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ANTROPOCENE O L’ANNIENTAMENTO BIOLOGICO di Daniele Conversi e Luis Moreno

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[ 17 agosto 2017 ]

Una denuncia agghiacciante che il modo di produrre e consumare dominante rappresenta una minaccia per la biosfera. Colpisce però il minimalismo degli autori di questa denuncia. Non passa loro per la testa che occorra, appunto, cambiare sistema di produzione, distribuzione e consumo della ricchezza. Per essi la soluzione dipenderebbe «dalla capacità dei cittadini di adottare strategie finanziarie più etiche nell’investimento dei propri risparmi, dipenderà la possibilità di trovare una chiave importante per affrontare il cambiamento climatico». (sic!)



Resa popolare dal Nobel per la chimica Paul Crutzen per designare un nuovo periodo geologico separato dall’ Olocene (ultimo periodo geologico dell’era Quaternaria), la nozione di Antropocene ci richiama all’impatto determinante, permanente e irreversibile del comportamento umano sulla superficie terrestre. 

Nel suo libro tradotto in italiano come Benvenuti nell’Antropocene, Crutzen argomenta che le prove per stabilire l’inizio del nuovo periodo sono già visibili sia nelle rocce, in forma di isotopi nucleari, sedimenti, scorie, particelle di alluminio, cemento, plastica e carbone, sia negli oceani e nelle zone costiere, con l’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacci.

L’aumento rapido dei gas a effetto serra (GHG, greenhouse gas) è probabilmente l’elemento che definisce meglio l’inizio della nuova era, che si può collocare all’incirca verso la metà del 20º secolo, anche se il dibattito rimane aperto circa l’identificazione di una data precisa.

Negli ultimi decenni, la crescita abnorme dei consumi di gran parte della popolazione terrestre ha prodotto gravi effetti sul nostro pianeta con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il futuro di tutte le specie viventi. Tali effetti sono oggetto già da vari decenni di studi, rapporti di ricerca e pubblicazioni di alto impatto che hanno coinvolto quasi tutte le discipline scientifiche. Purtroppo però tutta questa abbondanza di studi ha fatto capolino solo in modo intermittente sui mezzi di comunicazione di massa e nelle reti sociali, spesso ostacolata e contraddetta dalla visibilità istrionica di pseudo-scienziati portavoce, riconosciuti o meno, delle lobbies petrolifere e dei combustibili fossili. Dato tale pervasivo vuoto di informazione, non c’è da sorprendersi che il pubblico sia più orientato a crucciarsi per i prezzi di consumo dell’energia elettrica piuttosto che a chiedersi come ridurre le emissioni. Oggi mancano gli strumenti e la volontà di mostrare a tutte le popolazioni cosa si debba fare in pratica per contribuire a ridurre i cambiamenti climatici.

Raggiungendo livelli sempre più alti, l’aumento costante dei gas serra, accoppiato alla diffusione della fratturazione idraulica (fracking), è in grado di produrre un impatto incontrollabile, minacciando la continuità stessa della vita sulla Terra.
Solo pochi giorni fa, i risultati di una ricerca scientifica appena pubblicata sulla prestigiosa Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS) confermano in termini ancora più catastrofici l’imminenza della ‘sesta estinzione di massa’ nella storia del pianeta. Si parla di “biological annihilation” (annientamento biologico) rivelando come miliardi di animali siano già stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi (poche volte invero perché usiamo prevalentemente mezzi di trasporto).

Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Questo modello è stato responsabile non solo di un aumento senza precedenti delle emissioni di CO2, ma anche di un processo a senso unico di omogeneizzazione culturale, a seguito del quale mai prima d’ora così tante persone hanno assunto abitudini di consumo originariamente proprie delle vecchie élites occidentali. 

Tali processi hanno contribuito ad aumentare i livelli di povertà e di  emarginazione sociale, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Secondo un noto rapporto di Oxfam (‘Extreme Carbon Inequality’, 2015), la stragrande maggioranza delle vittime del cambiamento climatico sono proprio coloro che vivono in paesi che contribuiscono di meno allo stesso. E per di più, le regioni più vulnerabili ospitano circa la metà più povera della popolazione mondiale. Un grafico assai rivelatore dell’ingiustizia climatica, non lascia dubbi su come la metà più povera della popolazione mondiale, produca solo il 10% delle emissioni globali di carbonio, mentre il 10% più ricco del pianeta contribuisce a oltre il 50% delle emissioni.

