LELIO BASSO E LA QUESTIONE DEL FEDERALISMO di Alessandro Visalli
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Lelio Basso |
[ 8 aprile ]
«La questione non è, precisa, il superamento dello Stato Nazionale in sé, ma che: “Poi in pratica è successo che nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello ‘proletari di tutti i paesi unitevi’ i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati”».
Un intervento del senatore socialista Lelio Basso, nel giugno 1973, ad un convegno sul Federalismo europeo mi pare di qualche interesse. Il senatore Basso è una grande figura del socialismo della prima parte del secolo scorso, nato nel 1903 e morto nel 1978, nell’anno in cui tante cose nel paese e nella sinistra giungono ad una svolta, l’anno della SME, quando Eugenio Scalfari scrive le sue “parole al vento” (ma profetiche), quello in cui Luciano Lama spinge per i “sacrifici”, quello in cui non si vedono le “contropartite”, ma, certo, si vedono le pallottole.
Lelio Basso era avvocato, ma prese anche una seconda laurea in filosofia, è stato come antifascista molte volte arrestato e mandato al confino, partecipò alla Resistenza e all’insurrezione di Milano in posizione apicale, fu il direttore dell’esecutivo del PSIUP, “Alta Italia” al quale partecipavano Rodolfo Morandi e Sandro Pertini. Fu eletto alla Costituente, e rivesti cariche di grande rilevanza nel suo partito, ne fu Segretario generale (1948) e poi membro della direzione (1949-51; 1957-64), nel PSI rappresentò la tendenza a una politica di collaborazione con il PCI. Quindi, nel 1964 fu tra i promotori della scissione dell’ala sinistra del PSI, che diede vita al PSIUP di cui fu Presidente e che abbandonò per divergenze di giudizio sull’invasione sovietica in Cecoslovacchia. Basso fu ininterrottamente deputato dal 1948 e senatore (per la sinistra indipendente) dal 1972.
Grande studioso del marxismo e direttore (dal 1958 al 1976) della rivista Problemi del socialismo, nel 1969 fondòl’Istituto per lo studio della società contemporanea e fu Presidente del Tribunale Russell 2º per l’America latina (da 1974 al 1976); quindi nel 1976 ad Algeri fu tra i promotori della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli. Tra i suoi scritti si deve ricordare “Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana” (1958); la raccolta degli “Scritti politici di Rosa Luxemburg”, “Neocapitalismo e sinistra europea” (1969).
In questo intervento, che andiamo a rileggere dall’ampio archivio della Fondazione Basso, l’anziano socialista luxemburghiano (e dunque in qualche modo iper-internazionalista), ad un convegno di federalisti, tra i quali spicca il Presidente dell’IRI, il democristiano Petrilli, esprime i suoi punti di consenso, ma anche di dissenso.
L’avvio è in qualche modo ambiguo, sembra lodare lo spirito utopico di Petrilli, a partire dal suo testo che si commenta nel convegno. Ma Petrilli (nato nel 1913 e morto nel 1999) era stato Commissario Europeo per gli Affari Sociali, indicato dal suo partito, la DC, e poi, dal 1960 (lo resterà fino all’anno successivo, il 1979) Presidente della potentissima IRI. In pratica dell’industria italiana. Dal 1970 l’IRI era sotto attacco, la sua gestione dirigista lo era in particolare; lo scontro con il Presidente dell’Alfa Romeo, alla quale voleva imporre di aprire uno stabilimento nel collegio elettorale del potente De Mita (Ministro dell’Industria all’epoca), era appena stata consumata (1974), inoltre alcuni scandali finanziari lo rendevano traballante.
