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CIAO, CIAO KEYNES (parte prima) di Alessandro Chiavacci

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[ 1 giugno ]
Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Gli amici Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei, e il gruppo Mpl/Sinista contro l’ Euro/P 101, da anni lavorano per coalizzare le forze sociali e intellettuali per creare una alternativa al presente, con gli occhi puntati su quella che è la questione centrale oggi per l’ Italia, cioè l’uscita dai vincoli dell’euro e dell’Unione europea. Nel fare questo però a mio avviso guardano con troppa condiscendenza  a forze sociali e a teorie che mentre sembrano possibili alleati di un progetto di trasformazione del mondo, hanno anche limiti di fondo che ne inficiano l’utilità dal punto di vista di quella stessa prospettiva.

Una di queste teorie, sulla quale vorrei soffermarmi, è il keynesismo.

Dovendo fare una sintesi ultra semplificata e ingiusta del contributo pratico del keynesismo, potremmo dire che il suo significato è che, poiché il reddito non si traduce sempre in spesa è possibile che la domanda effettiva sia minore di quella che serve a generare piena occupazione,  che perciò, in molti casi,  è necessario integrare la domanda con la spesa pubblica realizzata in deficit.

Ora,  a parte i limiti pratici, quali l‘osservazione che è molto probabile che per varie ragioni tensioni inflazionistiche sorgano prima che si raggiunga una ipotetica “piena occupazione delle risorse”, a me sembra che questa visione incontri anche limiti teorici. Quella fondamentale è che noi operiamo all’interno di un sistema capitalistico, dove il fine della produzione è quello del profitto, e che perciò, a mio avviso, le manovre sulla moneta e l’ammontare della spesa pubblica improduttiva (n.b.: SE improduttiva) si muovono entro i margini imposti dal processo di valorizzazione. Avanzando una ipotesi, mi verrebbe da dire che quando la spesa improduttiva confligge con l’ammontare del plusvalore, si ha inflazione; quando tale spesa mette in pericolo la stessa produzione di valore, cioè la vitalità del sistema, si rischia l’iperinflazione.

Mettendola in altra forma, facendo un paragone con la fisiologia umana, potremmo dire che il nostro corpo economico (di noi “Italia”) è composto da 5 milioni di cellule/imprese (grandi, piccole, banche, lavoratori autonomi) che vanno a glucosio/profitto. Immaginarsi che se sono in coma basti a risvegliarle la sola circolazione di sangue extra-corporea significhi dimenticarsi che quelle cellule vanno comunque a glucosio..

Ora, i keinesiani mettono giustamente in evidenza che il nesso fra risparmio e investimenti va invertito rispetto a quello considerato da classici e neoclassici. Cioè che è l’investimento che crea il risparmio, e non viceversa. Assolutamente vero, tanto che potremmo dire che il risparmio di oggi è interamente il frutto degli investimenti passati.

Tuttavia molti keynesiani sembrano ragionare in modo strano. Sembra che per loro, le identità della contabilità nazionale non siano sempre valide, o meglio che siano valide “dopo un certo periodo di tempo”. Ma quelle identità contabili, proprio in quanto “identità” sono valide sempre, in ogni momento e in modo continuo. Cioè, è sempre vero che, in una economia chiusa, la somma dei consumi e degli investimenti non può eccedere (a parte le fluttuazioni delle scorte, ma quante sono queste scorte..?) quanto si è prodotto, o che in una economia aperta agli scambi mercantili, la somma di consumi, investimenti e importazioni non può superare la produzione per l’interno e le esportazioni.  In una economia aperta ai flussi di capitale questo limite non è più vincolante, è vero, grazie al ricorso al risparmio estero. Ma il risparmio estero non viene a comando…

ALCUNI DATI DI CONTABILITÀ NAZIONALE
Passando a parlare dell’Italia attuale, i dati della contabilità nazionale per gli anni 2012, 2013 e 2014 (gli ultimi pubblicati per quanto mi risulta) indicano un tasso di risparmio netto (cioè il risparmio lordo meno gli ammortamenti) negativo per tutti e tre gli anni, e del pari, un tasso di investimento netto (ancora, investimenti netti meno ammortamenti) analogamente negativo, con una accentuazione per il 2014 quando  i disinvestimenti fissi hanno raggiunto il 2,3% del prodotto interno netto. Detto in altri termini, ci stiamo mangiando il patrimonio.

