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PER UNA DIVERSA POLITICA FISCALE, DOPO L’USCITA DALLA UE E DALL’EURO di Lidia Riboli

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[ 14 agosto 2017 ]


Ci segnalano e volentieri pubblichiamo questo ottimo saggio sulla politica fiscale di uno Stato sovrano


PROPOSTE PER UNA DIVERSA POLITICA FISCALE DOPO L’USCITA DALLA UE E DALL’EURO
per sviluppare e indirizzare l’economia, la solidarietà sociale, il risparmio privato
di Lidia Riboli
Negli ultimi anni, in assenza di sovranità, un sempre più alto livello di tasse è andato associandosi alla progressiva riduzione dei servizi pubblici, a causa dei tassativi e perversi vincoli europei in relazione al “debito” e al “deficit”, a prescindere se ci fosse un governo di centrodestra o centrosinistra, anche se in genere quest’ultimo ha fatto di peggio, in quanto caratterizzato da un maggior tasso di fanatismo filo-europeista. 
Ma, al di là di questo, la sinistra sembra in genere considerare un grado sostenuto d’imposizione fiscale generalizzata, ancorché progressiva, come qualcosa di giusto oltre che necessario. 
Questo a mio avviso è sbagliato e pericoloso. Pericoloso perché provoca il timore o finanche l’ostilità di vasti settori sociali e non solo di ricchi, rendendo difficile il raggiungimento del consenso della maggioranza dei cittadini e problematico il suo mantenimento. Sbagliato perché frena lo sviluppo dell’economia e ci penalizza nel confronto-competizione con l’estero. Occorre ed è possibile sviluppare l’economia cercando di realizzare una vasta alleanza strategica e non solo tattica tra gli strati popolari, le categorie professionali e le piccole e medie imprese nazionali, in modo vantaggioso per tutti questi settori, a fronte di regole da stabilire e far rispettare, contro il grande capitale finanziario multinazionale privo di regole e le imposizioni di istituzioni politico-finanziarie sovranazionali.

Detassare per abbassare i prezzi

Assumendo la necessità di uscire dall’euro, per tanti motivi di cui si è detto altre volte e che qui non ripeto, vediamo come, ripristinata la nostra moneta nazionale e usciti dai vincoli imposti dall’UE, si potrebbe ottenere una significativa riduzione dei prezzi abbassando le tasse.
Innanzitutto c’è da considerare che quando l’inflazione si è incrementata negli anni Settanta-inizio Ottanta del ‘900, ciò è avvenuto soprattutto a causa dell’aumento dei costi (in particolare in seguito a due forti rialzi del prezzo del greggio, nel ’73 e nel ’79, causati da mutati rapporti di forza in sede internazionale e non da penuria dello stesso), ben più che per l’aumento della domanda. Quest’ultima in un mercato aperto ai Paesi esteri e con le tecnologie a disposizione quasi sempre può essere soddisfatta a prezzi contenuti.
All’indomani dell’uscita dall’euro è immaginabile (ed anche in qualche misura auspicabile, se non eccessiva, in funzione di riequilibrio) una svalutazione della lira in confronto ad altre monete e all’euro stesso, nel caso poco probabile che dovesse continuare ad esistere. Questo comporterebbe un aumento del costo delle materie prime e delle altre merci d’importazione. Per ovviare a questo e a un possibile squilibrio dei conti con l’estero, gran parte degli economisti, tra cui anche quelli di sinistra, considera necessario un periodo di moderazione salariale e di contenimento della stessa spesa pubblica, in prosecuzione delle politiche di austerità, tenendo abbastanza alto il tasso di disoccupazione. Si vorrebbero così scongiurare i possibili effetti inflattivi dati da un repentino aumento dei salari e della domanda di beni di consumo. 
D’altronde, penalizzando in questo modo il lavoro e l’occupazione si comprimerebbe la domanda interna e diventerebbe più difficile l’uscita dalla recessione. Di conseguenza si profilerebbe il forte rischio di perdere rapidamente il consenso necessario ad attuare politiche economico-sociali di segno diverso da quello voluto dai mercati globali e dalle istituzioni politico-finanziarie internazionali. Se usciamo dall’euro dicendo che la moneta unica costringe a svalutare il lavoro, dobbiamo poi evitare di attuare politiche che continuino su quella via!
Invece di rinunciare ad attuare politiche economiche di segno fortemente espansivo, giuste e necessarie, la cosa più opportuna da fare, sarebbe quella di eliminare in toto il cuneo fiscale, inteso come la somma di tutte le imposte che gravano sul costo del lavoro, sia a carico del lavoratore che del datore di lavoro, compresi i contributi, con l’esclusione degli stipendi più alti, dando in questo modo più potere d’acquisto al salario e competitività all’impresa. Non dovendo più subire i costi legati alla tassazione e ai contributi previdenziali non sarebbe più vantaggioso ricorrere al lavoro in nero, da parte dell’azienda. Il lavoro in nero è vantaggioso se serve ad eliminare i costi indiretti ovvero gli oneri fiscali e i contributi previdenziali; ma se questi non ci sono all’azienda non conviene pagare in nero perché non può inserire nel passivo del bilancio i costi, e neanche al lavoratore che percepisce un salario o uno stipendio basso-medio nei limiti della quota esente, dal momento che non dovrà più versare tasse né la propria quota di contributi. Questa misura dovrebbe applicarsi a tutti i redditi e quindi ovviamente anche ai lavoratori autonomi, che non sarebbero più tenuti ad aprire una partita Iva. Il lavoro falsamente autonomo (cioè il lavoro dipendente mascherato da lavoro autonomo) e varie forme di lavoro transitorio (come i voucher) potrebbero in gran parte essere superati eliminandone la convenienza prima ancora di dettarne regole limitative (comunque opportune) e i necessari controlli. 
Abbattendo l’enorme peso della tassazione e degli oneri indiretti, i prezzi dei beni e dei servizi potrebbero restare bassi, i salari reali aumentare e ci sarebbe anche lo spazio per migliorare le condizioni lavorative e la qualità dei prodotti offerti. In ogni caso le imprese non dovrebbero essere deputate a svolgere la funzione di sostituto d’imposta in relazione ai propri dipendenti.