Di questo uomo, certo potente, Basso dice: “quella [relazione] che ha attirato di più la mia attenzione è quella del prof. Petrilli – io sono un politico e mi sono interessato soprattutto all’analisi della situazione attuale della Comunità -; e mi è piaciuta, in particolare, l’affermazione di un bisogno di utopia. Conoscevo già un certo debole del prof. Petrilli per l’utopia: ho letto il suo libro sul fondatore dell’utopia moderna, Tommaso Moro; ma non conoscevo Petrilli come utopista militante, che milita anche nei giorni feriali, in favore dell’utopia anche se, proprio nei giorni feriali, egli è il più grosso imprenditore in Italia, e dirige con estrema competenza la più complessa articolazione aziendale del nostro paese. Questa unione, questa capacità di duplicità di aspetti, mi ha sedotto”.
C’è una certa malizia, credo, in questo incipit. “L’utopista” è uno dei più pratici e spregiudicati manager pubblici italiani, un uomo di assoluto potere.
Subito dopo Basso, passando sul registro dei ricordi personali, con leggerezza e grazia, attacca frontalmente il caposaldo simbolico del pensiero federalista: il “Manifesto di Ventotene”. Ricorda, infatti, di averlo ricevuto appena ritornato da un Campo di Concentramento dalla sua buona amica, Ursula Colorni, moglie di Eugenio, e poi diventata la moglie di Altiero Spinelli. Di Ursula Hirschmann, era buon amico da tanti anni, e riceve il Manifesto con preghiera di sottoscriverlo. Ma Lelio Basso ricorda di aver dato un parere negativo.
Malgrado i vincoli di amicizia con i tanti coinvolti, l’elemento inaccettabile è lo stesso che, dice di passaggio, è sottolineato anche da Petrilli: la priorità della battaglia politica per il federalismo su tutti gli altri aspetti.
La questione non è, precisa, il superamento dello Stato Nazionale in sé, ma che nella pratica, cito: “Poi in pratica è successo che nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello ‘proletari di tutti i paesi unitevi’ i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati”.
Ecco, Petrilli se ne è ricordato.
Quindi sono i capitalisti che “hanno fatto l’internazionalizzazione nelle grandi ‘multinazionali’, mentre il movimento operaio è rimasto a livello nazionale”.
Ci sono delle cose che possono essere riprovate, ma che non per questo scompaiono.
In questa condizione di fatto, non si può porre la battaglia per il superamento del nazionalismo davanti a tutte le altre. Con le sue parole: “Una battaglia politica per il superamento del nazionalismo, delle nazionalità degli stati nazionali, nel tentativo di costruire un’Europa federale, mi trova totalmente consenziente. Non mi trova invece consenziente il problema della priorità di questa battaglia su tutte le altre”.
Non è condivisibile per Basso che nel Manifesto si dica: “Lasciamo andare la battaglia entro i confini nazionali per la democrazia e per il socialismo e poniamo come compito prioritario quello del federalismo” .
Alla fine in questo modo, noi che abbiamo il vantaggio di ulteriori quaranta anni di esperienza dello scorrere degli eventi, l’uno obiettivo (il federalismo contro lo Stato nazionale) ha finito per andare direttamente contro sia la democrazia sia il socialismo. Alla fine diventa uno strumento per eliminare l’uno e svuotare l’altra.
Bisogna avere un senso storico, leggendo queste vecchie carte, chi scrive ha visto dello Stato nazionale la faccia peggiore, obiettivamente feroce. Lelio Basso, Ursula Hirschmann (il cui marito, Eugenio è ucciso dai fascisti), lo stesso Altiero Spinelli, hanno davanti agli occhi il balcone di Palazzo Venezia o il Reichstag, quando pensano allo Stato. Anche dopo, vedono una democrazia piuttosto incompleta, un paese in cui il potere è immutabile, in cui ogni governo sussegue all’altro sempre entro lo stesso partito. In questo 1973 hanno ancora negli occhi le immagini di Piazza Fontana, della strategia della tensione, a maggio la questura di Milano, purtroppo seguirà l’Italicus e Bologna.
Ma la federazione europea era di là da venire e bisognava andare un passo alla volta, prima battersi per la democrazia, dalla quale sarebbe stato favorito lo sviluppo federale, non questa da quello. La democrazia deve essere una “precondizione”.
