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LA FASE STORICA IN CUI SIAMO E LA NOSTRA STRATEGIA POLITICA (prima parte) di Manolo Monereo

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[ 25 maggio 2017 ]

«La fase che si apre non sarà caratterizzata dall’ordine, dalla pace e dal cosmopolitismo liberoscambista, bensì dal conflitto, dalla lotta tra le grandi potenze per stabilire le zone di influenza e la ripartizione delle risorse del pianeta e, disgraziatamente, dalla guerra».

Pubblichiamo la prima parte di un potente articolo del compagno Manolo Monereo, comparso in Spagna col titolo “I DILEMMI STRATEGICI DI PODEMOS: LA SPERANZA COME PROBLEMA POLITICO”.
La grande sfida di Podemos è stata la sua pretesa di essere una forza politica con una volontà di governo e di potere, ma per consegnarlo al popolo. Per questo Podemos è l’obiettivo da battere. Ecco perché i poteri reali —la trama— lo combattono col fuoco (e l’inchiostro)
In ricordo di Pietro Barcellona
1- Elementi della situazione spagnola : la crisi del regime rimane aperta
Podemos ha vissuto la sua prima crisi. Si potrebbe dire che siamo di fronte ad una crisi nella crisi. Mi spiego. Quasi nessuno dubita che viviamo un certo tipo di transizione, un cambiamento di regime dello stesso regime verso un altro che si va definendo gradualmente e la cui risultante finale sembra chiara. Si va consolidando una democrazia limitata e non sovrana in cui domina in modo chiaro ed esplicito un’oligarchia finanziaria-aziendale-mediatica, con l’obiettivo di costruire un modello di società basata sulla disuguaglianza, la scomparsa dei diritti sociali, la precarizzazione del modo di vita delle maggioranze sociali la disintegrazione finale del movimento operaio come soggetto politico e sociale. La politica. Sempre al posto di comando grazie al potere statale e con lo Stato, agisce per cambiare regime e modello sociale.
Un altro aspetto della situazione ha a che fare con quella che potremmo chiamare l’autonomia del politico. Se qualcosa sta dimostrando la ricomposizione economica e sociale dei paesi meridionali della Unione europea è che quando la crisi arriva, i poteri economici forti, come ci dice Wolfgang Streeck, si convertono in soggetti attivi —in agenzie— nel subordinare politica e istituzioni ai loro interessi generali. La crisi sempre disvela i poteri reali, anche a costo che questi perdano legittimità, e il problema del potere appare e diventa evidente per una parte sostanziale della popolazione. In Spagna questo è stato vissuto in modo molto chiaro. Si può dire che i poteri, ciò che noi chiamiamo la trama, sono intervenuti sui principali partiti politici e ci hanno provato con Podemos.
La crisi di regime, che in un modo o in un altro si tenta di chiudere, ha molto a che vedere con la necessità di trasformare, cambiare e cooptare i partiti politici fondamentali. Le ultime elezioni hanno chiarito molto il panorama politico ed elettorale. Era chiaro che il partito chiave per assicurare la ricomposizione del regime – che noi chiamiamo restaurazione – era il Partito Popolare e, in particolare, il suo segretario generale, Mariano Rajoy. Questo non è mai stato facile e l’attuale capo del governo ha dovuto lottare duramente per riuscire a diventare l’elemento guida di un progetto politico al servizio dei gruppi economici di potere dominante.


Ciudadanos si è venuto quindi chiarendo. Creato per frenare da destra Podemos, è diventato sempre più un partito di cardine, difensore ad oltranza di posizioni neoliberiste dal discorso politico fortemente polarizzato contro il sovranismo catalano e molto vicino al “costituzionalismo nazionale” che difende il PP. La situazione di Ciudadanos è complicata perché è obbligato a sostenere il PP, il che implica che finisce per legittimare indirettamente un partito fortemente segnato dalla corruzione. Al momento della verità, quando il PP cerca un accordo, preferisce accordarsi sempre con il PSOE. In qualche modo, Mariano Rajoy è costretto a svolgere il ruolo di uomo di stato, cioè, deve affrontare il PSOE e, allo stesso tempo, evitare che quest’ultimo finisca per disintegrarsi o perdere rilevanza elettorale, ciò che avrebbe comportato che Unidos Podemos diventerebbe l’unica forza di opposizione.

