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NUOVA EMIGRAZIONE ITALIANA: LA TRAPPOLA AUSTRALIANA di Luca Maria Esposito

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[ 25 febbraio ]

Secondo gli ultimi dati diffusi dal rapporto Migrantes, al 1 gennaio 2016 gli iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) sono 4.811.163[1], in un trend in continuo aumento dai primi anni 2000. In particolare, nel 2014, 107.529 persone hanno lasciato l’Italia in un movimento che dal 2006 al 2016 è aumentato esponenzialmente del 54,9%, raggiungendo addirittura la cifra record di 147 mila unità nel 2015[2]. Tra questi sono sempre di più i laureati, almeno 25 mila nel 2015, +13% sull’anno precedente. Il flusso di questa nuova ondata migratoria si è diretto principalmente in Europa e Sud America, ma secondo le statistiche, dopo Spagna (+155,2%), Brasile (+151,2%), Argentina (+93,7%), Regno Unito (+76,4%) e Germania (+31,4%), il sesto Paese di approdo per gli italiani è stato l’Australia con un incremento delle registrazioni all’Aire del 31,1%, davanti a Stati Uniti, Svizzera, Belgio, Canada e Francia.
Molto è già stato scritto su questo fenomeno in crescita esponenziale, per il quale, diversamente dal passato, è difficile utilizzare la parola emigrazione nel suo pieno significato, soprattutto in un momento in cui una spaventosa crisi migratoria sta investendo in pieno l’Europa. Quello che abbiamo di fronte è tuttavia un vasto movimento, soprattutto di giovani (il 43% è nella fascia di età 25-39 anni)[3] in cerca di opportunità, che sta investendo il nostro Paese in proporzioni che non si vedevano da tempo.
Una parte di questo flusso ha raggiunto negli ultimi anni anche l’Australia e di questo insieme fanno parte principalmente giovani ragazzi al di sotto dei trent’ anni[4]. La spinta principale che ha portato molti ragazzi a muoversi così lontano da casa può essere individuata, a livello superficiale, nella ricerca di un migliore reddito personale[5], ma è anche il segno di una mancanza di corrispondenza nelle aspettative che questa fascia di giovani ripone nel sistema italiano ed evidenzia anche un forte bisogno di espressione personale[6].
Anche se è molto difficile generalizzare, il percorso che i ragazzi italiani si trovano ad affrontare una volta sbarcati in Australia è piuttosto simile. Un numero notevole di essi atterra negli aeroporti australiani con una cognizione vaghissima di ciò che si troverà davanti, spinto soprattutto dalla voglia di evasione nei confronti di una realtà come quella italiana definita deprimente, desolante, immobile, priva di prospettiva[7]. La temporaneità del visto fa sì che non si percepisca inizialmente quella australiana come una vera e propria migrazione, con tutto il carico emotivo che questo comporta, quanto piuttosto come un’esperienza di vita, simile a quelle che in molti hanno già avuto occasione di avere in Europa. L’Australia è attraente anche perché nell’immaginario collettivo (complici i maggiori media nazionali)[8] è terra dalle “facili” possibilità lavorative, dai guadagni elevati, se rapportati a quelli italiani, e dall’alta qualità della vita offerta. Anche se tali definizioni approssimative hanno sicuramente un fondo di verità, la realtà dei fatti è differente, ma per accorgersene è necessaria una profondità di visione che al momento dell’arrivo in pochi hanno la capacità di cogliere. Secondo i dati raccolti dalla nostra associazione, almeno la metà dei ragazzi non arriva in Australia motivato dalla ricerca del lavoro e solo una percentuale intorno al 9% argomenta la propria scelta con un radicale cambiamento di vita.
