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IMMIGRAZIONE E AMERICANIZZAZIONE di Ferdinando Pastore

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[ 2 marzo ]

Byung–Chul Han dà una suggestiva descrizione del Potere neo-capitalista e dell’ambiguità con cui utilizza il termine libertà. Esso, mentre promuove la liberazione della persona e toglie di mezzo qualsiasi ostacolo alla realizzazione, mistificatoria, del sé, “silenziosamente accade, senza segnalarsi in modo clamoroso”. Non ha bisogno di misure repressive, bensì accomoda la realtà come evento naturale e condiziona l’essere umano per far sì che quest’ultimo persegua i medesimi obiettivi che esso stesso pone. Non agisce più sui corpi né sulla mente, bensì sulla psiche.

Il Potere ha molta premura nel convincere i popoli alla sopportazione di qualsiasi evento e trasformarlo in elemento naturale dell’esistenza, e per far sì che questo accada, si serve di enormi strumenti di propaganda. Lascia intendere che taluni fenomeni non derivino da alcuna responsabilità e che siano slegati dalla sua azione. Anzi il Potere non ha azione. Non c’è bisogno, quindi, di alcuna reazione.

Anche l’immigrazione viene descritta come fenomeno ineluttabile, al pari di una catastrofe naturale, e i cittadini devono far sì che essa ricada sulle loro spalle con gioia, che venga percepita come un’enorme possibilità di progresso. Anzi qualsiasi critica politica all’immigrazione viene immediatamente rinchiusa nel recinto dell’intolleranza, per cui, come per i debiti, si agisce sulla colpa, la colpa del fannullone parassitario che non accoglie lo straniero, per poter vivere, ancora una volta, al di sopra delle proprie possibilità.

Ma l’accoglienza per lo straniero non ha nulla a che vedere con il fenomeno politico dell’immigrazione. Come ogni fatto politico anche l’immigrazione si misura per le cause che l’hanno provocata – come oggi lo sono le guerre esportatrici di democrazia compiute dall’Occidente, che ha ormai uno spirito di autoflagellazione, nel momento in cui apre indiscriminatamente frontiere e tende ad annullare tutti i confini – e per le conseguenze che essa porta alle comunità. Non è neanche giudicabile dall’esatta individuazione delle cifre statistiche che accompagnano il fenomeno, ma è da misurarsi per l’impatto che esso provoca in un gruppo omogeneo di persone che si è dotato di strumenti che permettono lo sviluppo sociale. In due parole dalla capacità di assorbimento che un popolo può avere nei confronti dello straniero.

Questi concetti erano un tempo assolutamente pacifici nel mondo socialista e così si esprimeva, difatti, Oskar Lafontaine nel 2004: “Un’ immigrazione lenta, graduale, controllata, rende l’integrazione possibile. Un’ immigrazione che mette alla prova le capacità di accoglienza della gente e dell’economia crea ghetti, tensioni, problemi. Cioè terreno di coltura di disordini sociali con alta disoccupazione e criminalità”.

Il movimento socialista ha storicamente individuato la questione migratoria come una sostanziale minaccia per i lavoratori nello scontro con il capitale, così era affrontato il problema negli Stati Uniti nella fine dell’Ottocento e cioè prima che i sindacati d’ispirazione anarchica e socialista fossero spazzati via dalla repressione del Governo Statunitense.

Difatti così si esprimeva nel 1891 la figlia di Karl Marx, Eleanor, in una lettera inviata al sindacalista americano Samuel Gompers “La questione più immediata è impedire l’introduzione di lavoro sleale da un paese all’altro, vale a dire lavoratori i quali non conoscono le condizioni della lotta di classe in un determinato paese e che questi siano importati dai capitalisti in questo stesso paese, per abbassare i salari o allungare il tempo di lavoro, o per entrambe le cose”.


Oggi la questione socio-economica, la creazione da parte del grande capitale di quello che veniva definito l’esercito industriale di riserva non viene neanche lontanamente messa in relazione con il fenomeno migratorio, anzi è un proliferare di movimenti no-borders, i quali auspicano un’apertura senza limiti delle frontiere, così come immaginato dal capitalismo finanziario che promuove, per interessi mercantilistici, la libera circolazione di capitali, merci e persone. Il paradosso consiste nel fatto che oggi l’Europa non è nelle condizioni, come lo poteva essere l’America di fine 800, di gestire i flussi migratori a causa della già persistente disoccupazione e delle politiche deflazionistiche provocate dalle scelte ordo-liberiste.