Il risultato più significativo di questa situazione è la crisi del PSOE. E’ noto che il partito di Felipe González è stato, per molti versi, il partito di regime e il bipartitismo politico il fondamento di esso. Il partito socialista riuscì, per un periodo importante, a far convergere gli interessi dei poteri economici dominanti con un miglioramento del tenore di vita e delle condizioni di lavoro delle strati popolari in senso lato. Questo finì con la crisi del 2008.

Il governo socialista di Zapatero accettò drastici sacrifici e le politiche di austerità imposte dalla Troika, cosa che fu percepita dalla popolazione come una rottura del contratto sociale garantito dalla Costituzione e come un colpo di stato organizzato e diretto dai grandi poteri economici che riuscirono a cooptare la classe politica e mettere lo stato al loro servizio. Il fattore decisivo fu la nascita e lo sviluppo del movimento degli indignados del 15M che rivendicava una vera democrazia, la difesa dei diritti sociali e sindacali e forme alternative per fare e organizzare la politica.
In questo contesto nasce e si sviluppa Podemos.


Il gruppo dirigente socialista – costruito tutto intorno a Pedro Sanchez –  provò a muoversi in un Paese che stava cambiando rapidamente, con un triplice obiettivo: ottenere l’appoggio dei poteri economici e mediatici, polarizzarsi fortemente con la destra del PP per indebolire Podemos, e, ove possibile, dividerlo per sottrargli consenso elettorale. Sanchez ha sempre seguito questa linea, non ha mai assecondato i desideri della destra economica e politica di formare un governo di coalizione o di “larghe intese”. I motivi erano evidenti: se il PSOE fosse scomparso come opposizione, l’unico beneficiario sarebbe diventato Podemos e quindi la crisi del regime si sarebbe aggravata. La manovra tattica di Pedro Sánchez si è basata fin dall’inizio nel convincere quelli che comandano realmente che il futuro del regime obbligava a sconfiggere Podemos e che questo non si sarebbe potuto raggiungere senza un partito socialista contrapposto alla destra.

Ciò che è accaduto dopo è già ben noto. Fallimento della alleanza tra PSOE e Ciudadanos, indizione di nuove elezioni e avanzata del PP. Come ho detto prima, le elezioni del 26 Giugno 2016 portavano Mariano Rajoy al centro della ricomposizione del regime. Pedro Sánchez non lo capì e continuò con il vecchio schema senza rendersi conto che né all’interno del partito né fuori erano disposti a rischiare nuove elezioni generali. Si può dire che il PSOE fu pressato dai poteri che alla fine costrinsero alle dimissioni di Pedro Sánchez, dando avvio ad un processo congressuale dall’esito incerto. La cosa più sorprendente è il ritorno di Pedro Sánchez con un discorso ancorato a sinistra e aperto alla cooperazione con Unidos Podemos.

In questo contesto si svolge Vistalegre 2, il congresso di Podemos.Cosa è Podemos? Non è facile da definire. Si tratta di un movimento eterogeneo, in cui convergono, almeno, tre fattori: una grave crisi sociale, una critica di massa alla politica, ai modi di farla ed esercitarla, e una profonda crisi generazionale. Per capire che cosa è Podemos le parole chiave sono processo e progetto. Podemos è un progetto in processo di costruzione. Il punto di partenza fu una durissima contestazione dell’esistente da un punto di vista democratico plebeo. Questo lo si denominò provocatoriamente “populismo di sinistra”. Si può dire che Podemos è andato costruendosi – da qui derivano molti dei suoi problemi – sulla base di processi elettorali ricorrenti in cui ha dovuto improvvisare candidati, programmi e struttura organizzativa, il tutto in un contesto caratterizzato da un attacco permanente da parte delle forze di regime che sono ricorsi ad una critica spietata dei loro dirigenti, la sistematica squalifica del progetto e l’uso e l’abuso di fogne di stato.