Invece, Basso, evidenzia un meccanismo che in qualche modo richiama senza citarlo il vaticinio di Hayek di trenta anni prima: come temono i democratici danesi il federalismo a livelli disuniformi di democrazia rischio di far assestare sul livello inferiore. In particolare i danesi temevano la poca democraticità italiana.
Ma c’è di più, in questo testo del ’78, dicono ancora i danesi: “certo avremo difficoltà, per molto tempo ancora, prima di costruire uno stato federale con i tedeschi. I tedeschi li abbiamo conosciuti in casa nostra durante la guerra. La Germania oggi non è più nazista; ma ci sono malattie che possono covare allo stato latente e poi esplodere, e questo procedere verso una Comunità politica è già un freno”.
La soluzione di Basso è che prima di procedere verso uno stato federale di qualsiasi genere bisogna garantire che nei paesi ci sia un livello di effettiva democrazia simile. Un “tessuto omogeneo” con il suo “elemento fondamentale [che] consiste nel rapporto tra cittadino e stato”. Per questo “la battaglia per la democrazia nei singoli paesi debba essere prioritaria rispetto ai fini federalisti”.
Ma Basso ricorda anche il dibattito per la ratifica dei Trattati di Roma, ne abbiamo dato contro qui.
Quando il Partito Comunista prende una posizione negativa (qui e qui) argomentando, secondo il senatore socialista, per la “sovranità nazionale”. Quella sovranità che Basso considera, data la sua esperienza, “un relitto del passato”. Tuttavia i comunisti ricordavano anche che la Comunità era un figlio della guerra fredda. Il Partito Socialista si spaccò tra chi voleva votare contro, insieme ai Comunisti, chi voleva votare a favore, e chi (come lui) che scelse l’astensione (che poi si impose).
Basso, dice che la sua posizione era: “Non d’accordo con il no, perché consideravamo che nel fatto di superare gli stati nazionali, nel creare il principio di Comunità c’era, almeno in embrione, un elemento di possibile futura sopranazionalità. Si trattava d’un aspetto positivo in se stesso, politicamente ed economicamente. Ma la strumentazione dei Trattati, il modo come veniva realizzata la Comunità, la fondamentale antidemocrazia di tutta la struttura istituzionale della Comunità ci trovava totalmente all’opposizione. Dicevamo sì al fatto che si andava al di là dei confini nazionali; dicevamo no al modo come i Trattati di Roma avevano organizzato questa nuova istituzione”.
La spinta sovranazionale era stata, in sostanza, strumentalizzata da forze ad essa autonome, che lavoravano per ridurre la democrazia, allontanare il socialismo e spingere gli accordi monopolisti (si veda in questo la relazionedell’on Pajetta).
Si legge qui, quaranta anni fa la stessa generosa posizione che ancora oggi viene portata avanti da tanti: “La Comunità, ma una Comunità diversa, una Comunità più democratica, più rispondente a quella che è la nostra visione dei rapporti umani, sociali, economici nel mondo. Questa rimane tuttora la mia posizione”.
Ora, dal 1957 al 1973 il giudizio che Lelio Basso dà della Comunità Europea è di aver tradito le premesse, “uno dei fini era quello di superare gli squilibri; viceversa la Comunità li ha aggravati”. Quindi “ha dato prova negativa”.
Nel seguito Basso, come dice lui stesso, “divaga un poco”, ma trova il tempo di dire che la vita comune è profondamente alienata, disumanizzata, dal momento che “ciascuno di noi viene strappato ad ogni possibilità di vita comunitaria (non mi riferisco alla Comunità europea, ma alla comunità in cui viviamo). I rapporti in cui viviamo sono anonimi, ognuno è depauperato della sua personalità”.
