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LUCIO CARACCIOLO: “PERCHÉ CI SERVE L’ITALIA” di Alessandro Visalli

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[ 8 giugno 2017 ]

Sull’ultimo numero di Limes (4/17) l’editoriale di Lucio Caracciolo definisce l’Italia, contro un radicato senso comune, “un paese strategico che rifiuta di esserlo”. Nella frase successiva è contenuta la parte essenziale dell’analisi: “dopo più di un secolo e mezzo, il nostro Stato unitario resta un adolescente geopolitico. Puer aeternus, fragile e perennemente incompiuto, consegnato alle altrui scelte”.
Il bambino eterno si affida a mamma e papà, cerca l’ordine eterodiretto che gli consenta di non scegliere. Come nella guerra fredda, quando la politica dei blocchi imponeva la “democrazia bloccata”, l’eterno governo della Democrazia Cristiana (e i suoi alleati di turno, due, tre, poi quattro), e certificava l’impossibilità del governo delle sinistre, qualunque fosse la volontà dei cittadini (che, comunque, in maggioranza erano d’accordo). O come nel suo sostituto (in tutte le componenti), l’Europa, per l’atteggiamento italiano verso la quale Caracciolo ha parole in fondo sprezzanti: “o fantasticate armoniche Europe, in cui serenamente sciogliersi in fraternità con i vicini”.

Un sogno da bambino, appunto.

Il paese, che preferisce “essere stato”, è disposto volentieri a spezzarsi, ma non di accettare la necessità di “partecipare allo strategico mercato della potenza sulla base dei propri interessi”. È disponibile a tutto pur di non decidere.

Eppure l’Italia, pur non potendo essere primaria potenza, per insufficienza demografica e strutturale, può egualmente distruggere tutto. La sua eventuale implosione lancerebbe onde d’urto sull’intero, fragile, sistema mondiale; di qui la fonte del suo oggettivo potere. Come dice Caracciolo, “la potenza dell’impotenza”.

I cinque fattori elencati che provocano l’importanza che non vogliamo vedere dell’Italia sono:
1-     E’ in Italia che si decide il futuro dell’Euro, che è al centro degli interessi tedeschi e francesi, e preoccupa gli USA per le possibili conseguenze (e forse anche la Cina);
2-     La posizione geografica ne fa il punto di passaggio dei flussi migratori più cruciali, quelli dal nord Africa, flussi che come dice l’autore “incidono sulla sicurezza, sulla stabilità, sull’identità stessa del nostro continente”;
3-     Ancora la posizione geografica, allungata nel Mediterraneo ci rende rilevante per chi intende controllarlo, ovvero per gli USA;
4-     contemporaneamente siamo utili alla Russia, per la nostra debolezza, possibile anello debole della catena atlantica;
5-     Ma anche alla Cina, per lo stesso motivo essenziale, siamo al centro del Mediterraneo, e potremmo essere il terminale più naturale della “via della seta”, l’infrastruttura centrale della globalizzazione 2.0 alla cinese.

Dunque interessiamo, o siamo temibili, per Germania, Francia, Stati Uniti, Russia, Cina. Ne “la grande partita”, avevamo definito “quadrilatero di potere” lo spazio geopolitico compreso tra “gli USA, estrattivi e imperiali da una parte, l’arena europea in via di costante ridefinizione, aspirante egemone con diverse forze riluttanti ed altre ribelli, dall’altra, il vecchio rivale russo, inaggirabile nella sua duplice forza militare e fondata su materie prime e territorio, e il nuovo aspirante dell’impero di centro cinese”. Se questo fosse il quadrilatero strategico, noi ne siamo parte a diversi titoli.

Ma anche se abbiamo quello che Caracciolo, con metafora economica chiama “valore d’uso”, non vogliamo avere “valore di scambio”. Non vogliamo valutare questo valore e spenderlo per avanzare i nostri interessi nel negoziato eternamente in corso.

L’ipotesi è che questo avvenga perché non vogliamo essere adulti, non abbiamo il coraggio di definire il nostro punto di vista. Anzi, abbiamo una idea strana: che il nostro interesse nazionale consista nel non averne.

Dunque continuiamo con zelo ad imbrancarci, disciplinati e grati, dietro il capobranco che ci sembra più forte (non da poco tempo identificato con la Germania, e in alternativa con gli USA). Come dice Caracciolo: “vige da noi il curioso assioma per cui non possiamo permetterci di produrre strategia perché non siamo sufficientemente potenti. Vero il contrario: sono le grandi potenze a potersi concedere qualche distrazione, immergendosi in fasi di apnea progettuale governate con il pilota automatico. Noi, che non disponiamo delle loro risorse, siamo obbligati alla strategia. A pensare e ripensare il nostro posto nel mondo”.