Il congresso di Podemos ha costituito la sua prima crisi generale. Qual era lo sfondo del dibattito? In primo luogo, le differenze di analisi; in secondo luogo, il problema delle relazioni con le forze politiche e mediatiche dominanti; in terzo luogo, la natura stessa della formazione. La durezza del dibattito è stata molto più esterna che interna. Come avevano fatto con il PSOE, i poteri intervenirono attivamente nel dibattito con l’obiettivo esplicito di sconfiggere la linea politica espressa da Pablo Iglesias. Una cosa da considerare è che hanno votato quasi 150 mila persone e che le tesi politiche e il gruppo dirigente ottennero un solido appoggio, insisto, in condizioni molto difficili per il segretario di Podemos.

Che tipo di Podemos esce dal Congresso? Una forza politica democratico-plebea impegnata con le rivendicazioni maggioritarie della cittadinanza, difensore intransigente dei diritti sociali, sindacali e del lavoro da un punto di vista ecologico e di genere, con un chiaro impegno per la democrazia economica, sociale e culturale che garantisca e renda effettiva la sovranità popolare. Al centro di questo progetto c’è quello che abbiamo chiamato un “impulso costituente” in grado di aprire un processo di cambiamento costituzionale verso una Spagna federale che realmente riconosca i diritti delle nazionalità esistenti dentro lo Stato spagnolo, che cambi il funzionamento delle istituzioni di base e sviluppi le libertà fondamentali delle persone. Sullo sfondo, a legare democrazia, sovranità popolare e “questione sociale” come progetto di liberazione del lavoro nel quadro di progetto alternativo di paese.  

2. Crisi della seconda globalizzazione capitalista: “Situazione populista” e “Momento Polanyi”

Carlo Formenti ha parlato di populismo come una forma di lotta di classe nell’epoca neoliberista. Parafrasando Nancy Fraser, dirò guardando l’altro lato, populismo come forma di lotta di classe nell’epoca post-socialista. Entrambe le cose sono correlate. La vittoria più importante e duratura della controrivoluzione neoliberista è stata quella di aver fatto sparire l’idea del socialismo dalla cultura politica e dal senso comune dei lavoratori. Il vecchio fantasma che si aggirava per l’Europa è scomparso 150 anni dopo con i suoi due postulati decisivi: che il capitalismo era una formazione storicamente determinata, transitoria, e che aveva un’alternativa, il socialismo. Il “populismo di sinistra” occupa uno spazio vuoto: costruire un’alternativa quando l’alternativa di sistema non sembra fattibile o addirittura auspicabile.

Queste discussioni non si spiegherebbero se non partissimo da un punto fondamentale, ovvero la crisi della seconda globalizzazione capitalista. Gli storici concordano sul fatto che tra il 1871 e il 1900 ci fu una prima globalizzazione capitalistica che finì con una sorta di “guerra di 30 anni” [ il periodo che va dalla prima alla fine della seconda guerra mondiale, NdR.]. Oggi siamo alla fine di un ciclo di quel tipo. Oggi come ieri i vecchi dibattiti si ripetono fino al ridicolo. La fase che si apre non sarà caratterizzata dall’ordine, dalla pace e dal cosmopolitismo liberoscambista, bensì dal conflitto, dalla lotta tra le grandi potenze per stabilire le zone di influenza e la ripartizione delle risorse del pianeta e, disgraziatamente, dalla guerra.

