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A CHE SERVE LA TEORIA IN POLITICA?

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[ 26 giugno ]

BREVI NOTE SUL CONVEGNO DI PARMA

Come annunciato si è svolto ieri a Parma, organizzato dai compagni di ROSS@, l’incontro “IL FILO DI ARIANNA“. Annunciandolo noi ci eravamo presi una licenza poetica, titolando “Un convegno coi fiocchi”, volendo segnalare quanto fossero importanti e dirimenti i due temi posti in discussione, ed anche lo spessore dei relatori.

I compagni parmensi, ne siamo sicuri, oltre a mettere in rete le registrazioni video filmate, faranno un resoconto scritto per consentire a chi non c’era, di farsi un’idea di quanto detto. Essi, ne siamo certi, tireranno le loro conclusioni.

Noi tiriamo le nostre, limitandoci a quel che ci pare essenziale.

Anzitutto ottimo il livello teorico, dove per ottimo è da intendersi la capacità degli intervenuti di aver saputo stare ai punti indicati dai promotori e quindi messo carne al fuoco. In particolare segnaliamo — oltre agli interventi di Giorgio Cremaschi (a destra nella foto sopra) e Sergio Cararo, che hanno sottolineato l’importanza della vittoria di Brexit e denunciato le posizioni pro-Ue di certa sinistra nostrana— i contributi di Carlo Formenti, Samuele Mazzolini, Moreno Pasquinelli e Mimmo Porcaro. 

Carlo Formenti perché, ribaltando la vecchia lettura “operaista” sulla “composizione di classe”, ha fornito spunti decisivi per quanto attiene invece alla natura e ampiezza del fronte nemico, del suo carattere composito, della pervasività dell’ideologica della narrazione mondialista ed eurista, di come le élite oligarchiche esercitano la loro egemonia —anzitutto sulle fasce giovanili.  Formenti ha descritto quello che ha chiamato, in barba alle suggestioni nuoviste indotte dai nuovi mezzi di comunicazione, modello non solo di lavoro ma di vita “walmart“, in cui gli sfruttati e gli oppressi, lungi dal sentirsi tali, si immedesimano invece con il nemico, ovvero proprio con quelle élite che succhiano loro, da ogni poro possibile, ogni singola goccia di plusvalore, relativo e assoluto.

Mazzolini perché ha saputo riassumere, e non era facile, il pensiero di Ernesto Laclau sul “populismo” e del perché le sue proposizioni sono di attualità e ci aiutano a capire certi nuovi fenomeni politici (vedi M5S o Podemos con il loro mantra anti-casta) etichettati dispregiativamente dalle élite come “populisti”. In particolare Mazzolini si è soffermato sui cardini della visione laclausiana, e tra queste, la capacità di un movimento di agire sul livello passionale della politica, di parlare al cuore e non solo alla testa di chi sta in basso, sulla imprescindibile funzione carismatica del capo, da non confondere con il caudillo che tutto fa e disfa, ma come elemento capace di essere perno di un organismo collettivo.

Moreno Pasquinelli e Diego Melegari

Pasquinelli ribadendo l’opzione populista e del perché essa è imprescindibile per chiunque voglia oggi costruire un soggetto politico di massa per la liberazione dal regime oligarchico, ha segnalato i limiti del discorso laclausiano sul populismo —e del perché esso non ha attecchito nella sinistra italiana—, ha sottolineato come alcuni pezzi del suo discorso, in particolare sui meccanismi che presiedono alla lotta per l’egemonia —al di la delle evidenti differenze con l’impianto gramsciano— sono oggigiorno utilissime.
In una società dove oramai è diventato “senso comune” l’idea che la principale divisione è tra chi sta in alto e chi sta in basso (matrice di ogni populismo antioligarchico), il movimento POLITICO che va costruito e per cui c’è uno spazio ampio, malgrado qui in Italia esso sia ricoperto temporaneamente da M5S, è dunque “necessariamente populista”. 