Esperienza comune iniziale a tutti è dunque quella della ‘ricerca’: di una sistemazione, di un lavoro, di persone da conoscere, di ambienti in cui inserirsi. Una ricerca che si svolge soprattutto attraverso il ‘passa parola’ oppure tramite il social network. Una volta trovata una sistemazione, che per la maggior parte delle volte è una stanza dal prezzo notevolmente elevato, l’esigenza principale è quella di trovare un lavoro e, riprendendo la definizione di Marta Fana nella sua lettera sull’Espresso[9], da ‘camerieri d’Europa’ i ragazzi italiani diventano, nell’altro emisfero, i camerieri d’Australia. L’ambito nel quale un ragazzo, laureato o meno, troverà sicuramente lavoro è infatti quello dell’hospitality[10] e al di là che tu sia ingegnere aerospaziale o perito agrario, il tuo percorso in Australia ti porterà volente o nolente nelle cucine di un ristorante e poi starà a te decidere se rimanerci o tentare, con molte difficoltà, di esplorare altri ambiti professionali. Ovviamente ci sono ristoranti e ristoranti, ma a quanto rilevato dalle più recenti inchieste sia del Senato Federale[11], che ha definito quella dello sfruttamento dei lavoratori temporanei una “disgrazia nazionale”, il problema del lavoro nero, sottopagato o senza le protezioni stabilite per legge è una realtà con cui molti dei ragazzi italiani hanno a che fare quotidianamente.

La ricerca di un lavoro in regola e retribuito adeguatamente, diventa dunque un’esperienza non facile, che può rendere molto spiacevole e difficoltosa la permanenza in Australia. In più, il visto con cui la maggior parte dei giovani italiani, almeno l’80% di coloro che entrano in contatto con l’associazione, arriva in Australia, è chiamato Working Holiday Visa, ha durata di un anno e permette di lavorare, ma non più di sei mesi con lo stesso datore di lavoro. Questa limitazione è discriminante e rende molto remota la possibilità che un’azienda investa su qualcuno impiegabile solo per un tempo limitato. Di conseguenza, le tipologie di lavoro facilmente accessibili per coloro che possiedono tale visto, sono limitate, eccetto che per alcuni rari casi, a professioni che non richiedono particolare esperienza o training. Un vantaggio di tale tipo di visto è quello di poter essere rinnovato per un successivo anno, previa un’esperienza di lavoro di 88 giorni nelle cosiddette aree rurali. Purtroppo, anche questa esperienza non è priva di insidie e come rilevato dal Fair Work Ombudsman[12], almeno il 29% dei lavoratori temporanei in questo settore non ha percepito uno stipendio, mentre di coloro che riescono a farsi retribuire per il lavoro svolto, il 28% è sottopagato, il 27% dei quali in nero. In più, ben il 6% ha dovuto pagare per avere indietro firmati i propri documenti validi ad applicare per un secondo working holiday visa.
Ma lo sfruttamento comincia ancor prima della giornata lavorativa. Il 14% ha dichiarato addirittura di aver dovuto pagare per avere un lavoro, di questi il 63% ha dovuto pagare un intermediario, il 21% costretto contro la propria volontà perché una parte dello stipendio gli veniva scalata prima di percepirlo. Tutta questa situazione, dice il Fair Work Ombudsman, è frutto di una concezione sbagliata che si è radicata all’interno dei datori di lavoro nelle aree rurali, per i quali, i workingholidaymakers costituiscono una manodopera a basso costo facilmente sfruttabile vista la particolare condizione che li vede privi di tutele e rappresentanze, carenti nella comprensione della lingua, poco informati sui propri diritti di lavoratori e diffidenti verso le autorità. Insomma, la situazione è tutt’altro che rosea e finire preda di personaggi senza scrupoli non è un’eventualità poi tanto remota. Ma non è tutto. Alla scadenza anche del secondo anno, in molti esprimono il desiderio di rimanere ancora in Australia, chi per ragioni personali, chi per motivi lavorativi, ma solo in pochi riescono a farlo grazie al sistema delle sponsorizzazioni.
La maggior parte finisce dunque per ricorrere ad visto da studente[13], una tipologia che si sta diffondendo a macchia d’olio soprattutto negli ultimi anni. Il permesso concede di vivere sul territorio autraliano per studiare, ma limita chi lo ottiene a lavorare solamente 40 ore bisettimanali. L’escalation dei visti studente è stata anche alimentata da tutta una serie di agenzie che, come attività, svolgono il compito di mettere in contatto coloro che vogliono studiare con le scuole. Questo servizio di intermediazione non viene pagato dai clienti che si recano alle agenzie, ma dalle scuole stesse, quindi più studenti le agenzie riusciranno a procurare alle scuole più profitto riusciranno a produrre. Tale sistema ha portato le agenzie ad utilizzare tutti gli strumenti possibili[14] per incentivare l’accesso dei ragazzi alle scuole, arrivando a tenere anche veri e propri viaggi promozionali direttamente in Italia. Un meccanismo che ha dato vita ad un circolo vizioso per cui l’interesse principale non è quello di studiare per accrescere le proprie conoscenze, ma di possedere lo status di studente, alimentando la nascita di corsi estremamente economici ma poco qualificati, che non offriranno facilmente a chi li frequenta la possibilità di accedere in futuro a visti di natura permanente. In più, dato l’alto costo della vita, le persone in possesso di visto studente oltre alle proprie 40 ore bisettimanali sono costrette a lavorare in nero, impattando sul mercato del lavoro in modo distorto e producendo una numerosa mano d’opera debole dal punto di vista contrattuale[15].
