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GUAI IN VISTA PER IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO di Marcello Minenna

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[ 17 luglio 2017 ]

Marcello Minenna è un brillante economista, uno dei pochi che ci capisca delle alchimie finanziarie che sorreggono il sistema bancocratico. Capisce che se la Unione europea non cambia registro l’uscita dell’Italia dall’eurozona è ineluttabile. Il fatto è che spera e si prodiga in consigli affinché ciò non accada. E così finisce apparire come un consigliere di Sua Maestà Mario Draghi. Sullo stesso Fiscal Compact se la prende… con filosofia (vedi l’intervista al Corrierone del 5 luglio). Vale la pena leggere quanto egli scrive su come la fine imminente del Quantitative Easing impatterà sul debito pubblico italiano e quindi sulle politiche di bilancio nazionali.
[Nella Tabella sopra il bilancio della Bce]

La prossima fine del quantitative easing 

che non piace al Tesoro italiano

Non mi aspetto un bel settembre a via XX settembre. Il deficit esce dalla porta e rientra dalla finestra

Il tormentone sui mercati è partito già da diversi mesi: la BCE sta preparandosi a chiudere il Quantitative Easing e Draghi potrebbe darne notizia appena dopo l’estate, nell’usuale incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole in settembre. Si tratta di una notizia non di poco conto per i conti pubblici nazionali, visto che la BCE in poco più di 2 anni ha già acquistato attraverso la Banca d’Italia 274 miliardi di titoli di Stato italiani al ritmo medio di 9 al mese. Solo l’anno scorso la BCE ha rastrellato dal mercato secondario un ammontare di BTP pari al 30% del totale delle emissioni di nuovo debito del governo italiano. Per capire, è come se ad un asta su 3 ci fosse stato un unico compratore, la Banca Centrale Europea (anche se in realtà non può andare in asta).

Il Quantitative Easing ha facilitato non poco il lavoro di gestione del debito pubblico a via XX Settembre, visto che il tasso medio delle emissioni è sceso di quasi l’1% dal 2015 facendo risparmiare ulteriori 8 miliardi di interessi. Quanto basta per coprire una parte dei 15 miliardi di perdite registrate nel biennio 2015-2016 sui derivati sottoscritti in passato. Per avere il senso delle proporzioni, lo 0,3% del PIL di sconto sulla manovra per il 2018 strappato da Padoan alla Commissione Europea vale circa 5 miliardi.

Nel 2016, forte della copertura BCE, il Tesoro ha anche azzardato un’emissione a 50 anni pagando un tasso assurdamente basso, sotto al 3% per un “prestito” di 5 miliardi.

Che il periodo di vacche grasse per il management del debito pubblico stia per finire lo si immagina da un po’. A fine 2016 la BCE ha cominciato a preparare il mercato dei titoli governativi alla fine del doping monetario, annunciando una prima riduzione degli acquisti a partire da aprile 2017 da 80 a 60 miliardi al mese, che poi era semplicemente il livello da cui era partito il programma prima dell’accelerazione impressa nel marzo 2016. Già questo primo – flebile – intervento non è stato certo indolore per i BTP. I tassi di interesse dei titoli negoziati sul mercato secondario sono risaliti di circa 100 punti base rispetto ai minimi assoluti toccati a novembre scorso e nel 2017 il governo ha dovuto pagare un po’ di più per collocare il nuovo debito (che nel frattempo era salito di 51 miliardi nel 2016). Solo lo 0,3% in più. Per ora.

Al di là delle dichiarazioni ufficiose apparse sui giornali, a mio avviso uno dei segnali più evidenti di un’imminente e drastica riduzione del Quantitative Easing va cercato nel cambiamento brusco dei pattern [modelli, Ndr] di comportamento che la BCE sta avendo sul mercato secondario.

In genere la banca centrale acquista seguendo linee-guida prevedibili e ripetitive, per ridurre l’impatto distorsivo che la domanda aggiuntiva di titoli può generare sul mercato. In particolare, il criterio fondamentale fin qui seguito è stato quello della capital key [la composizione del capitale. NdR]: più una banca centrale nazionale contribuisce al bilancio della BCE, più titoli governativi saranno acquistati. è questo il motivo per cui i titoli tedeschi sono la parte dominante del programma (390 miliardi), mentre solo 28 miliardi di titoli portoghesi hanno trovato la via per il bilancio della BCE nonostante il debito

imponente. Questa regola ha avuto il vantaggio di essere sostanzialmente neutrale e scevra da giudizi di valore su quale debito meritasse di più le attenzioni della BCE. Peccato abbia reso i titoli dei Paesi core(Germania, Olanda, Finlandia) – già grandemente richiesti dal mercato per la loro solidità percepita – estremamente scarsi, abbassandone i rendimenti fino a livelli negativi. Lo scorso anno la Germania ha ridotto il proprio debito pubblico grazie anche al fatto che i “fortunati” acquirenti di Bund hanno riavuto indietro dal governo tedesco meno di quanto avessero prestato.