D’altra parte, se le strade sono piene di buche, come sono, se le scuole cadono a pezzi, se i resti di Pompei crollano, se le colline smottano ad ogni accenno di pioggia, può darsi che gli ammortamenti del patrimonio pubblico, archeologico e ambientale siano sottostimati. E d’altronde, se i ponti delle autostrade crollano prima di entrare in funzione, se il valore degli investimenti nell’alta velocità finisce in gran parte nei profitti di mediatori e di contractors, se gli edifici pubblici sono costruiti con cemento “depotenziato” può darsi che gli stessi investimenti siano in gran parte sovrastimati.

Voglio dire che la situazione italiana è drammatica e probabilmente peggiore di quello che ci raccontano.

D’altronde, in una prospettiva futura di sovranità democratica del nostro paese, ci sarà un giorno da pensare ad una politica di difesa (e anche se l’appartenenza alla Nato ha dei costi può darsi che difendersi da soli sia ancora più costoso), ad una politica di sovranità energetica (che costa), a diminuire l’età pensionabile (che costa), a migliorare le condizioni di lavoro (che costa) e poi a ricostruire almeno qualcuno dei settori, (citando Gallino, La fine dell’italia industriale) in cui siamo rimasti indietro: la chimica, l’informatica, l’aeronautica, l’elettronica.. Che hanno bisogno di colossali investimenti. E dovremo magari un giorno pensare anche alla bellezza e alla qualità della vita, invece che pensare solamente ai consumi. Qualcuno pensa che possiamo farlo senza pensare al risparmio? Che basti una politica keinesiana di deficit-spending per procurare le risorse necessarie? Io nutro forti dubbi.

QUAL È IL RUOLO DELLO STATO
I keinesiani sembrano pensare che il ruolo dello Stato nell’economia sia quello di “tenere la domanda in tensione”, come se l’economia fosse… un materassino gonfiabile con qualche perdita. Finché la domanda pubblica tiene il materassino in tensione, tutto va bene.

Ma il ruolo dello Stato non è quello di “erogatore di spesa”, non è affatto un “acquirente di beni e servizi”.

In primo luogo l’intervento dello Stato è per via normativa. Qualcuno può sostenere che ha scarsa importanza economica la legislazione sul lavoro? O la legislazione sulle imprese e sulle società? O che lo ha la legislazione sull’urbanistica e sull’edilizia, o sul federalismo o sui poteri degli enti locali? O che lo ha la legislazione sull’ambiente, la salute, la sicurezza? Certamente no. Dimenticarlo corrisponde all’idea liberale che la legislazione su tali materie sia solo un “vincolo”, un “laccio o lacciuolo” del quale l’economia non può che prendere atto, ma non è affatto così.

Né va dimenticato, in secondo luogo,  che lo Stato agisce anche come proprietario. La gestione di Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, delle municipalizzate non è affatto irrilevante in termini economici, anche se non compare, se non come utili o perdite per la quota azionaria statale, nelle statistiche della contabilità pubblica. Né lo è la gestione di quella parte restante di patrimonio pubblico  il cui valore sfiora ad oggi i 2000 miliardi di euro.

Ma facciamo finta per un momento che il ruolo dello Stato nell’economia sia efficacemente rappresentato dalle equazioni della contabilità nazionale, quelle che sono state costruite dai keinesiani con i concetti dell’economia liberale.

In tali equazioni, abbiamo che:

PIL= REDDITO= SPESA

In tali equazioni, data la natura di identità, il ruolo dello Stato può essere sintetizzato come soggetto fra gli altri della domanda aggregata, che siano  consumatori o  imprese investitrici. Il problema è che questa rappresentazione, pur lecita, non è affatto adeguata.

Infatti, la Pubblica Amministrazione agisce in primo luogo sulla prima fase del circuito produzione-reddito-spesa, come produttore di servizi. Il problema è che la contabilità nazionale, costruita con concetti liberali, non è in grado di valutarne il valore, perché i servizi pubblici non hanno un prezzo di mercato. Si è perciò ricorsi all’espediente di valutarli sulla base dei costi effettuati per produrli. Ma questa convenzione statistica è paradossale, perché se un governo particolarmente efficiente, a parità di spesa, riuscisse a raddoppiare la quantità di servizi erogati, o uno particolarmente incapace la dimezzasse o al limite la annullasse, questo non sarebbe in alcun modo rilevato nella contabilità nazionale.