Questa apnea progettuale e vigliaccheria ci porta a scelte incredibilmente assurde, come usare le nostre preziose risorse nazionali contro i nostri interessi nazionali. È quel che abbiamo fatto in pratica in ogni missione militare destabilizzante il nostro più vicino intorno, perché ce lo hanno chiesto gli americani (che sono assai più lontani e talvolta colpiscono nuora perché suocera intenda). Abbiamo bombardato gli impianti Fiat nella vecchia Jugoslavia (sul senso di quella guerra leggeremo Emmanuel Todd in “Dopo l’impero”), e abbiamo persino partecipato in modo subalterno all’azione anglofrancese in Libia.

Ma “mamma e papà” (USA e Germania) hanno preso a litigare di brutto, come dice, mentre le foglie di fico “che mascheravano le strategie altrui” cadono. Ovvero cadono gli schemi ideologici e le retoriche dei progetti “europei e atlantici”.

Se mamma e papà litigano bisognerebbe dunque scegliere: “serve stabilire la nostra rotta”.
A questo punto l’articolo di Caracciolo prova ad andare più in profondità, e radica questa carenza di direzione ed autostima dell’Italia alla sua storia, a “ciò che fu”. Qui viene una frase di effetto: “l’essenza di una nazione è data dalla sua sensibilità all’indipendenza”. Carlo Pisacane sarebbe stato d’accordo.
La nazione è incerta, in sostanza per effetto della sua storia: unificata dai romani già in età repubblicana, e restata tale per oltre cinque secoli, viene divisa alla caduta dell’impero e dalle guerre tra bizantini e longobardi più o meno lo resta per tredici secoli. Caracciolo indica una data ed una partizione cruciale nella divisione nord-sud del “lungo” paese azionata da Carlo Magno (il vero modello eroico dell’unificazione europea) e dai suoi successori, intorno al 900, tra delle marche settentrionali che restano integrate con il centro germanico del regno, e delle terre meridionali che restano coinvolte con il mediterraneo. A compromettere, come dice, la “sostanza nazionale” del paese è anche, e forse soprattutto, oltre la geografia la presenza caratterizzante ed ingombrante del centro della Chiesa cattolica.

Poi viene il risorgimento, complessa mobilitazione innervata nella geopolitica del potere e, con l’altra gamba, nel desiderio di libertà di tutto sommato limitate élite colte e cosmopolite. All’avvio, tra fine settecento e inizio dell’ottocento, l’idea di Italia è di pochissimi, ed è essenzialmente un anelito culturale, per anime intessute di storie antiche. Idee “romantiche”, dice il nostro. Ma anche un anelito politico che si raggrupperà con il progredire del secolo nel cosiddetto “Partito d’Azione”.
Per Caracciolo, che forse giustamente guarda soprattutto ai cosiddetti “moderati”, che avranno l’ultima parola, “Per opera di un’élite anzitutto piemontese che mentre innalza a criterio identitario le frontiere «naturali» della Penisola e quelle linguistiche dell’italiano – idioma di una esigua minoranza della popolazione, quasi esclusivamente toscana – si esprime preferibilmente in francese. Il riferimento dell’Italia risorgimentale è il Rinascimento, dalle cui altezze era precipitato il nostro declino nel Sei-Settecento, che ci aveva disconnesso dalle aree del progresso. La rappresentazione delle trascorse glorie artistiche e letterarie legittima il nuovo Stato in quanto contenitore di una grande civiltà. In reazione all’anatema che lo sguardo nordico – tedesco, francese, olandese, inglese – aveva gettato negli ultimi due secoli sull’arretratezza della Penisola e sulla rozzezza dei suoi abitanti, misurata dai ricchi e colti protagonisti stranieri del «viaggio in Italia» rispetto alle grandezze di un passato tanto ammirevole quanto remoto”.

È una rappresentazione sostenibile. Siamo in un secolo che vede diffondersi rozze teorie protopositiviste, come quella del Barone di Montesquieu che in “Lo Spirito delle leggi”, del 1784 determina la civiltà con il clima, le virtù civili ai “popoli del freddo” e i meridionali rappresentati come pigri e servili. Una tendenza (che ancora dura, ne parliamo in “Vincolo esterno, disprezzo di sé, carenza di spirito: l’Italia assente”, ed i suoi effetti in “Del circolo dell’autorazzismo: la cattura dei deboli nel sogno europeo”) alla quale cede persino Leopardi in “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani” del 1824. L’Italia si costituisce in reazione ad un complesso di inferiorità.

Questo complesso, ed il connesso disprezzo per il sud, spinge i “patrioti moderati” (come Adolfo Omodeo) era di costruire solo una unità del nord, una sorta di Belgio del sud che guardasse a Nord, una estensione del Piemonte.