Fino a marzo 2016 la BCE ha seguito alla perfezione la regola della capital key; poi Draghi ha annunciato che qualche scostamento temporaneo di lieve entità ci sarebbe stato, per ragioni “tecniche”. Quello che stava succedendo era che i titoli belgi ed irlandesi erano già quasi spariti ed era necessario sostituirli con quelli di altri Paesi, dove l’offerta era più abbondante. Come l’Italia o la Francia. Nei mesi successivi lo scostamento da temporaneo è diventato in sostanza permanente, ma nessuno se ne è lamentato troppo, meno che mai il governo italiano.

Il punto saliente è che da aprile 2017 lo scostamento non più “temporaneo” non è nemmeno più lieve, dato che la BCE ha cominciato a ridurre a passo sostenuto anche l’acquisto di titoli tedeschi, che da soli rappresentano il 15% del totale. Cosa sta succedendo? Esiste un limite massimo di acquisti oltre il quale la BCE non può andare, pari al 33% di ogni emissione. Si tratta di una regola difficile da aggirare, altrimenti secondo le regole sul debito pubblico europeo di nuova emissione (le famigerate CAC, Collective Action Clauses) Draghi acquisirebbe come creditore troppi diritti di veto in sede di eventuale rinegoziazione (o ridenominazione) del debito. Secondo le stime della banca d’affari Morgan Stanley al ritmo di 18 miliardi al mese, che è quanto acquistava la BCE prima di chiudere i rubinetti, sarebbero rimasti soltanto 4-5 mesi prima di toccare questo limite.

Quindi, ricapitolando, abbiamo al momento la BCE in palese violazione di una regola di ingaggio (la capital key) al fine di poterne rispettare una seconda, più importante (il limite del 33%). Seguendo la logica, Draghi potrebbe: 1) modificare il criterio della capital keyper [Le condizioni del QE prevedono che gli acquisti siano ripartiti tra i vari titoli di stato, in base alle grandezze economiche dei paesi emittenti. NdRconsentire finalmente alle banche centrali nazionali di poter acquistare più titoli da chi ha più debito; è una proposta che ha anche un sapore di ragionevolezza e che dovrebbe essere supportata nel Consiglio Direttivo da rappresentanti delle Istituzioni nazionali che fossero più lungimiranti. Peccato che questa regola sia stata voluta dai tedeschi proprio per impedire che questo accadesse! 2) Ridurre in maniera sensibile il ritmo a cui la BCE compra per allungare un altro po’ la vita residua del QE. Questa seconda ipotesi mi sembra quella a minore costo politico, e coerente con gli indizi che Draghi sta lanciando a piè sospinto in tutti gli ultimi discorsi ufficiali.


A mio avviso la riduzione sarà sensibile: il passaggio da 60 a 40 miliardi consentirebbe alla BCE di poter proseguire il programma per altri 6 mesi senza dover modificare nessuna regola attualmente in vigore.

Per quanto abbiamo visto in passato, questa perdita di domanda corrisponderebbe ad una crescita di un altro 1% dei rendimenti dei titoli di Stato negoziati sul mercato secondario. In termini di costo del servizio del debito, parliamo giusto di quei 5 miliardi che Padoan ha ottenuto come sudato sconto dalla Commissione Europea.

Non mi aspetto un bel settembre al Ministero del Tesoro. Il deficit esce dalla porta e rientra dalla finestra.

Peraltro nessuno si sta preoccupando minimamente di cosa succederebbe dopo. Eppure basterebbe che i titoli di Stato comprati dalle banche centrali nazionali, piuttosto che essere dismessi sul mercato, venissero comprati dalla Banca centrale europea. Questa modalità di “chiudere” il QE porterebbe all’estinzione dei prestiti che la BCE ha erogato nell’ambito di tale programma alle Banche centrali nazionali. Il problema è che una simile proposta che avvicinerebbe il QE dell’Eurozona a quello della FED americana è un’idea eretica di cui non è nemmeno permesso discutere.


Un pensiero su “GUAI IN VISTA PER IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO di Marcello Minenna”

  1. Eros Cococcetta dice:

    Mi piacerebbe sapere come mai gli esperti di questioni finanziarie non parlano mai della vera causa del debito pubblico, che non è e non è mai stata la spesa pubblica o lo Stato "spendaccione", come astutamente vogliono farci credere politici ed economisti neoliberisti e come dimostrano le nostre statistiche confrontate con quelle di Germania e Francia. La causa del debito pubblico è che l'Italia deve acquistare dalle banche le banconote che potrebbe stampare gratis (avendo la sovranità monetaria) e pagarci sopra anche interessi salati, circa 80 Mld di euro l'anno di interessi sul DP (questo perché in base ai trattati UE la BCE dà i soldi alle banche ma non può darli agli Stati). La somma di questo super salasso (BANCONOTE + INTERESSI) ci costa 350 Mld l'anno di debito l'anno, costituito dai titoli di Stato che vanno in scadenza ogni anno (fonte MEF) che vengono pagati mediante emissione di altrettanti titoli di Stato, in una spirale che sia autoalimenta e si aggrava sempre di più. E' chiaro che dopo un tale dissanguamento lo Stato non ha più soldi per fare nulla, ormai neanche l'ordinaria amministrazione. Una storia catastrofica che è iniziata nel lontano 1981 con il "divorzio" della Banca d'Italia dal Ministero del tesoro (accordo Ciampi – Andreatta) e poi si è aggravata con l'introduzione dell'Euro. Ma quando il popolo conoscerà questa semplice verità le cose cambieranno rapidamente.

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