La ratio di questa proposta è che, per tassare redditi e profitti, è necessario che questi si possano prima realizzare.
Se invece si tassa il lavoro prima e a prescindere dal conseguimento di reali profitti da parte delle imprese, è possibile che queste o finiscano per non reggere la competizione con l’estero e chiudano o debbano quanto meno ridurre i salari e peggiorare le condizioni di lavoro e/o licenziare ed ha poco senso cercare di impedirglielo per legge. È altresì inopportuno per uno Stato sovrano che non deve rispondere a formali vincoli di bilancio, chiedere pagamenti anticipati su redditi o profitti non ancora realizzatisi, ma soltanto presunti o frutto di calcoli artificiosi, spesso lontani dalla realtà.
I profitti e i redditi di un certo livello invece dovrebbero essere tassati in un’ottica di progressività. Una tassazione fortemente progressiva dei profitti sopra una certa soglia, oltre a corrispondere a criteri di equità, disincentiverebbe il ricorso alle assunzioni in nero per il maggior vantaggio di far comparire al passivo di bilancio dell’impresa tutte le spese e così abbassare la quota imponibile, proprio mentre il costo dei salari non sarebbe gravato dagli oneri fiscali e contributivi. Inoltre potrebbe avere una funzione calmierante nei confronti di salari e stipendi, diminuendo i vantaggi di avere paghe più alte, ma con maggiore tassazione.
L’Irpef potrebbe partire da una soglia di reddito medio-alto (per es. ad oggi 3.500-4.000 euro al mese, da rivedere a seconda dell’inflazione) in forma fortemente progressiva, con alcune limitate detrazioni da stabilire. Si potrebbero applicare parziali detrazioni per eventuali nuclei familiari con molti figli, per assegni di separazione, per spese di efficientamento energetico, passaggio a fonti rinnovabili ecc. Per affrontare queste ultime categorie di spese vantaggiose per l’ambiente potrebbero essere dati sussidi a chi ha un reddito inferiore al tetto oltre al quale si pagano tasse, e perciò non può godere di detrazioni.
L’Ires continuerebbe ad esistere come un’imposta da applicare ai profitti sopra una determinata soglia, quantificabile diversamente a seconda del genere di società. Oggi ha un’aliquota unica, penso che sarebbe opportuno prevedere l’applicazione di aliquote progressive. Si potrebbero completamente detassare gli investimenti fatti per la sicurezza, per diminuire l’inquinamento, il dispendio energetico, ecc. e magari parzialmente gli utili reinvestiti in funzione di obiettivi di sviluppo con determinati connotati (per es. creazione di maggior occupazione a tempo indeterminato con riduzione di orario).
In ogni caso uno Stato sovrano, che in quanto tale non deve rispondere a formali vincoli di bilancio, non dovrebbe chiedere mai pagamenti anticipati su redditi o profitti non ancora realizzatisi, ma soltanto presunti o frutto di calcoli artificiosi, spesso lontani dalla realtà.
Anche l’Irap andrebbe eliminata, il sistema sanitario può essere finanziato direttamente dallo Stato.
Inoltre andrebbe abolita la maggior parte delle imposte indirette, a cominciare dall’Iva, la tassa impostaci a partire dal gennaio 1973 dall’allora CEE (tra l’altro una piccola quota proveniente dai Paesi membri va a finanziare il bilancio comunitario). L’Iva fa aumentare i prezzi di tutti i prodotti e i servizi, grava in forma diversa e favorisce sempre chi riesce ad evaderla, con marchingegni più o meno complicati e può anche essere oggetto o strumento di truffe. Inoltre favorisce la non fatturazione e il lavoro in nero dei lavoratori autonomi artigiani e dei professionisti, poiché molto spesso, oggi, i clienti preferiscono non richiedere la fattura dal momento che è gravata dal peso di quella tassa. Se non ci fosse la ricevuta sarebbe più richiesta e così anche lo scontrino, in quanto necessari per far valere la garanzia del prodotto o del servizio reso.
Viceversa, se non si eliminasse il forte peso della tassazione, l’aumento dei costi dato dalla rivalutazione del lavoro e dell’ambiente porterebbe a una lievitazione dei prezzi, che costringerebbe a svalutare maggiormente la moneta per non danneggiare le esportazioni e non penalizzare la richiesta interna dei prodotti nazionali. 