In molti casi quindi, coloro che hanno intrapreso questo percorso, anche a causa di coloro che alimentano per proprio tornaconto false aspettative, si ritrovano intrappolati in una situazione che li porta a passare da un visto studente all’altro senza accrescere realmente la propria professionalità, trovandosi pertanto in una specie di limbo di precarietà sia dal punto di vista lavorativo che da quello legale. Tali pratiche, che risultano sempre più diffuse, investono anche i ragazzi italiani, ai quali è necessario fornire informazioni accurate per fare in modo che siano più consapevoli delle loro reali opportunità. Proprio questo è stato uno degli obiettivi del NomIT sin dalla sua nascita.
* Fonte: Senso Comune
NOTE
[1]Migrantes, 2016, Rapporto Italiani nel mondo 2015, Roma
[2] Istituto Italiano di Statistica, Report sulle migrazioni internazionali ed interne della popolazione residente, anno 2015.
[3] Istituto Italiano di Statistica, Report sulle migrazioni internazionali ed interne della popolazione residente, anno 2014
[4] “Almost 50% of the new Italian entrants between 2004 and 2015 arrived under the Working Holiday Visa Program targeted for people between 18 and 30” (Armillei/Mascitelli, 2016, From 2004 to 2016 a new Italian exodus in Australia?,Melbourne).
[5]Becchi E., Barone C., 2016, Graduate Migration out of Italy, Parigi. Ha dimostrato che coloro che lasciano l’Italia dopo la laurea riescono ad ottenere uno stipendio medio superiore del 37%, rispetto ai loro coetanei che rimangono in Italia.
[6]Favell A., Feldblum M., Smith M., 2007, The human face of global mobility: A research agenda, Davis.
[7] Dall’estate del 2013 l’Associazione Nomit Inc. ha aperto uno sportello di assistenza gratuita presso il Consolato Generale d’Italia a Melbourne. Il progetto, denominato Welcome Desk, è sempre stato gestito dai volontari dell’associazione e ad oggi, ha assistito centinaia di ragazzi appena arrivati a Melbourne.  Fin dall’inizio, ai fruitori del servizio è stato richiesto di compilare un form con diverse tipologie di domande, dai dati anagrafici, al livello d’istruzione, dalle motivazioni per cui si è deciso di lasciare l’Italia, al lavoro ricercato o che si svolgeva in precedenza. Tutte queste informazioni sono state raccolte e catalogate per comprendere e conoscere gli utenti che usufruivano del servizio e da esse sono state tratte delle statistiche non ancora pubblicate. Ad oggi il campione raccolto supera le 600 unità.
[10] Secondo i dati registrati presso lo Sportello Welcome almeno il 33% dei ragazzi è impiegato nel settore dell’accoglienza e della ristorazione.
[13]Grigoletti M., Pianelli S., 2016, Un ‘viaggio’ da temporaneo a permanente, Migrantes, Sydney
[14] Con sempre maggiore frequenza le agenzie presentano se stesse come centri informativi gratuiti, attivando contact point aperti al pubblico che offrono diversi livelli di assistenza, come ad esempio aiuto nella ricerca dell’alloggio, del lavoro, ecc. Tale strumento è utile per attirare coloro che hanno necessità di informazioni o assistenza e che potrebbero diventare potenziali clienti. Ma mentre da un lato tale supporto svolge sicuramente un positivo ruolo di aiuto per chi, appena arrivato, ha tali necessità, dall’altro presenta come assistenza disinteressata un’attività che in realtà non lo è, creando confusione tra chi opera nel profit e chi nel no profit.

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