Lo spostamento culturale a favore delle ragioni del Capitale appare evidente nel momento in cui si avvera una delle più marcate incongruenze derivanti da questo atteggiamento e cioè quando si afferma che i migranti farebbero lavori che nessuno, tra gli autoctoni, vorrebbe più fare. E ci mancherebbe altro, verrebbe da dire! Non solo si proteggono le condizioni disumane nelle quali essi sono costretti a lavorare, eliminando, così, con un colpo di spugna, anni di conquiste sociali, ma, in casi estremi, si proteggono fenomeni di sfruttamento assimilabili allo schiavismo, per di più, in mano alla criminalità organizzata, come avviene per il fenomeno del capolarato.

Oggi il Potere, però, non si accontenta di tenere fermi i salari e di silenziare, in questo modo, la conflittualità tra capitale e lavoro, ma fa un passo in avanti. L’economia finanziaria, difatti, non ha un sostanziale bisogno del lavoro, esso non è centrale nel rapporto produttivo, proprio perché non c’è produzione. Per questo l’esercito irregolare di riserva serve a far accettare l‘idea che il lavoro non corrisponda più a un diritto, bensì che si tratti di una concessione elargita da capitalisti filantropici e che vada accettato a qualsiasi costo. L’idea è ribadita nel momento in cui anche la sfera pubblica propone l’inserimento dei migranti nei piani dei lavori socialmente utili e gratuiti.

Ma nelle metropoli occidentali avviene qualcosa di ancora più sottile, nel momento in cui, appunto, il Potere costringe i cittadini a fare i conti con la visione della nuova povertà. Ciò che un secolo di lotte e di coscienza collettiva aveva cancellato dalla società ritorna prepotentemente, come se l’America degli anni 50 o l’Europa della prima industrializzazione fossero, di colpo, ridiscese da uno schermo cinematografico. Nelle strade, lungo i fiumi, tra i binari delle ferrovie, esiste un popolo sommerso che riabitua alla visione dei poveri, anzi, assuefà alla condizione di indigenza. Da qualche anno tutto questo fa talmente parte del nuovo paesaggio urbano che l’impoverimento del vicino di casa non fa più notizia. Il monito, sottinteso, con cui ammonisce il Potere, è che oggi risulterebbe anacronistico progettare un’esistenza riempita da vecchie sicurezze. Ciò che hanno rappresentato le lotte sociali novecentesche diventano difese di privilegi insopportabili di fronte al dramma degli accampamenti di fortuna. A quel punto gli autoctoni che perdono tutto, a causa del cinismo neo-liberista, sono confusi nella folla di nullatenenti globalizzati.

L’opinione pubblica, in questo nuovo contesto, ridipinge il povero come un vagabondo, colpevole di non avercela fatta e quindi non meritevole di tutele. Il mendicante non è vittima del sistema, delle condizioni macroeconomiche, ma è solo vittima delle proprie colpe. Nella società cannibalizzata e competitiva chi perde tempo è un vizioso oziante, un perdigiorno che non ha il coraggio dell’imprenditore di se stesso, che non sfida tutti per il successo.

Ma, dall’ industrializzazione in poi, il passaggio storico nel quale il povero ha assunto una propria dignità, una sua dimensione storico/culturale, è riconducibile all’avvento del socialismo che lo ha ridefinito come proletario, come individuo che poteva avere orizzonti di libertà e di riscatto, attraverso quella che era percepita come una comunità. Comunità che aveva ideali di fratellanza internazionale ma logicamente connessi alla lotta nazionale per la salvaguardia della propria dignità. Questi ideali oggi sono soppiantati dal cosmopolitismo di origine borghese che promuove un’esistenza imperniata su valori che dovrebbero valere per tutti gli esseri umani ma che sono slegati dalle condizioni socio-economiche e che lasciano i poveri privi di prospettive politiche, abbandonati al loro destino.

Per questo è facile far passare il convincimento che lo Stato non debba predisporre politiche redistributive, da un lato, o piani economici per il lavoro, dall’altro. Manca ciò che era fondamentale un tempo, la solidarietà di classe per pungolare, in forma dialettica, il capitale. Ciò che non può essere assorbito dalla società si sviluppa con sentimenti non empatici nei confronti di chi è percepito come estraneo. La classe media impoverita non potrà, in questo modo, mai accettare investimenti pubblici che possano diventare anche uno strumento di aiuto per il lavoro, investimenti di cui beneficerebbero anche i gli immigrati.

L’Europa, quella amministrata dai sacerdoti del libero mercato nelle loro asettiche cattedrali di vetro, si trasforma in un lager economico e sociale e si americanizza, così come avrebbero voluto i suoi padri spirituali. Ciò che successe agli Stati Uniti all’inizio del 900 accade oggi in Europa. La prospettiva socialista della buona società, dell’affrancamento della classe, si tramuta in guerra tra poveri, la coscienza di classe è superata dalla coscienza etnica. Ha gioco facile il Potere nel promuovere e far radicare, in questo modo, l’individualismo come unica forma di liberazione del soggetto.

