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LA MITOLOGIA DELLE FORZE PRODUTTIVE AL TEMPO DEL LAVORO “IMMATERIALE” di Carlo Formenti

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[ 4 giugno 2017 ]

Qui sotto uno dei capitoli più belli e teoricamente densi del libro di Carlo Formenti LA VARIANTE POPULISTA. Lotta di classe nel neoliberismo.
Molte le cose che questo blog ha pubblicato di Formenti. Segnaliamo en passant la sua risposta ai sui detrattori post-operaisti.

Che esista una certa analogia fra alcuni elementi della mistica evoluzionistica di Teilhard de Chardin E certi aspetti del marxismo, è difficilmente confutabile. Mi riferisco, in particolare, alla fede nell’esistenza di un principio immanente in grado di orientare la freccia del tempo, e a ruolo di catalizzatore/acceleratore del processo evolutivo che entrambi i sistemi di pensiero attribuiscono al progresso scientifico e tecnologico. La crescita del generall intellect, dell’insieme delle conoscenze scientifiche e tecnologiche accumulate dall’individuo sociale – che nella sua formulazione più astratta sembra evocare un’entità vagamente simile alla Noosfera – é il fattore decisivo su cui Marx fonda la convinzione che nella società capitalistica possono svilupparsi elementi di socialismo. 

Carlo Formenti

L’idea secondo cui la rivoluzione socialista obbedirebbe a una logica in qualche modo simile a quella della rivoluzione borghese – il nuovo modo di produzione matura all’interno di quello precedente, nel senso che il capitalismo crea le condizioni materiali del proprio superamento, così com’era avvenuto per la società feudale – da qualche tempo è tutta via al centro dei dubbi riflessioni critiche anche da parte di intellettuali di formazione marxista. Dardot e Laval, per esempio, sottolineano in più occasioni quanto sia arduo rintracciare all’interno dell’attuale società rapporti di produzione socialisti già realizzati. Ma l’aporia più evidente della tesi secondo cui lo sviluppo delle forze produttive creerebbe le condizioni per la transizione al socialismo, consiste nel fatto che essa implica la convinzione che le forze produttive – il general intellect – sviluppate dal capitale siano “neutre”, per cui una società socialista potrebbe liberamente appropriarsene. 

Nel secolo e mezzo trascorso dalla elaborazione teorica di Marx sul tema, influenzata dagli esiti della rivoluzione industriale, si sono succedute altre due grandi rivoluzioni tecnologiche che hanno avuto un impatto radicale sul modo di produzione capitalistico (nonché sull’intera organizzazione sociale) e che hanno chiarito una volta per tutte: 1) che non esistono forze produttive neutre, in quanto le tecnologie non sono “strumenti”, liberamente adattabili alle esigenze di chiunque se ne serva, bensì elementi di un ambiente complesso che incorpora nella propria costituzione materiale, nella propria forma e nelle proprie funzionalità un complesso di dispositivi di comando e controllo in grado di selezionare i comportamenti, conoscenze e attitudini individuali e di gruppo; 2) che una eventuale società post capitalistica, prima di poter ereditare l’attuale apparato produttivo, dovrebbe trasformarlo radicalmente, per renderlo compatibile con funzioni e finalità diverse da quelle per cui è stato progettato e, laddove ciò non fosse possibile, dovrebbe sostituirlo con tecnologie del tutto nuove. 

Del resto, lo stesso Marx, analizzando lo sviluppo del macchinismo e il processo di subordinazione sostanziale del lavoro al capitale nelle opere mature, è entrato in contraddizione con la sua originale visione ottimista sul ruolo progressivo dello sviluppo delle forze produttive. Ciò è del tutto evidente nei passaggi in cui descrive il lavoro astratto come un’entità compiutamente disciplinata e assimilata al ritmo delle macchine, dalla quale sono espulse tutte le forme di singolarità, di non omogabilità, del soggetto vivente. Scrivono Dardot e Laval commentando questi testi: “Il lavoro vivo perde ogni forma di indipendenza ed è ridotto a “impotenza”; l’attività dell’operaio, ridotta a una pura astrazione dell’attività, è determinata e regolata per tutti i versi del moto del macchinario e non viceversa. L’intellettualità è totalmente monopolizzata dal capitale”.