Qualcosa va storto nel progetto nei convulsi anni immediatamente precedenti alla unificazione che alla fine si coglie, Caracciolo l’attribuisce all’iniziativa di Garibaldi (certo anche di Palmerston), ma a cose fatte i funzionari e militari piemontesi “si affacciano con piglio coloniale” nella antica (aveva più o meno ottocento anni) nazione napoletana. Viene citato il luogotenente delle province napoletane, il romagnolo Luigi Carlo Farini, che sarà poi anche Presidente del Consiglio nel 1862-63, aderente alla Giovine Italia di Mazzini, ma poi estraneo alla Repubblica Romana, e dal 1849 deputato a Torino, dal 1860 incaricato dal re di sovraintendere all’annessione dei territori meridionali dopo il plebiscito del 21 ottobre (condotto sotto le armi spianate). Questi in un dispaccio a Cavour scrive del Molise e della “terra di lavoro” (ovvero la piana campana):

«Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile! Il Re [Francesco II] dà carta bianca; e la canaglia dà il sacco alle case de’ Signori e taglia le teste, le orecchie a’ galantuomini, e se ne vanta, e scrive a Gaeta [dove Francesco II era asserragliato]: i galantuomini ammazzati son tanti e tanti; a me il premio. Anche le donne caffone ammazzano; e peggio: legano i galantuomini (questo nome danno a’ liberali) pe’ testicoli, e li tirano così per le strade; poi fanno ziffe zaffe: orrori da non credersi se non fossero accaduti qui dintorno ed in mezzo a noi [30] »

È, in effetti, la guerra civile che infuria, e sarà sanguinosa, da entrambe le parti (in quella confusa fase in cui il Re di Napoli era ancora nel territorio, nella ridotta di Gaeta assediata fino al febbraio 1861, gli scontri erano tra garibaldini, piemontesi, “municipalisti”, “murattiani”, “emigrati”, e via dicendo). Lascerà l’incarico dopo pochi mesi, nel gennaio 1861.
Questa catena che chiama “logico-geopolitica”, per Caracciolo niente di meno che “limita l’orizzonte strategico nostrano e spinge a renderci provincia altrui”. E ci respinge inoltre, tutti, nel sud in cui ci confinava Montesquieu.

Ma la frattura nord/sud (termine per sua semantica relativo) attraversa in particolare la non-unità italiana; ne fanno parte per l’autore fattori antropologici e culturali, dinamiche socio-economiche e contesti istituzionali. La predicazione della Lega, richiamata senza nominarla, ha inteso farne un codice indefettibile (simmetrico a quello che il nord prussiano attribuisce all’intero paese, nord incluso, che per loro è sud), ma è stato condiviso in modo molto più ampio. Viene citato il Presidente comunista dell’Emilia Romagna, Guido Fanti.
E simmetricamente è rivendicato nei vecchi centri statuali del mezzogiorno a Napoli, in Sicilia ed in Sardegna, un orgoglio identitario ed una diversità.

Mentre ciò avviene la crisi ha accentuato enormemente la differenza (il Pil del sud è caduto del 12%, quello del nord del 7%, i consumi del 9% contro l’1%, il reddito pro capite è ormai la metà di quello del nord, addirittura ormai si fanno pure meno figli). Una differenza che, se il sud riuscisse miracolosamente a crescere dello 0,4% più che il nord, ci vorrebbero 25 anni a rimediare. E la stessa crisi ha separato la regione meridionale dal nord Europa (l’interscambio è ormai quasi del tutto limitato al Nord), ma la lascia intrecciata con quello nazionale. Il sud, deindustrializzato e semplicemente l’immagine del destino che attende in prospettiva l’intero nord (contrariamente a molte leggende il sud all’unità aveva più addetti all’industria), fa infatti la sua spesa al nord; dunque è un bacino di consumi, un essenziale “mercato interno”. Le esportazioni in esso (diciamo dalla Lombardia alla Campania e regioni vicine) è il triplo di quelle verso l’intera Unione Europea.

Visto dal nord (Europa) è solo alla fine solo la paura a trattenerla dallo “sganciare il vagone meridionale”, che è percepito come un peso.

Parte di questa tentazione è connessa con la politica migratoria, nella quale i quasi 200.000 migranti dall’ulteriore sud africano in esplosione demografica, tendono ad essere scaricati come problema “nostro”. Oramai, dice Caracciolo, il 90% di chi arriva rimane in Italia, “quasi sempre allo sbando, vittima di organizzazioni criminali e di sfruttamento selvaggio, specie nelle campagne del Mezzogiorno dominate dal caporalato. L’assenza di un piano nazionale per l’integrazione degli immigrati –campo nel quale il nostro governo non intende arrischiarsi per timore dell’impopolarità – congiunta alla totale mancanza di solidarietà su scala comunitaria, genera xenofobia ed eurofobia. Derive fino a ieri impercettibili nel mainstream della nostra opinione pubblica”. Una diagnosi impietosa.

