per diventare un’esperienza puramente intellettuale, metafisica, un mero ideale morale. 

Il giovane Marx pur muovendosi sulle orme di Hegel e Feuerbach tenta di svincolarsi da ogni residuo metafisico. Egli anzitutto abbandona la divinizzazione cristiana per cui l’A. sarebbe un offrirsi all’altro in maniera gratuita, incondizionata, eventualmente senza contropartita. L’A. è anzitutto relazionale, implica una corrispondenza effettuale, è l’allegoria del rapporto dell’uomo con l’uomo: «Se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità». Se «il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo», e quindi esprime la natura dell’uomo; questa natura, per quanto biologicamente determinata, subisce un processo di umanizzazione, di storicizzazione. Il primordiale e insopprimibile bisogno dell’accoppiamento è solo la premessa biologica unilaterale di un bisogno che in potenza è onnilaterale, che diventa amore per l’altro (per cui lo stesso eros non è più solo istinto animale ma un impulso vitale che deve essere umanamente indirizzato). Questo bisogno ormai umanizzato e storicizzato dell’altro non può essere quindi soddisfatto solo facendo affidamento alle dotazioni naturale e biologica: esso chiede non solo i sensi, ma l’uso di volontà e di passione. L’A. è una qualità dell’essere come soggetto sensibile, attivo, pratico: «Il dominio in me dell’essere oggettivo, il prorompere sensibile dell’attività del mio essere, costituisce quella passione che qui per ciò stesso diventa l’attività del mio essere». Ma se l’A. esprime un bisogno, questo bisogno è determinato, concreto, si manifesta nell’ambito della comunità, poiché l’uomo non è una monade biologica ma un essere antropologico che deve vivere in maniera associata. 
Le due sfere che la filosofia idealistica e la teologia separavano e opponevano (l’A. sessuale e quello spirituale) vanno piuttosto unificate, e questa unificazione è possibile solo se la comunità cessa di essere dilaniata dagli antagonismi sociali, se la fratellanza diventa un concreto e sensibile modo d’essere non solo del singolo uomo ma della comunità in quanto tale. 
La moderna società capitalistica, in quanto porta gli antagonismi sociali alla loro esasperazione, non può dunque che menomare la connaturata spinta altruistica, contrastando l’impulso umano alla fratellanza per privilegiare quello egoistico dell’aggressività. Opponendo antagonisticamente l’uomo all’altro uomo, la società capitalistica non solo inibisce la saldatura tra l’A. carnale e quello spirituale, determina una violenta frattura tra la sfera individuale e quella sociale, per cui il singolo alienato subisce un doppio processo di estraneazione: da sé e dalla comunità. Da una parte l’eros, la pulsione biologica primaria, vengono depravati e sigillati nella sfera privata; mentre la pulsione antropologica secondaria alla socievolezza e alla benevolenza verso gli altri (philia) è soffocata dalla lotta di tutti contro tutti per sfuggire alla miseria e salire nella scala sociale. 
In una simile società l’A. non è che una chimera, un inganno, e per appropriarsene occorre che gli uomini spezzino le catene che li tengono imprigionati come schiavi al capitale e al suo mondo di feticci. L’A., manifestandosi sia come estremo e vitale bisogno umano, sia come suo appagamento e godimento, e dato che il soggetto che ne è portatore è un essere antropologico socievole e comunitario, non può essere vissuto se non nella libertà, e la libertà è il gradino più alto sulla scala della fratellanza, e questa non può darsi senza eguaglianza».

4 pensieri su “L’AMORE DI VENDOLA di Moreno Pasquinelli”

  1. Buttafuoco dice:

    Articolo splendido. Complimenti.Una proposta: perché non lo recapitate a Vendola?

  2. Tonguessy dice:

    In questa interesante disamina manca l'aspetto calvinista. Calvino, portavoce del destino manifesto, era convinto che Dio donasse la salvezza agli individui esclusivamente in base alla sua volontà, non in base a qualità intrinseche dell’individuo. Salvezza va letta come possibilità di amore, ovvero di congiunzione con l'eterno, l'onnipotente etc. in un crescendo di universali (astrazioni) che poi Marx, come scritto, demolirà.Quindi mentre il pauperismo dei francescani si rifà ad un amore non mondano, il calvinismo si rifà ad un esibizionismo mondano che poi, attraverso thatcherismo e reaganomics, è diventato la cifra dei tempi attuali. L'ostentazione del lusso è diventata così la manifestazione del privilegio di essere stati scelti come "oggetto di amore" da parte di Dio. La stessa perversa procedura logica si assiste nel brahmanesimo e nel buddhismo, con la legge del karma che regola gli impulsi di amore e castigo che le divinità (sulla cui esistenza ancora oggi non si è trovato accordo alcuno) amano esprimere nei confronti di noi uomini.

  3. Redazione SollevAzione dice:

    Caro Tonguessy,giusta la tua nota.Pienamente condivisibile sul piano dei contenuti.In effetti, il discorso calvinista, è una estremizzazione di quello agostiniano della Grazia, che si rivelerà la giustificazione teologica più radicale del capitalismo avveniente.Ne terremo conto, un giorno, quando potremo riprendere il progetto (interrotto) di un VOCABOLARIO rivoluzionario.Moreno Pasquinelli

  4. Anonimo dice:

    Complimenti Moreno.Hai oggettivamente talento in un campo che semini poco o, non so, di nascosto.Stefano D'Andrea

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