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INDAGINE SUL COLLASSO DEL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE di Vito Storniello*

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[ 1 luglio 2017 ]

Di seguito l’impeccabile intervento che Vito Storniello, dirigente dell’Unione Sindacale di Base (USB), settore sanità, ha svolto il 31 maggio scorso a Salerno in occasione dell’assemblea pubblica di Eurostop.
 L’Istat ha certificato per il 2015 il calo dell’aspettativa di vita in Italia. Non succedeva dal secondo dopoguerra sebbene dal 2003, con un crollo sotto i livelli medi nel 2008, l’aspettativa di vita in salute fosse già tra le più basse dei Paesi OCSE.
Sulla qualità della vita influiscono numerosi fattori, ma è certo che l’ambiente, le condizioni sociali e di lavoro, il reddito e l’accesso alle cure sono determinanti. Non a caso al sud si muore di più e prima, in Campania ad esempio, dove questi fattori si sommano, l’aspettativa di vita è di circa 2 anni inferiore a quella delle Marche.
È una fotografia dinamica dell’effetto delle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea.

L’Italia ha una spesa sanitaria pubblica oltre un terzo inferiore alla media dei Paesi dell’area euro e il divario è triplicato dagli inizi degli anni 2000; il livello di prestazioni sanitarie erogate è sensibilmente inferiore alla quasi totalità degli altri paesi dell’area (ad eccezione di Spagna e Irlanda) con un rilevante 48% in meno rispetto alla Francia e 73% rispetto alla Germania.
Si amplia anche il distacco in termini di posti letto per abitante, sensibilmente inferiore in Italia (3,4 per mille abitanti contro i 6,3 della Francia e gli 8,3 della Germania).
Sono circa 10 milioni gli italiani che non hanno accesso alle cure per problemi economici mentre cresce al ritmo di un miliardo l’anno la spesa privata dei cittadini (33 miliardi, più di un terzo di quella dello Stato) così come aumentano le richieste di prestiti personali finalizzati alle cure mediche (in particolare odontoiatriche).

Ticket e liste d’attesa alimentano scientemente la fuga dei cittadini verso il privato mentre la libera professione, per quanto in calo, continua a fatturare oltre 1 miliardo l’anno travasando dalle tasche dei cittadini a quella dei medici 810 milioni di euro.
L’ideologia di una presunta insostenibilità del servizio sanitario pubblico -sdoganata per favorire la sanità integrativa privata, le assicurazioni, il welfare aziendale – è talmente falsa che il nostro SSN produce l’11% di PIL assorbendone attualmente solo il 6,8 %. Un valore questo destinato – dalle stime del DEF – a scendere al ritmo di uno 0,1% annuo fino ad arrivare al 6,5 % nel 2019; una soglia che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito come la linea rossa per la riduzione costante dell’aspettativa di vita.
Nel nostro paese la spesa sanitaria pro-capite è fissata mediamente a 1817 euro l’anno, una quota che colloca l’Italia agli ultimi posti nella classifica OCSE su 32 paesi.
Di vero c’è che i sistemi sanitari single-payer, come quello italiano, sono più economici e sostenibili di quelli basati sul mercato assicurativo e anche con migliori risultati di salute.
Per questo andavano affossati.
Il fronte anti single-payer sembra averla vinta .
Del resto bisognava preparare il campo – cioè svuotarlo da una forte presenza del settore sanitario pubblico – in vista della prossima approvazione del TTIP, il partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti che consentirà lo sbarco in Europa dell’industria sanitaria e assicurativa americana.
Di vero c’è la volontà di spostare la tutela della salute dallo Stato alla possibilità economica personale e al profitto di assicurazioni e privati. Uno Stato che ha già da tempo abbandonato il campo della prevenzione e regalato oltre il 95% della riabilitazione alle lobby private.

L’ATTACCO AL WELFARE, LO SMANTELLAMENTO DEL SSN
Da anni si porta avanti un attacco senza sosta al welfare attraverso leggi e manovre finanziarie che mirano a definire un modello di sviluppo privo di garanzie sociali e diritti fondamentali e universali con l’obbiettivo di privatizzare ciò che resta dei servizi pubblici essenziali.
La sanità, come la scuola e la previdenza e i trasporti sono i servizi che caratterizzano il welfare e il loro smantellamento assume anche un valore ideologico per un nuovo modello che intende cancellare la memoria della conquista dei diritti attraverso le lotte sociali e trasformarli in privilegi per fasce sempre più ridotte di popolazione.
Ma la sanità è anche una riserva di risorse economiche, circa l’80% dei bilanci regionali, e un asset economico da utilizzare come terreno di investimenti privati considerando che 1 euro investito in sanità produce un valore di 1,70.
La demolizione del SSN si concretizza combinando insieme: definanziamento del sistema; taglio di posti letto e chiusura/accorpamento di ospedali ed esternalizzazioni dei servizi; taglio al finanziamento degli enti locali (Regioni); ticket, liste d’attesa e libera professione; taglio dell’IRAP alle imprese; carenza strutturale di personale d’Assistenza.
Gli atti costruiti per questa strategia vanno dalle leggi di stabilità, che negli ultimi anni hanno tagliato circa 30 miliardi al Fondo Sanitario, alla Spending Review che altro non ha prodotto che tagli lineari ai servizi per recuperare risorse per l’abbattimento del debito pubblico; alla revisione dei Livelli Essenziali d’Assistenza con il taglio di oltre 200 prestazioni; i decreti sui costi standard e gli standard ospedalieri attraverso i quali si stabiliscono, a prescindere, i tempi di degenza e si classificano gli ospedali in funzione dei bacini d’utenza.