Dunque quel che l’Italia, se fosse tale, dovrebbe fare è semplice e banale: proteggere i propri interessi nella competizione e nel compromesso con quelli altrui. Essere dunque un attore geopolitico, come dice: fare il contrario e “pretendersi Stato per farsi eterodirigere da altri Stati, i quali correttamente perseguono le loro priorità, questa sì è impresa eccezionale.
Bisogna quindi separare “interesse nazionale”, che è ovvio e banale perseguire, dal “nazionalismo”, che è parola con la quale si identificano i deliri di onnipotenza e le reazioni compulsive.

Certo, bisogna notare che anche il nostro non manca di formulare frasi intrinsecamente razziste, che confermano la profondità del problema, nel momento in cui sostiene l’utilità per il paese di restare unito e non frammentarsi in regioni più omogenee (come vorrebbe l’imminente referendum al nord): “Davvero conviene a lombardi e/o veneti – chiamati nell’immediato futuro a esprimersi in referendum ambiguamente autonomistici – emanciparsi dall’Italia per diventare i ticinesi della Piccola Europa che pare aggregarsi attorno alla Germania? L’ambizione dei siciliani è di costituirsi in Stato mafia indipendente? I napoletani aspirano alla repubblica del Vesuvio?” Una frase indegna per una civiltà antichissima e raffinatissima che ha in Palermo la sua capitale millenaria.

La questione è comunque che siamo alla vigilia di grandi movimenti: nel “quadrilatero di potenza” prima citato il nord germanico intende affrancarsi dalla tutela nordamericana, ma è strutturalmente troppo debole e troppo introverso per poter avere in proprio davvero ambizioni imperiali e fungere da federatore (come a suo tempo fece la Prussia con il resto dei principati tedeschi) dello spazio comunitario. Per farlo dovrebbe sostenere la sua egemonia (che è prevalentemente culturale e storica) con più corpose ragioni di interesse, dunque dovrebbe almeno in parte rinunciare al saccheggio, che è l’impulso del suo mercantilismo miope ed egoista (e del suo equilibrio politico di classe), e distribuire risorse a favore delle province più “arretrate”, per cementarne la fedeltà sulla base della convenienza e definire un compromesso sociale di sostegno al consenso. Dovrebbe unire al “dominio” una autentica “egemonia” abbastanza larga da essere accettata.

La tendenza che vede Caracciolo è, invece, di andare allo scontro con gli Stati Uniti, che hanno l’imperativo strategico di ridurre lo squilibrio, e quindi sono diversamente interessati alla stessa riduzione dello spirito mercantilista tedesco, e quella di avvicinarsi quindi, per reazione di protezione al potente vicino orientale, capace di offrire protezione militare alternativa. Ma anche, con ancora più antico riflesso (basti ricordare la Battaglia di Legnano, 1176), di estendere verso sud il confine ed incorporare le subalterne marche lombarde.

Ma questo è il piano di frattura principale, vero e proprio squarcio tettonico. Un orizzonte simile “è incompatibile con la storica priorità americana – e per quel che ancora vale, britannica – di scongiurare la nascita di una potenza tedesca filorussa (e filocinese?) capace di dominare l’Europa o anche solo di parlare in suo nome”. Qualunque mezzo sarà usato per evitarlo.

Dunque siamo al margine del tifone (il luogo più pericoloso) o addirittura siamo spaccati in due da esso.

Ma sembriamo del tutto ignari, mentre come bambini mai cresciuti sogniamo “fantasticate armoniche Europe, in cui serenamente sciogliersi in fraternità con i vicini”. 

* Fonte: Tempo Fertile

Un pensiero su “LUCIO CARACCIOLO: “PERCHÉ CI SERVE L’ITALIA” di Alessandro Visalli”

  1. Anonimo dice:

    Come sempre utilissimo articolo! Una sola notazione: il ruolo distruttivo (distruttivo dei nostri interessi nazional-popolari) che sta giocando la Chiesa cattolica sul problema dell'immigrazione. Ma non c'è da stupirsi: la Chiesa gioca la sua partita che è da sempre quella di erigere il proprio potere universalistico (materiale e spirituale) di 'pastori' sul gregge dei miserabili, opponendosi a ogni organizzazione politica autonoma e laica. In breve il prete pensa così: facciamo entrare tutti gli immigrati per carità cristiana; poi a gestire il problema ci pensino gli stati e se il problema è ingestibile e l'Europa diventa un gigantesco slum, tanto meglio, sarà terreno fertile per le nostre prediche e per l'oppio spirituale che distribuiamo ai popoli da che mondo è mondo.

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