Pur nelle differenze è emerso chiaro il filo conduttore filosofico tra i tre: riguardo al patrimonio teorico lasciato in eredità da Marx, occorre salvare il bambino ma gettare una volta per tutte l’acqua sporca. E qual è quest’acqua sporca? La cattiva e teleologica filosofia della storia di matrice hegeliana (contaminatasi col tempo con darwinismo e positivismo) che vuole concepire l’epopea umana come un irreversibile  movimento in avanti, che dall’arretrato muove necessariamente verso l’avanzato, come un ineluttabile processo verso l’emancipazione e la libertà. Di qui l’idea che più il capitalismo sviluppa le sue forze produttive, più il socialismo sarebbe vicino. Di contro a questa concezione meccanicistica ed economicistica, tutti e tre i relatori hanno insistito che invece centrale è la funzione della politica, quindi la necessità di un potente soggetto politico che, pur sempre tenendo conto della situazione reale, riesca non solo a risvegliare le forze sovversive latenti, ma sappia anche plasmarle entro un orizzonte rivoluzionario. 

Mimmo Porcaro, oltre ad aver convenuto con queste proposizioni, non ha esitato ad attualizzarle ed a portare alle estreme conseguenze ciò che va dicendo e scrivendo da anni. 
In estrema sintesi: dopo la fine del fordismo e del ciclo keynesiano, dopo il crollo dell’URSS e del movimento operaio organizzato, quattro decenni di neoliberismo dispiegato ci consegnano una società profondamente mutata, polverizzata e frantumata, ove la classe operaia non può più agire come centro di un fronte

Stefano Zai e Mimmo Porcaro (a destra)

egemonico antagonista. La cosiddetta “sinistra radicale” non ha saputo capire né riconoscere questi profondi cambiamenti, e ciò ci aiuta a comprendere perché, dopo essere stata satellite e complice del Pd, è chiusa in una riserva in cui è destinata a passare a miglior vita. Anche noi, ha sostenuto Porcaro, siamo in ritardo, ma possiamo ancora essere della partita, a patto di muovere da categorie fondamentali quali “popolo” e “nazione”, intrecciandole strettamente al principio che prima dell’economia viene la politica, rideclinando modernamente il socialismo come società in cui il bene comune sovraordina tutto il resto, ripensando la struttura economica come un sistema misto, in cui forti elementi di economia nazionalizzata e pianificata convivano con settori necessariamente mercantili. Ci servono prima possibile, ha concluso Porcaro quattro, cinquemila militanti per dare vita ad un partito democratico di massa, che sia il perno di un blocco gramscianamente nazionale-popolare, che includa, assieme al lavoro dipendente, la piccola e media impresa ed ovviamente i diversi settori dell’esclusione sociale.

Di conclusioni, da questo convegno, se ne potrebbero trarre diverse.
Tra queste noi preferiamo citare quella che Pasquinelli ha perentoriamente gettato a bomba nel dibattito: “Compagni, siamo davvero, tutti noi, d’accordo con la sostanza della proposta politica esposta da Porcaro? Se sì, guardate che il soggetto politico nuovo di cui c’è tanto bisogno ce lo abbiamo già a portata di mano”.

3 pensieri su “A CHE SERVE LA TEORIA IN POLITICA?”

  1. dexxo dex dice:

    Ottimo.A proposito, Podemos ha perso la sua spinta propulsiva. Gli elettori calano. O cominciano ad aggredire i veri problemi o comincia il declino.

  2. Redazione SollevAzione dice:

    caro DEXXOvedi il nostro giudizio sulle elezioni spagnole e la battuta d'arresto di Podemos

  3. Anonimo dice:

    Ogni teoria politica vale meno di zero se non è sostenuta da un'autorità di governo che la applica e l'imponga anche con la forza se necessario.Così fu nell'ex Unione sovietica, così fu per il nazismo, così fu per il fascismo. E l'uso della forza fa vittime, anche tante. Poi alla fine si scopre che la teoria politica finisce in fallimento ma le vittime restano.

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