Inoltre, ciò sembra dimostrare che, sebbene il problema demografico non debba essere sottovalutato, l’impatto più consistente è prodotto non dai numeri delle bocche da sfamare, ma da modelli acquisiti di consumo, sperpero, abitudini e stili di vita insostenibili. Intanto, sempre secondo Oxfam, l’81% dei decessi causati dai disastri ambientali colpisce le aree a reddito basso e medio-basso.


Secondo un altro studio, ‘Carbon and inequality from Kyoto to Paris’, diretto da Lucas Chancel e Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’1% delle famiglie statunitensi, singaporesi, o saudite a reddito più elevato sono annoverabili tra i maggiori  responsabili di inquinamento, con più di 200 tonnellate annuali di emissione di CO2.  Di conseguenza, una visione semplicistica della frattura Est-Ovest o Nord-Sud, appare inadeguata: tra l’1% dei super-emettitori vanno anche incluse le élites dei super-ricchi di Cina, Russia, India e Brasile, per fare un esempio. Questa nuova geografia del cambiamento climatico, accompagnata dall’aumento delle disuguaglianze di reddito e  dell’emarginazione sociale, rende più che mai urgente un’azione concertata da parte di tutti i paesi per ottenere dei risultati minimamente apprezzabili a livello globale.

Inoltre, un terzo studio pubblicato di recente, ha mostrato che circa 100 aziende sono responsabili del 71% delle emissioni globali, cioè un numero significativamente infimo di grandi produttori legati ai combustibili fossili arreca un danno assolutamente sproporzionato rispetto ai guadagni astronomici di pochi (‘The Carbon Majors Report’ 2017). 


Da come la politica e la giurisprudenza troveranno i mezzi per controllare questa ristretta elite detentrice di un potere economico e mediatico immenso, e dalla capacità dei cittadini di adottare strategie finanziarie più etiche nell’investimento dei propri risparmi, dipenderà la possibilità di trovare una chiave importante per affrontare il cambiamento climatico.

Come è noto, nonostante la reticenza degli Stati Uniti, nel dicembre 2015 fu finalmente firmato l ‘accordo di Parigi, promosso dalla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici derivata dai precedenti Accordi di Rio (1992) per stabilire le misure atte a ridurre le emissioni dei gas serra. L’Accordo di Parigi è entrato in vigore nel novembre 2016 in vista della sua piena applicabilità nel 2020, a seguito del completamento del termine del protocollo di Kyoto del 1997. Il documento, comprendente una vasta gamma di raccomandazioni politiche, richiede ai paesi firmatari di rivedere e aggiornare periodicamente i loro livelli di emissione. 

L’Unione Europea ha assunto il comando delle trattative per superare momenti critici di disaccordo tra alcuni dei 196 paesi partecipanti e firmatari all’unanimità dell’Accordo di Parigi. I colloqui  tenutisi a Marrakech nel 2016 hanno continuato il monitoraggio degli effetti dell’accordo di Parigi, non solo per quanto riguarda il finanziamento complessivo, ma soprattutto per quanto riguarda il sostegno promesso ai paesi in via di sviluppo, le cui élites hanno a lungo  continuato a richiedere incentivi economici che garantiscano a loro volta forme di sviluppo sostenibile.  

Dopo il trionfo del populismo nazionalista nelle elezioni presidenziali statunitensi del novembre 2016, il presidente Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, in conformità alle promesse elargite durante la campagna elettorale in combutta con le elites dei combustibili fossili. Tale prevedibile arroccamento americano ha lo scopo di facilitare un protezionismo industriale unilaterale e senza restrizioni. Mentre il resto dei firmatari dell’accordo ha ribadito il  proprio impegno respingendo il ritiro americano, quasi tutte le elites politiche e opinioni pubbliche mondiali non hanno nascosto un crescente allarme,  compresi i governi di quei paesi che nel 2009 avevano ostacolato gli accordi di Copenhagen, come la Cina e l’India.