Schematizzando molto, si potrebbe dire che questa fase storica è caratterizzata da quattro tratti fondamentali: a) ricorrenti crisi economiche e finanziarie; b) una grande transizione geopolitica, già in atto, che sta causando una gigantesca ridistribuzione del potere al livello mondiale; c) un sostanziale peggioramento della crisi ecologica e sociale del pianeta; d) la crisi dell’ “occidentalismo” intesa come la messa in discussione della modernità come l’abbiamo conosciuta, vissuta e ampliata dall’occidente.

In molti sensi, la vittoria di Donald Trump è un segnale, una reazione dalle viscere stesse del capitalismo nord-americano contro una globalizzazione che essi stessi imposero a tutto il mondo e ora intendono lasciarsi alle spalle. La plutocrazia dominante nord- americana si comporta secondo una strategia preventiva precisa: prepararsi per quello che sta arrivando, anticipare e rafforzare il ruolo di nazione imperiale davanti ad un mondo che cambia rapidamente e ridefinisce i rapporti di forza fondamentali.

Come direbbe Sergio Cesaratto, siamo nel “momento Polanyi”, vale a dire, l’inizio della fase B del doppio movimento che il vecchio socialista cristiano previde. Le società, gli stati e le nazioni cominciano a reagire contro il mercato autoregolato capitalista e il suo tentativo di controllare la vita degli umani determinandone il futuro. Ovunque emerge la necessità – questa è la sostanza della fase B – di protezione, di sicurezza, di controllo sociale sulla paura e la morte. Ovunque ritorna lo stato nazionale come luogo privilegiato del conflitto sociale, contenitore dei processi di democratizzazione e costruzione nazionale popolare. Ovunque abbiamo la crisi di ciò che Nancy Fraser ha definito il “progressismo neo-liberista”, che nelle condizioni della UE significa la crisi della socialdemocrazia nelle sue varie versioni. Non è sorprendente che la risultante ultima di tutto questo processo che si sviluppa rapidamente davanti ai nostri occhi è la rinascita dell’estrema destra, dei populismi di destra estremi e di una radicalizzazione della destra. E’ la conseguenza politica e organica di una sinistra sociale e culturale senza progetto alternativo, elitista, che disprezza il suo stesso popolo, che ha finito per convertirsi nell’ala cosmopolitica della globalizzazione neoliberista

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(continua)

* Fonte: Rebelion
** Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE

Un pensiero su “LA FASE STORICA IN CUI SIAMO E LA NOSTRA STRATEGIA POLITICA (prima parte) di Manolo Monereo”

  1. pasquino55 dice:

    Una analisi politica di fase, quella di Manolo Monereo, che si potrebbe condividere se, come purtroppo tutta la sinistra (e dico tutta, anche quella che fa riferimento e/o si riconosce nelle posizioni sostenute da questo blog) non continuasse cocciutamente e ottusamente a insistere a guardare il dito ignorando la luna accanendosi contro gli effetti e sottacere, coprire, ignorare le cause che li generano. Continuare ad imputare al neoliberismo la responsabilità della degenerazione sociale, morale, culturale e politica del nostro tempo, tralasciando e nascondendo il vero agente infettivo che ne sta alla base e quindi responsabile di quanto sta accadendo, cioè il modello e la concezione liberalista, non può generale altro che la marginalizzazione, l'irrilevanza e la inevitabile sconfitta di chi lo fa. Se gli "anticomunisti", la chiesa cattolica avessero combattuto il comunismo, rivolgendo il loro attacco allo stalinismo "quale forma degenerativa" e non all'essenza stessa di esso, oggi vi sarebbe ancora l'URSS e l'idea comunista praticabile e proponibile. Essi invece avevano ben chiaro (cosa che dovremmo avere anche noi) che per distruggere ed annientare il nemico bisogna colpire e abbatterlo nella sua essenza e non perdere tempo a combatterlo nei vari aspetti e forme che nel tempo esso poteva assumere. Il nostro più odioso, vero nemico era, è, e sempre resterà l'etica e lo spirito liberale e contro di esso va portato il nostro principale attacco e ricostruire la nostra nuova e moderna narrazione.Pasquino55

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