Questa descrizione non vale forse solo per la grande fabbrica fordista? La rivoluzione digitale non ho forse rovesciato come un guanto l’organizzazione di fabbriche, uffici, apparati amministrativi, oltre che della vita quotidiana? Non è forse vero che oggi lo statuto del lavoro è radicalmente mutato, restituendo a individui e gruppi un’autonomia e una creatività sconosciuti persino al lavoro preindustriale? Per smontare questa illusione basterebbe rileggersi quanto ho scritto a tale proposito nell’ultimo paragrafo del primo capitolo, ma è possibile spingersi oltre, dimostrando come i problemi descritti in quelle pagine non sono il risultato di un “cattivo uso” delle nuove tecnologie: è la stessa essenza – il modo in cui sono progettate e prodotte, il modo in cui funzionano – a renderle totalmente funzionali ai fini del dominio e dello sfruttamento capitalistico. 


Ecco quanto scrive in proposito Roberto Finelli: “Di fronte a letture che hanno sottolineato in senso emancipativo l’ingresso di massa del lavoro mentale nei processi di produzione di beni e servizi, ritrovandovi la messa in campo di intelligenze e iniziative riflessivo-comunicative, di virtù della soggettività, eccedenti e non riducibili alla norma e al comando della direzione capitalistica, qui si che continua invece a proporre una lettura fondata sul nesso sistemico macchina-forza-lavoro come regola fondamentale e invariante del modo di produzione capitalistico, per il quale la forza-lavoro non può mai essere considerata come forza e funzione autonoma del macchinismo cui è sempre intrinsecamente connessa […]. La macchina informatica ad esempio colloca una serie enorme di informazioni al di fuori del cervello umano, generando una mente artificiale di cui la mente umana può essere solo funzione e appendice”. Si aggiunga il fatto che il lavoro mentale viene progressivamente sottoposto a procedura di misurazione/quantificazione, si aggiunga inoltre fatto che il sistema macchina digitale/forza-lavoro impone una separazione della mente dal corpo che consegna la prima una semantica decorporizzata e anaffettiva. È solo mettendo tra parentesi simili fatti che si è potuto costruire il mito della rete come regno della libertà: si discetta sulle potenzialità “democratizzanti” di Internet dimenticando come questo ambiente tecnologico incorpora un codice, un sofisticato complesso di regole e procedure che definisce apriori cosa è possibile fare, favorendo od ostacolando certe modalità di scambio di lavoro individuali e collettive. Per quanto convincenti, questi argomenti non mettono in crisi la fede dei teorici postoperaisti nel mito del ruolo “rivoluzionario” delle forze produttive. 

Toni Negri



Prima di impegnarmi in un faccia a faccia con le loro tesi, tuttavia, ritengo necessario premettere una riflessione su una scelta terminologica che rinvia a un’importante questione di metodo: nelle citazioni che seguono troverete frequenti riferimenti all’economia, al capitalismo e al lavoro “immateriali”. Ebbene, mai aggettivo fu più inadeguato: nell’economia e nel capitalismo digitali – come ritengo più corretto definirli – non c’è alcun che di immateriale, a partire dalle tecnologie su cui si fondano. Il privilegio che la sottocultura nerd attribuisce al software nei confronti dell’hardware rimuove infatti due evidenti verità: 1) non c’è software senza hardware, le informazioni non sono “puri” segni ma iscrizioni materiali su disco rigido, né l’intera industria informatica potrebbe esistere senza il lavoro “fisico” di milioni di operai e operaie dei paesi in via di sviluppo; 2)  anche il lavoro dei cosiddetti lavoratori della conoscenza è fatto di carne e sangue: cervelli resi ottusi dalle ipersollecitazioni, muscoli irrigiditi dalle ore passate davanti allo schermo, sensibilità mutilate dai ritmi E dalle esigenze delle interfacce, ecc. Ma passiamo alle tesi che intendo criticare.

Tesi numero uno: il capitalismo contiene un principio immanente che lo guida inesorabilmente verso la sua negazione/superamento, che coinciderebbe con il raggiungimento di un livello di sviluppo delle forze produttive incompatibile con l’attuale modo di produzione. Ascoltiamo André Gorz: “L’economia dell’abbondanza tende diverse persone economia della gratuità e verso forme di produzione, di cooperazione, di scambi e di consumo fondate sulla reciprocità e la messa in comune, nonché su nuove monete. Il “capitalismo cognitivo” E la crisi del capitalismo tout court”; “non ci sarà rivoluzione grazie a rovesciamento del sistema a opera di forze esterne. La negazione del sistema si diffonde all’interno del sistema mediante pratiche alternative che esso suscita e delle quali le più pericolosamente virulente per lui sono quelle di cui non può fare a meno”; “Il capitalismo e 15. Nel suo sviluppo delle forze produttive alla frontiera, oltrepassata la quale può profittare pienamente delle sue possibilità solo superando se stesso verso un’altra economia”.