Ma la vera e propria legge di stabilità della sanità rimane il Patto per la Salute, un patto finanziario tra Stato e Regioni che ha l’intento di ristrutturare profondamente e dall’interno il sistema.
Attraverso il Patto si ridisegnano percorsi, spesso già sperimentati, di privatizzazione del sistema, si ridefiniscono parametri, numero di posti letto e organizzazione sanitaria. Ogni regione, in base ad un generico principio di appropriatezza, può decidere cosa e come tagliare; è quello che ha permesso a molte regioni di avere quote di privato oltre il 40% a sfavore del pubblico e di far proliferare il sistema dei Project Financing.
LA POLITICA DEI PIANI DI RIENTRO E L’ACCENTRAMENTO DEI POTERI
I Piani di Rientro regionali (PdR), definiti dallo stesso Ministero della Salute come veri e propri piani di ristrutturazione industriale che incidono sui fattori di spesa sfuggiti al controllo delle regioni, sono stati introdotti nel 2005 e finalizzati a ristabilire l’equilibrio economico e finanziario delle Regioni. A qualunque costo.
Ora, il fatto che a distanza di 4 anni dalla modifica del titolo V della Costituzione (2001), già la metà delle regioni fosse in PdR la dice lunga sulla concretizzazione nel nostro Paese di quel federalismo tanto sbandierato nella riforma.
In realtà, il federalismo ha colpito al cuore i concetti di universalismo, solidarismo e uguaglianza sui quali è nato il SSN decretando la nascita di 20 sistemi sanitari diversi, perpetuando le disuguaglianze nord/centro-sud, creando cittadini di serie A e cittadini di serie B.
I PdR sono strumenti politici di accentramento dei poteri nelle mani del governo centrale (ministero dell’economia in primis) che, in nome del pareggio di bilancio, impongono le politiche sanitarie delle Regioni.
Nelle regioni in PdR non solo non vengono garantiti nemmeno i livelli minimi di assistenza e gli standard sui posti letto decretati dallo stesso governo, ma la tassazione locale (Irpef) viene aumentata oltre i livelli massimi (è il caso del Lazio e della Campania, regioni più tassate d’Italia); il blocco del turnover per il personale sanitario è totale e porta con sé una perdita strutturale di posti di lavoro; i tagli al salario accessorio sono tali da aver introdotto, di fatto, le gabbie salariali. Più tasse, meno servizi, meno salario.
Attualmente sono 8 le Regioni in PdR, tutte del centro-sud (Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia) con l’eccezione del Piemonte.

5 di queste (Lazio, Campania, Calabria, Abruzzo e Molise) sono  commissariate.
Nonostante ciò e nonostante per la Corte dei Conti sia evidente il successo dei piani di rientro sotto il profilo economico e finanziario, le perdite nel 2015 sono aumentate rispetto all’anno precedente.
La legge di stabilità 2016 estende lo strumento dei PdR regionali anche alle singole Aziende Ospedaliere, IRCCS pubblici e Policlinici Universitari con uno scostamento finanziario del 10% o con 10 milioni di debito prevedendo, in questi casi, anche la decadenza del Direttore Generale.
Si scopre così che la metà delle aziende sanitarie italiane (53 su 108) sono in rosso e passibili di PdR, avendo cumulato circa 2 miliardi di debito, e che la retorica dei modelli sanitari virtuosi altro non è che una bufala, come del resto  abbiamo sempre sostenuto, visto che tra queste figurano numerose aziende della Lombardia (5), della Liguria (2), della Toscana (3), del Veneto (1), del Friuli (4) e persino di quelle Marche (2) che il buon commissario alla Spending Review Cottarelli annoverava tra le regioni benchmark (cioè tra quelle da prendere a modello virtuoso per tutte le altre), prima di essere defenestrato.
Un ulteriore imbarbarimento del sistema; l’accanimento scientifico nella riproposizione  di sistemi falliti, sotto tutti i punti di vista, che vengono utilizzati per continuare a comprimere diritti e salari, per distruggere e precarizzare il lavoro, nel tentativo di risanare un debito che di certo non hanno prodotto i lavoratori dipendenti.
Se la situazione è quella descritta sono sicuramente molte e impegnative le battaglie che attendono, sul piano nazionale e territoriale, un’organizzazione sindacale conflittuale coma la USB.
La USB ha lanciato il 3 aprile 2016 in una grande Assemblea Pubblica a Milano una piattaforma che chiama alla difesa dello stato sociale e dell’occupazione.
Una piattaforma che è parte integrante della Piattaforma Eurostop dove il diritto alla salute e la difesa della sanità pubblica hanno un posto di rilievo.

LA SALUTE E’ UN DIRITTO, LA SANITÀ PUBBLICA UN DOVERE

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