Ma non considerare oggetto meritevole di osservazione la produzione effettiva di servizi da parte dello stato equivale a considerare che lo Stato faccia un uso economicamente ottimale delle risorse di cui è a disposizione. Una affermazione che meriterebbe di essere sostenuta di fronte ad una platea di piccoli imprenditori strangolati dal fisco, ma che in ogni caso è una assurdità sia per un economista che per il pensiero critico.

In secondo luogo, tralasciando il problema non da poco della rilevazione dei servizi, lo Stato non è ancora un acquirente di beni…!

Nel Conto Consolidato delle amministrazioni pubbliche per il 2014, sui circa 826 miliardi di uscite complessive dello Stato, solo 168 sono acquisto di beni e servizi, consumi intermedi e investimenti…! Gli altri 658 sono trasferimenti di reddito!!! Cioè, lo Stato usa la maggioranza schiacciante delle tasse, delle imposte e dei contributi che riceve per intervenire sulla distribuzione del reddito, come prestazioni pensionistiche e sociali,  come redditi da lavoro dipendente, come interessi sul debito, come contributi alla produzione o agli investimenti! Quindi, se in qualche modo dovessimo rappresentare lo Stato, dovremmo casomai rappresentarlo come una grande macchina per la trasformazione del reddito (fase 2 del circuito), non come un acquirente (fase 3) di beni e servizi…!

La spesa per beni e servizi rappresenta il 20% della sua spesa. Se l’intervento sopra richiamato sul piano normatorio e proprietario valesse, poniamo, metà dell’intervento pubblico nell’economia, tale spesa si ridurrebbe al 10% dell’intervento totale. Quei keinesiani che con aria di trasgressione parlano di spesa in deficit, stanno parlando di un argomento che ai dati del 2014 rappresenta il 6% della spesa complessiva, cioè il 3% dell’intervento dello Stato. Dimenticano cioè il 97% della sua attività. Anche un deficit doppio sarebbe irrilevante se lo stato agisse e spendesse bene, mentre potrebbe essere insostenibile lo stesso pareggio di bilancio se lo Stato agisse e spendesse male. 

UN GIUDIZIO STORICO SUL KEYNESISMO
Da quanto precede, mi sembra di poter dedurre che gli strumenti keynesiani non possano essere uno strumento adeguato per opporsi in modo efficace al capitalismo della finanza in cui ci troviamo a vivere.

Certo, bisogna riconoscere che il keynesismo è stata una rivoluzione. Keynes a parere di chi scrive ha mostrato ai liberali e ai governanti come una parziale socializzazione del plusvalore, attuata con manovre espansive sulla moneta, con la spesa finanziata dalla banca centrale, o finanziata in deficit, sia conveniente sia per i capitalisti che per il sistema economico più in generale. Su tale idea si sono costruite le politiche attive di politica economica  e i sistemi di welfare. Tuttavia il limite del keynesismo deriva dal fatto che Keynes (che era a sua volta un liberale) doveva parlare ad una platea di economisti e di governanti liberali. Perciò ha dovuto rappresentare lo stato come uno spenditore, un acquirente di beni e servizi come tanti altri: cosa che non è. Perché come abbiamo visto prima, lo Stato è in primo luogo un produttore di servizi e un trasformatore dei redditi; o meglio, con riferimento a quanto detto sopra, un normatore, un proprietario, un produttore di servizi e un trasformatore dei redditi. Solo in ultima istanza è anche un acquirente di beni e servizi.

Il keinesismo è stato la controparte politica della II rivoluzione industriale, cioè della produzione di massa. Quando i capitalisti attingevano enormi giacimenti di plusvalore dalla produzione taylorista, redistribuire questo plusvalore era utile e necessario. Il ruolo utile dello stato spenditore si è esaurito per il capitale quando quei giacimenti di plusvalore si sono esauriti o per le conquiste contrattuali dei lavoratori organizzati, o quando, anche in conseguenza di quelle, il capitale ha spostato la produzione industriale di massa nei paesi a bassi salari e basso welfare.

Il keinesismo è stato un grande successo. A parte il successo economico, è stato un successo politico. Lo è stato perché ha reso possibile per più di mezzo secolo l’integrazione della sinistra politica e sociale nel capitalismo, che, attraverso il combinato disposto di keinesismo e sindacalismo ha diretto l’attenzione sulla spesa pubblica e sulla distribuzione del reddito piuttosto che verso una critica più radicale  dei rapporti di produzione.

Ma è stato anche un grande strumento di corruzione. Non nel senso della corruzione dei politici e delle tangenti, ma molto più profondamente perché l’idea che “l’importante è la spesa” ha fatto dimenticare ad ogni soggetto pubblico la funzione, l’efficienza, l’equità, la razionalità, le conseguenze di quella spesa.