Tesi numero due: le attuali forze produttive sono sostanzialmente neutre e quindi riusabili in un contesto non capitalista. Partiamo da Matteo Pasquinelli e dalla sua esegesi al “Manifesto accelerazionist”, nel quale si sostiene che l’attuale sviluppo tecnologico può essere radicalmente separato dal capitalismo e “ridisegnato” in senso rivoluzionario, e che “L’astrazione più estrema dell’intelligenza (cioè gli algoritmi, annotazione mia) Sia un’arma propria della moltitudine”. Aggiunge Pasquinelli: “La piattaforma materiale del neoliberismo non ho bisogno di essere distrutta. A bisogno di essere riconvertita verso obiettivi comuni”. Ascoltiamo, infine, Antonio Negri: “Che i modelli matematici e gli algoritmi siano al servizio del capitale, non è una loro qualità, non è un problema della matematica, è solo un problema di forza”.


Tesi numero tre: le nuove forme di lavoro “immateriale” liberano le potenzialità creative degli individui permettendo loro di esprimere liberamente la propria personalità. Torniamo a Gorz: ciò che conta nel nuovo lavoro “sono le qualità di comportamento, le qualità espressive e immaginative, il coinvolgimento personale nel compito da svolgere”; “il lavoro immateriale tende in definitiva a confondersi con un lavoro di produzione di sé”; “la separazione fra i lavoratori e loro lavoro del reificato, e tra quest’ultimo e il suo prodotto, è dunque abolita, dato che i prezzi di produzione diventano approcciabili e suscettibili di essere messi in comune.


Questa fascinazione tecnologica arriva fino al punto di condividere l’afflato mitico-religioso di certe culture californiani: vedi la strizzata d’occhio che Antonio Negri concede alle filosofie nerd laddove – mentre celebra il dispiegarsi della potenza del lavoro cognitivo una volta che si sarà liberato dalle catene del capitalismo – disquisisce di un umanesimo che, spingendosi oltre limiti imposti dalla società capitalista, si aprirà al postumano. Non so se tale battuta sia liquidabile come un omaggio “modaiolo” del filosofo ai giovani allievi, temo però si tratti semplicemente di un ulteriore conferma della seduzione che la metafora della smaterializzazione esercita sugli intellettuali postoperaisti.


Fascino che traspare anche in un libro collettaneo dedicato alle presunte prospettive liberatorie del processo di smaterializzazione della moneta che, sostengono gli autori, offrirebbe l’opportunità di creare una “moneta del comune”, Per fortuna, in queste pagine troviamo un appello alla prudenza di Christian Marazzi, il quale invita:
1) a non innamorarsi di astratti progetti di riforma monetaria il cui
unico valore è funzionare da “esercizi di esodo” da un sistema monetario; 2) di non dimenticare che i profeti dell’emancipazione della moneta dal controllo statale sono eredi della tradizione ultraliberista di autori come von Hayek; 3) di tenere presente che, se non si ragiona sui soggetti sociali concreti che dovrebbero usufruire della “moneta del comune” non esiste alcuna garanzia che quest’ultima possa trasformarsi a sua volta in un veicolo di sfruttamento. Ma i consigli di Marazzi restano isolati in un coro di voci che invitano a cogliere l’opportunità storica che deriva dalla smaterializzazione della moneta – processo che tenderebbe a ridurre la moneta a “puro segno al di fuori di ogni forma di controllo da parte della sovranità monetaria dello stato”. 