In America Latina, quasi tre quarti dei cittadini della regione, una delle percentuali più alte al mondo, riconoscono fermamente la gravità e la serietà del cambiamento climatico – i paesi latinoamericani e caraibici sono molto vulnerabili al problema del riscaldamento globale. Un aumento rilevante e sostenuto delle temperature porterebbe in un intervallo non molto lungo a una riduzione drastica dei terreni coltivabili, alla scomparsa di atolli, barriere coralline, isole basse e intere regioni costiere, così come ad una estrema variabilità del tempo.

Non sarebbe realistico ipotizzare una risposta unica ai difficili e complessi problemi legati al cambio climatico. I punti di vista normativi variano: dall’illusione di una ‘technological fix’, o ‘soluzioni tecnologiche’ all’espansione massiccia delle energie rinnovabili (si veda la recente decisione della Volvo di costruire entro il 2019 solo auto elettriche, o almeno ibride), dalla decrescita attraverso la riduzione controllata e volontaria dei consumi alla rivalutazione delle conoscenze ecologiche tradizionali e alla protezione delle economie pre-industriali residue; dall’economia circolare e dal riciclaggio alla pratica già diffusa della ‘sovranità alimentare’; fino all’ opzione estrema della ‘geo-ingegneria’ (che potenzialmente non esclude l’energia nucleare) e che implicherebbe la costruzione di dighe per proteggere città o paesi dall’innalzamento delle maree e altre soluzioni provvisorie per tamponare effetti localizzati di un fenomeno che non ha nulla di locale. In ogni caso, sarà vitale ambire alla massima eterogeneità e creatività in termini di soluzioni, adattamento, conoscenze o tecniche di sopravvivenza sia per cercare di risolvere nei limiti del possibile il problema del cambio climatico in  sé, sia per minimizzare le sue conseguenze – e prima che sia troppo tardi.

Da parte sua, l’UE si sta adoperando per trasformare i rifiuti in materiali rinnovabili in una nuova ‘economia circolare’. Secondo la Commissione Europea, l’Europa produce più di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, oltre la metà dei quali (63%) è derivata dal settore minerario e delle costruzioni. Ma spesso l’accento è posto sul cittadino, nonostante solo l’8% dei rifiuti sia di origine domestica. Così l’Europa perde ogni anno circa 600 milioni di tonnellate di materiali contenuti nei rifiuti che potrebbero essere riciclati o riutilizzati – mentre si ricicla solo il 40% dei rifiuti prodotti dalle famiglie. 

In contrasto con l’allarme che si sta diffondendo in molti paesi, il nuovo protezionismo degli Stati Uniti, accompagnato dalle iperboli della negazione, indica che ci stiamo avvicinando a passi da gigante verso il suicidio climatico, incoraggiato da un modello economico neoliberista inarrestabile. Di fronte al pressoché unanime consenso scientifico sulle origini antropogeniche di un riscaldamento globale indotto da modelli di consumo selvaggio, si erge un revisionismo corporativo militante impostato sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione e ostile a ogni possibile mobilitazione sociale volta a salvare il pianeta. 

Ciò che si profila è un mondo nuovo, un ‘brave New World’, come annunciava Aldous Huxley, che paradossalmente è condannato a finire in tempi relativamente brevissimi. Un mondo, insomma, in cui una percentuale irrisoria ma ultra-potente, del genere umano sembra pronta a immolare i destini della terra sull’altare dei propri guadagni mai soddisfatti. Magari il termine più adeguato potrebbe essere ‘classicidio’, vista l’enorme sproporzione numerica tra vittime e carnefici e la sproporzione ancora più accentuata tra i redditi delle vittime e quelli dei carnefici. Ma nessuno potrà ritenersi al sicuro ed esente dal pericolo di estinzione: se il secolo 20º è stato spesso definito il ‘secolo del genocidio’, c’è da temere che il secolo 21º potrebbe essere identificato, da un punto di vista terminologico, come il ‘secolo dell’omnicidio‘, dello sterminio potenziale della gran parte delle specie viventi, tra cui bisognerà annoverare gli esseri umani. Piuttosto che di un epilogo casuale, è bene comprendere che si tratta una ‘cronaca’ lungamente preannunciata.  
Bisognerà combattere il negazionismo, incarnato successivamente nell’anti-scienza, nella marginalizzazione degli esperti, e nell’anarchia informativa della post-verità. Contro questa Idra dalle multipli teste, siamo chiamati a mobilitarci. Meglio tardi che mai. 

* Fonte: Micromega

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