Nel conflitto etnico le città si compongono di ghetti nei quali tutti perdono la propria Storia. I migranti partono come persone e si stanziano come popoli che si rinchiudono, nei luoghi di arrivo, in un tradizionalismo manieristico che è superato dai simboli uniformanti del consumo. La globalizzazione, l’assenza di confini, la Open Society erigono muri invalicabili. I quartieri e le banlieu sono fortini inespugnabili e i ricchi, a loro volta, costruiscono altre mura, quella delle gated communities, i comprensori autosufficienti e impermeabili al mondo circostante. Nei ghetti e nelle cittadelle fortificate della nuova aristocrazia, lo Stato non ha voce in capitolo, il Capitale non ha intermediari.

Ricchi e poveri aspirano alla realizzazione di sé senza alcun legame sociale. Non esistono diritti se non quelli della persona che può e che deve aspirare ad avere tutto. Tutto e subito possibilmente. L‘ideologia manageriale assorbe ogni aspetto dell’esistenza e la fa da padrone anche nei quartieri poveri e negli slums, dove la lotta per la sopravvivenza si colora delle logiche d’impresa e nei quali i boss aspirano alla qualifica di CEO delle loro imprese sommerse.

Nella falsa rappresentazione cosmopolita i segni esteriori la fanno da padrone, si presentano come elementi di civiltà e di apertura mentale. La cucina e la musica rap diventano elementi di omogeneizzazione americanizzata della società composta da individui.

Gli Chef – nuovi affiliati dalla neo-aristocrazia – sono i moderni eroi del consumo senza tradizione, della perdita definitiva dell’identità. Il cibo multietnico si allinea ai ritmi della velocità e della fretta. La cucina globale assimila i tempi del neo-capitalismo, quelli del lavoro 24 ore su 24, quelli dell’istantaneità. Si promuove un ritorno al cibo povero, frugale, ma nel contempo lo si confeziona in pasti veloci o cool: il brunch, l’apericena, il cibo da strada. Il pasto, momento centrale della convivialità familiare, perde la funzione di collante tra esseri umani che, un tempo, fortificava i rapporti. Il cibo tradizionale viene immiserito con porzioni minimali che lo slegano dai vecchi momenti tradizionali, il pranzo e la cena, dove regnava la lentezza dei tempi d’attesa che, a sua volta, era impreziosita dai profumi che irradiavano le case, i palazzi e i quartieri. Il cibo internazionale, invece, viene occidentalizzato, per renderlo digeribile da chiunque, cosicché esso perde anche il valore della conoscenza. Sotto questo aspetto il cibo ha una funzione preminente per far sì che ogni popolo smarrisca, progressivamente, il proprio senso di appartenenza, e perché si uniformi al modello imposto dal pensiero unico.

Nel rap tutte le contraddizioni sono esplicitate. Si esalta la gang, come gruppo chiuso e ipocritamente identitario ma al contempo ogni etnia, attraverso la musica rap, si uniforma a un unico modello, che è profondamente americano, competitivo e consumistico. L’espansione di sé nel rap è tratto costituivo dei testi. L’artista, ancora escluso dal successo, si proietta nel mondo come chi dovrà farcela contro tutti e contro tutto, in uno status di malinconica frustrazione, e, lo stesso, una volta raggiunto il successo, narra di avercela fatta, sempre contro tutti e contro tutto. La gestualità e la lingua perdono il senso storico di appartenenza alla comunità, tutti si muovono, parlano, gesticolano allo stesso modo. Viene soppresso il valore della società. I simboli esibiti dai cantanti rap sono riconducibili alla merce e al possesso della roba, che l’ex frustrato ostenta nella raffigurazione del proprio prestigio. E’ un proliferare di macchine, gioielli, sesso, ville. Il rap esalta la società neo-liberista, la quale promuove la carneficina individualista e soppianta le culture di appartenenza e di classe che ponevano freni, ormai obsoleti, alla mercificazione dell’esistenza.

La medesima frustrazione è visibile nelle rivolte dei ghetti, nelle globali manifestazioni contestative e impolitiche dove l’unico gesto possibile è la distruzione dei simboli del consumo, le merci, alle quali tutti aspirano e che in pochi possono possedere. Fa la comparsa un neo-luddismo demenziale nel quale si distruggono vetrine, si sfasciano macchine, si fanno a pezzi i bancomat. I manifestanti sono irriconoscibili e indistinguibili l’uno dall’altro, dato che assumono le medesime vesti in ogni parte del mondo, e nelle quali la politica è esclusa. E’ l’Internazionale delle race riots. Al singolo individuo è affidata la rottura del patto sociale, proprio come in America, dove, storicamente, si esalta – nella letteratura, nel cinema – la figura del gangster o del criminale che, da solo, e senza alcuna funzione politica, sfida le convenzioni dettate dal sistema.