Come si vede, siamo in un orizzonte concettuale simile a quello della cultura anarcocapitalista, che vede nella smaterializzazione della moneta la chance di liberare il mercato sia dal controllo statale sia da quello delle grandi corporation. Per inciso, l’unco esperimento significativo di moneta digitale privatizzata, il Bitcoin – a suo tempo celebrato come incarnazione dei valori della cultura cyberpunk – si è rivelato come un ennesimo strumento di speculazione finanziaria. Ma il vero nodo è un altro: solo degli impallinati di tecnicalità economiche possono credere che esista una moneta che, ancorché “smaterializzata”, sia riducibile a “puro” segno di valore, nel senso che non esistono segni culturali – tanto meno segni monetari – che non incarnino rapporti di forza fra diversi soggetti sociali. L’illusione di poter usare la moneta immateriale per “sfidare il potere finanziario al suo stesso livello”, rischia di alimentare progetti a dir poco ambigui, come quello del collettivo Robin Hood finlandese , il quale si vanta di aver saputo “piegare la finanziarizzazione dell”economia a nostro vantaggio” e di essere diventato “il terzo miglior fondo speculativo del mondo” (!?).

A proposito di questo tipo di discorsi, Dardot e Laval commentano: “non possiamo non constatare la vicinanza tra le tesi che promuovono l’anarcocomunismo dell’informazione e quelle che esaltano i meriti del capitalismo digitale”. Infatti in comune hanno la stessa fede nella virtù taumaturgica dell’immateriale, inteso come potenza in grado di trasformare il mondo dall’interno, e la stessa esaltazione della conoscenza come potere di trasformazione delle relazioni interumane. A proposito di quest’ultimo punto, sempre Dardot e Laval sottolineano come esso prenda le mosse da un’analisi che troppo spesso “si fonda sulla supposta capacità intrinseca che la conoscenza possederebbe in quanto bene pubblico puro e che consisterebbe nella sua cumulabilità e nella sua naturale capacità produttiva” -analisi che rimuove il fatto che “Non è la “natura” della conoscenza che determina la sua capacità produttiva, sono le regole giuridiche e le norme sociali che garantiscono o meno la sua estensione e la sua fecondità”.


Gorz, Negri e soci sono convinti che il capitalismo cognitivo generi da sé le condizioni del proprio superamento, o meglio le abbia già generate, nel senso che l’intelligenza imprenditoriale del capitale si ridurrebbe oggi a convertire in profitto (o meglio in rendita) la ricchezza sociale che viene spontaneamente generata dallo spazio sociale innervato dalle tecnologie digitali; il capitale non sarebbe insomma più in grado di esercitare il suo controllo diretto su una forza-lavoro che organizza autonomamente la cooperazione fra intelligenze individuali e collettive. Il che significa dimenticare la lezione di Marx nel Capitolo VI inedito, secondo cui le funzioni specifiche del capitalismo maturo – organizzazione, comando e sorveglianza – emergono proprio nel momento in cui il lavoro diventa cooperativo: è precisamente da quel momento che i cooperanti si presentano essi stessi solo come un particolare modo di esistenza del capitale. L’economia della conoscenza ha forse cambiato questa realtà? Assolutamente no. È piuttosto l’analisi postoperaista che sottovaluta “il peso dell`inquadramento e della direzione del lavoro da parte delle nuove forme di governamentalità liberiste all`interno dell’impresa capitalistica”, scambiando per “autonomia” del lavoro vivo “le nuove forme di potere attraverso le quali il capitale plasma il processo del lavoro cognitivo e modella le soggettività”.


Vale infine la pena di notare come queste tesi presentino evidenti analogie con alcune concezioni teoriche che risalgono alle fasi premarxiste del movimento operaio. Lo spinozismo di Negri, con la sua visione di una potenza originaria e spontanea del sociale (basti pensare al concetto di moltitudine), si allontana infatti dall’approccio di Marx, il quale concepisce il sociale come un prodotto storicamente determinato, tanto nei contenuti che nelle forme. Ecco perché la sua tesi del capitalismo contemporaneo come puro “estrattore di rendita” finisce invece per convergere con la tesi di Proudhon laddove costui sosteneva che il capitalismo è una formazione predatoria che letteralmente “ruba” la ricchezza generata dal sociale. Tanto la “forza collettiv” che secondo Proudhon genera tale ricchezza, quanto il general intellect postoperaista tendono a presentarsi come una sorta di attributo immanente (e quindi metastorico) dell’individuo sociale. Per cui vale per Negri la stessa obiezione che Marx faceva a Proudhon:”il prelievo capitalistico non è successivo perché la produzione in quanto tale è già presieduta dalla ricerca del profitto”. È già, cioè, produzione specificamente capitalistica.