Quindi, spostandosi a valutare la dinamica europea, chiarisce che il problema nasce dal fatto che alcune forze operano catturate dal livello nazionale, mentre le società multinazionali, che operano al livello superiore, “sottraggono i centri decisionali a coloro che di quelle decisioni sono poi le vittime”.
Le società multinazionali sono un potere senza contropotere.
Insomma, il punto, anche per un iper-internazionalista come il senatore Basso, è che anche se la “sovranità nazionale” non gli interessa, come dice, gli interessa la “sovranità democratica”.
Lelio Basso spiega l’articolo 3 della Costituzione Italiana, evidenziando come l’ineguaglianza rende ineffettiva l’eguaglianza e quindi la democrazia.
Come ricorda nella Costituzione fu scritto che “L’Italia è una repubblica democratica”, ma “fondata sul lavoro”, ma fu precisato che la “sovranità appartiene al popolo”.
Questa, non è una “frase di stile”. Come dice, e vale leggerlo: “Le costituzioni in genere hanno sempre detto ‘la sovranità emana dal popolo’, ‘risiede nel popolo’; ma un’affermazione così rigorosa, come ‘la sovranità appartiene al popolo che la esercita’ era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della ‘sovranità statale’, di quella francese della ‘sovranità nazionale’, noi abbiamo affermato la ‘sovranità popolare’ quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo”.
Cosa comporta questo “tenere”?
Che “quando arrivano al Parlamento i ‘regolamenti comunitari’ e ci si dice ‘sono obbligatori’ perché così prevede il Trattato di Roma, io reagisco. A questo proposito ho fatto una lunga battaglia, mi pare nella legislatura passata. Sono riuscito, per tre anni, a tenere in scacco il governo sulla richiesta di delega per approvare questi, ‘regolamenti comunitari’, con provvedimento delegato. La mia battaglia non era contro il contenuto dei ‘regolamenti comunitari’, ma voleva sottolineare un aspetto costituzionale. Posi allora, e non solo io, ponemmo in parecchi – naturalmente fummo messi in minoranza – il problema della validità di questa norma del Trattato, perché, secondo la nostra Costituzione, le leggi vengono approvate dal Parlamento: non ci può essere una legge, senza approvazione del Parlamento. Quando si dice che un certo Trattato ha delegato ad un’Autorità Comunitaria la facoltà di emanare provvedimenti obbligatori, diciamo che quel Trattato dove va essere ratificato con legge costituzionale, perché era una modifica della costituzione. Senza legge costituzionale, a nostro avviso, quei Trattati, almeno per quel che si riferisce alla legge di ratifica, almeno per quanto riguarda quella disposizione, non potevano essere validi. Il Parlamento non può essere spogliato della decisione. Naturalmente chi ha sostenuto questa tesi ha avuto torto. Dopo tre anni di battaglia sono state approvate quelle norme comunitarie che noi avevamo tenute ferme. Però io continuo a considerare che qui quello che conta non è che l’Italia viene spogliata della sovranità nazionale, ma viene spogliata della sovranità popolare, democratica, perché noi abbiamo degli organi, come la Commissione Comunitaria o degli organi puramente di potere esecutivo, come il Consiglio dei ministri, che approvano le disposizioni di legge, non avendone, il potere, secondo la nostra Costituzione”.
Ho riportato a lungo questo testo, del “Costituente” Lelio Basso, perché è espressivo degli scontri che sono stati superati e dimenticati.
“Quella che viene calpestata non è la sovranità nazionale, alla quale possiamo benissimo rinunciare, a condizione che sia rispettato, però, il fondamento della sovranità, che per noi è sempre il popolo e deve essere il popolo”.
Sulla coda l’ultima perla: “è anche da valutare, quando pensiamo ad un movimento federalista che arrivi a superare gli stati e i nazionalismi. … non dimentichiamo che l’uomo deve essere ancorato non solo ad una grande comunità, ma anche alla piccola comunità dei giorni feriali”.
L’uomo non è fatto solo di astratti diritti.
* Fonte: Tempo fertile