Le popolazioni vivono un doppio sradicamento, sia quelle che ospitano sia quelle che arrivano, e il vuoto è colmato dall’americanizzazione dei costumi. Per evitare ciò occorrerebbe che le migrazioni possano essere percepite come sopportabili e che i popoli possano ritrovare una loro dimensione storica, artistica e culturale che non coincide con un banale identitarismo. A riprova di ciò è necessario sottolineare come i lavoratori extracomunitari, quelli inseriti nel tessuto economico e sociale del paese ospitante, siano stati sempre in prima linea nella difesa del lavoro e che tra loro e gli autoctoni si siano sviluppati duraturi sentimenti di reciproca solidarietà. Qualora non si lavori per un’ immigrazione sopportabile la nostra società si affiderà, ancora di più, a valori imperniati su un nuovo darwinismo sociale, nichilista e indifferente, nel quale anche gli esclusi competeranno tra di loro in quello che è stato definito il “capitalismo senza denaro”.

5 pensieri su “IMMIGRAZIONE E AMERICANIZZAZIONE di Ferdinando Pastore”

  1. Anonimo dice:

    Cosa ne pensa Karl Marx dell’immigrazione ?"All'epoca, l'opinione corrente era che, se le comunicazioni con l'Irlanda fossero state potenziate quanto quelle all'interno dell'Inghilterra, si sarebbe imposta un'equiparazione delle condizioni dei lavoratori dei due paesi (Collinson Black R.D., Economic Thought and the Irish Question, 1976). Secondo Marx, le conseguenze più gravi di questi processi non erano tanto quelle di carattere "materiale", ma consistevano nella divisione che la borghesia cercava di creare nel proletariato, fomentando tra i lavoratori inglesi sentimenti di paura, ostilità e razzismo contro quelli immigrati. Questi sentimenti trovavano terreno nella competizione al ribasso che si trovavano involontariamente a esercitare i lavoratori irlandesi, i quali, d'altra parte, vedevano in quelli inglesi i complici del dominio coloniale sul proprio paese. L'operaio inglese, "rispetto all'operaio irlandese, si sente membro della nazione dominante e si trasforma così in un suo strumento che gli aristocratici e i capitalisti del suo paese usano contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il dominio nei suoi stessi confronti. Egli si culla nei pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese. Il suo atteggiamento è molto simile a quello dei bianchi poveri nei confronti dei negri nei vecchi stati schiavistici degli Stati Uniti. L'irlandese gli restituisce tutto ciò con gli interessi. Egli vede infatti nel lavoratore inglese sia il complice che lo strumento stupiido del dominio inglese in Irlanda. Questo antagonismo è artificialmente mantenuto dalla stampa, dai pulpiti e dai fumetti; in breve da tutti gli strumenti di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese malgrado la sua organizzazione. E' il segreto che permette ai capitalisti di mantenere il potere. E questi ultimi lo sanno molto bene" (Lettera di Marx a Sigfrid Meyer e August Vogt del 9 aprile 1870, in Marx Engels, Sull'Irlanda, cit, p. 358)" [Lucia Pradella, L'attualità del 'Capitale'. Accumulazione e impoverimento nel capitalismo globale, 2010]

  2. Anonimo dice:

    Mi ci ritrovo molto in questo articolo. A parte la solita retorica contro una musica che evidentemente non piace all'autore.(Mi ha ricordato i detrattori al tempo di Marlyin Manson, che insistevano sul fatto cha la sua musica incitasse al suicidio)Giordano.

  3. Anonimo dice:

    Caro anonimo, dimentichi una cosa.Che Karl Marx non ne traeva la conclusione che bisognava realizzare barriere fra Irlanda e Inghilterra per impedire l' arrivo degli Irlandesi o che bisognava rispedirli in patria, bensì che si doveva lottare, proletari Irlandesi e proletari Inglesi, ciascuno facendo la sua parte nella lotta comune, per la liberazione del' Irlanda dal giogo coloniale.Giulio Bonali

  4. Anonimo dice:

    sono l'anonimo delle 12.09 ( da ora in poi Moreno ) che ha citato Marx@Giuli Bonalinon lo dimentico , anzi sono pienamente d'accordo con te .. e le stesse conclusioni sono già presenti nel testo che ho citato : proletari tutti uniti contro il capitale che ha invece interesse a dividerli creando odio tra proletari . Stesso ragionamento presente in tante altre opere di Marx . Moreno

  5. Anonimo dice:

    @MorenoGrazie per la precisazione (preciso a mia volta che il mio commento intendeva essere polemico del tutto in generale verso certe "interpretazioni" dell' atteggiamento dei classici sull' emigrazione che circolano "a sinistra" in rete e un po' anche in TV).G.B.

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