3 pensieri su “LA MITOLOGIA DELLE FORZE PRODUTTIVE AL TEMPO DEL LAVORO “IMMATERIALE” di Carlo Formenti”

  1. Tonguessy dice:

    Bravo Formenti quando deride la "convinzione che le forze produttive – il general intellect – sviluppate dal capitale siano "neutre", per cui una società socialista potrebbe liberamente appropriarsene", ma proprio per questo trovo incomprensibile la sua tesi secondo cui "nell'economia e nel capitalismo digitali – come ritengo più corretto definirli – non c'è alcun che di immateriale". Prendiamo le trasazioni bancarie, ad esempio: sono delle stringhe numeriche che vengono trasferite da un computer all'altro, e spesso da una parte all'altra dello stesso computer. La domanda è: ma che rapporto esiste tra il bene (o merce) e il suo pagamento? Si è passati dal baratto (merce contro merce) al denaro "pagabile a vista" (gold standard) per approdare alla società cashless. Vi sembra che tutta questa trasformazione non abbia portato ad una virtualizzazione della parte materiale? Anche una videochiamata è "materiale" nel senso di pixel colorati che si illuminano secondo precisi criteri sullo schermo. Ma rimane pur sempre molto meno "materiale" del chiaccherare vis a vis con una persona in carne e ossa che può essere nell'eventualità toccata fosse anche per una stretta di mano. Il percorso da fisico verso il metafisico è per me fin troppo evidente.Quindi è in atto un processo di smaterializzazione che ha come base la digitalizzazione dei rapporti. E dato che la premessa maggiore è la mancanza di neutralità di ogni forza organizzata dal capitale, ne consegue (come ho cercato di spiegare nel mio ultimo articolo) che la digitalizzazione è finalizzata alla riduzione dei processi cognitivi in amorfe sovrapposizioni ontologiche che, osservate con la lente della critica materialista, somigliano fin troppo ai criteri metafisici così ferocemente criticati dai post-hegeliani.In alternativa mi aspetterei una ragione plausibile per cui la digitalizzazione abbia una funzione che permetta una critica più accurata verso i nuovi dogmi del capitalismo 3.0, invece che generare una passione verso orizzonti sempre più virtuali quindi immateriali.E' sulla sovrapposizione di stili che il capitalismo 3.0 sta giocando la propria partita: essendo la tecnologia in netto anticipo sui tempi medi di assimilazione dei popoli il senso di smarrimento unito alla necessità (virtuale!) di sentirsi "in linea coi tempi" sta facendo una autentica strage di sensibilità popolare. E' un tema molto difficile anche solo da accennare, e me ne rendo conto.

  2. Alberto Capece Minutolo dice:

    Sono un grande estimatore di Formenti, ma in questo caso lo seguo poco, anche se ha ragione sui singoli punti. Il problema centrale è il fatto che la vita, la società, le persone e le classi non sono digitali (o dialettiche nel senso tecnico), ma analogiche. Il che vuol dire che senza dubbio è vero che non esistono tecnologie o sistemi di produzione neutri, ma che tuttavia essi non funzionano secondo il principio di tutto o niente, ma presentano sfumature e tratti intermedi che consentono di sfruttarli in maniera del tutto contraria a alla loro organizzazione interna. Putroppo ciò che fondamentalmente manca in Marx come in tutta la letteratura dialettica è un'antropologia complessa e non soltanto riflessa.

  3. Anonimo dice:

    Personalmente sono d'accordo con Formenti su due punti, mentre dissento su un terzo. E' vero che, a rigor di termini, non esiste nulla di veramente 'immateriale' e che, pertanto, quando si fa uso di questo termine, si impiega una metafora, che, come tutte le metafore, può essere mistificante. In secondo luogo concordo con Formenti anche nel negare la tesi marxiana classica che il capitalismo crei al suo interno le condizioni del proprio superamento; questa è una tesi notoriamente deterministica che è poco convincente proprio perché manca di quella complessità antropologica alla quale fa giustamente riferimento Alberto Capece Minutolo. Infine dissento da Formenti nell'idea che le tecnologie produttive siano talmente compromesse con il sistema di produzione da renderle inutilizzabili al di fuori del loro contesto di origine o di esercizio attuale. In definitiva uno strumento (tali sono le tecnologie produttive) non può essere confuso con il suo uso e ancor meno con il fine per il quale lo si usa.

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