Per farmi capire, ricorrerò ad un esempio personale.

Nel ’93 mi trovavo a Torino, e perciò decisi di andare ad un convegno diRifondazione Comunista sull’ Alta Velocità. Nel convegno si dissero peste e corna di quel progetto, criticandolo da tutti i punti di vista. Alla fine del convegno, mi rivolsi al mio vicino alla riunione, un comunista torinese. Gli chiesi: “Ma allora, è sicuro, ma proprio sicuro che Rifondazione Comunista è contraria all’Alta Velocità…?” Lui mi rispose: “Ueh, compagno… Sono 200.000 miliardi… [allora si ragionava in lire].. è lavoro…!”

L’opinione del mio occasionale compagno di assemblea è di per sé irrilevante, ma credo che rappresenti bene l’uso pratico di massa che è stato fatto del keynesismo: disinteresse per l’uso delle risorse, per l’utilità dei progetti e per i bisogni delle persone.

Infine il keynesismo è stato anche un corruttore di generazioni intere di studenti e di intellettuali, (e anche di noi stessi),  che sono stati indotti a indirizzare la loro critica su aspetti limitati e in fondo marginali del sistema economico.

Pensare un’alternativa al keinesismo non significa solo dover individuare strumenti critici alternativi, ma anche mettere in discussione le forme organizzative dell’azione politica. Cose di cui proverò a scrivere  nella seconda parte.

(continua)


4 pensieri su “CIAO, CIAO KEYNES (parte prima) di Alessandro Chiavacci”

  1. Anonimo dice:

    Sì, ma parlare di keinesismo ci permette di sederci al tavolo a discutere con la borghesia ossia NON DI ALLEARCI HIC ET NUNC ma di PARLARE, di CONOSCERCI.Arriverà il momento del CLN e lì si dovrà agire in fretta, bisognerà capire al volo se e di chi fidarsi; se non si saranno stabiliti almeno dei rapporti prima tutto sarà più difficile.E VI FACCIO PRESENTE CHE SE RESTIAMO SEMPRE AI PRELIMINARI NON COMINCIAMO MAI.Chissenefrega se non "usciamo" lerfettamente irreprensibili sul piano teorico e del progetto; dobbiamo muoverci così come siamo perché sennò la gente si posiziona da altre parti CHE SONO MOLTO PIÙ ATTIVE E REATTIVE DI NOI.

  2. classista dice:

    Il keneysismo ha un limite storico: Tanto più si sviluppa l' economia tanto meno spazio rimane per la piena occupazione. Se oggi ormai 10 operai producono quello che ieri producevano in mille vale pure il contrario: Per quanti miliardi lo stato investe sempre meno persone riesce ad assumere. Prendete la tav. Diverso ê l'esempio citato dal commentatore sulle alleanze. Ci si dovrà pure alleare coi keynesiani ma un conto il fronte politico un conto la scienza e quella di Keynes diventa inattuale col tempo e la saturazione oggettiva degli spazi di mediazione

  3. Brenno dice:

    Penso che "classista" abbia perfettamente ragione.va bene allearsi con i pezzi keynesiani, anche della borghesia, per battere la setta degli euro-liberisti. Con i keynesiani (segnalo che ce ne sono di diversi tipi, fino alla MMT) sarà un'alleanza tattica, necessaria ma… ma qui occorre cambiare modello economico, non solo mettere toppe al capitalismo via spesa pubblica e intervento dello stato…Come diceva Marx, il capitalismo ha un limite e una contraddizione invalicabile: esso è mosso dalla sete di profitto, e questa sete è incompatibile col benessere collettivo.Se si vuole il benessere collettivo generale, l'economia non può restare ostaggio di una piccola minoranza di milionari.

  4. Anonimo dice:

    Ringrazio chi è intervenuto. Al primo commentatore posso rispondere che non è mia intenzione di rivendicare la purezza ideologica. Nella seconda parte (che sarà pubblicata fra breve) si vedrà meglio che le mie conclusioni, condivisibili o meno, non sono affatto affette dall'ortodossia. Condivido invece i commenti di "Classista" e quindi di "Brenno". Una cosa è la questione delle alleanze, che io auspico più ampia possibile fra le forze che si oppongono all'attuale Unione Europea. Un'altra è la teoria, che deve essere adeguata, e sulla quale non possiamo fare sconti. Grazie dei commenti.A.C.

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