Dopo aver eliminato i contributi previdenziali, sarei favorevole all’erogazione pubblica di una pensione uguale per tutti di una cifra da stabilire. Si potrebbe pensare di darla a partire dai sessanta anni di età (escluso per chi compie lavori usuranti da definire), per ipotesi ad oggi sui 1.500 euro, per poi adeguarsi all’inflazione. Per riceverla, non dovrebbe esser necessario aver versato dei contributi. Andrebbe data su base individuale a tutti coloro che hanno svolto dei lavori utili alla società, retribuiti o non, compresa la cura dei figli e che non dispongono autonomamente di fonti di reddito superiori. In questo modo la pensione di reversibilità potrebbe essere abolita. Per chi avesse già versato dei contributi, questi potrebbero essere conteggiati a parte e dar luogo a pensioni aggiuntive di entità differenti (o sostitutive se superiori a una certa cifra, per esempio il doppio della cifra fissata). Eventualmente, per diverse attività lavorative chi volesse potrebbe optare per un’uscita graduale, riducendo l’orario, con modalità da stabilire. In ogni caso chi ambisse a ricevere una pensione superiore o anticipata, potrebbe investire parte dei risparmi facendoli gestire preferibilmente a un ente pubblico in modo sicuro e vincolato, in ogni caso esentasse, per costruirsi una pensione integrativa “su misura”. Questo servirebbe a incoraggiare chi guadagna di più a investire quello che non spende senza il rischio di creare bolle speculative e/o di perdere buona parte di quanto risparmiato. Impieghi da considerare in alternativa tanto a pericolosi investimenti speculativi quanto a una esagerata corsa consumistica, da non incoraggiare non solo per scelte valoriali, ma soprattutto per evitare che in certi casi i consumi eccessivi rischino di squilibrare i conti con l’estero e/o producano inflazione. La “sostenibilità” delle pensioni non è data dai contributi che sono stati versati dagli stessi pensionati quando lavoravano, né da chi è occupato al momento attuale, ma dal fatto che il Paese lavora e produce abbastanza da poter sostenere anche i consumi dei pensionati che le ricevono.

Utilizzo dello strumento fiscale

Ritengo che le tasse dovrebbero essere utilizzate principalmente per 1) diminuire le diseguaglianze e 2) orientare le modalità di sviluppo dell’economia e dei consumi, nonché di migliori condizioni lavorative e sociali. Non servono invece a finanziare la spesa pubblica, in quanto lo Stato non ha bisogno di finanziarsi con entrate fiscali, potendo emettere moneta sia direttamente che a fronte di titoli di debito.
Quindi, in relazione al primo punto, dovrebbero essere applicate agli extraprofitti di società medio-grandi, per evitare che diventino troppo potenti nei confronti dello Stato e all’interno del mercato così da strangolare le piccole e medie imprese, ed inoltre agli stipendi e ai redditi d’altro genere di livello alto, da definire. In merito al secondo punto, potrebbero essere utilizzate per disincentivare alcuni consumi da parte dei cittadini e scoraggiare le aziende dal compiere determinati investimenti e applicare alcune tipologie contrattuali, premiandone altre. Per esempio, senza penalizzare il salario del lavoratore, si potrebbe applicare una tassa sui contratti a tempo determinato (per chi ne facesse ricorso senza reale necessità). Allo stesso tempo andrebbe prevista la possibilità di effettuare limitate assunzioni a tempo determinato e part time, preferibili in presenza di domanda di lavoro al posto del ricorso agli straordinari, senza penalizzare quelle imprese che, per la clientela cui si rivolgono, hanno periodi di picchi in cui la produzione debba essere intensificata.
Sono contraria alla flat tax e a qualunque appiattimento generalizzato (se una tassa è dannosa, meglio levarla del tutto), come ad attrarre capitali esteri attraverso una legislazione fiscale di favore o a particolari sconti. Gli unici investimenti esteri che ci potrebbero realmente servire sono quelli che ci permetterebbero di acquisire tecnologie utili che ancora non abbiamo saputo sviluppare.
Una tassazione fortemente progressiva dei profitti a partire da una soglia sufficientemente alta da stabilire, oltre a corrispondere a criteri di equità, disincentiverebbe il ricorso alle assunzioni in nero, dal momento che il costo dei salari (che normalmente non superano la soglia esentasse) non sarebbe gravato dagli oneri fiscali e contributivi, mentre tutte le spese sostenute dall’impresa (quindi anche quelle relative ai salari) comparirebbero nel passivo di bilancio abbassando l’eventuale quota imponibile e potendo quindi ridurre la relativa aliquota da pagare.
In merito al secondo punto, potrebbero essere utilizzate per disincentivare alcuni consumi da parte dei cittadini e scoraggiare le aziende dal compiere determinati investimenti e applicare alcune tipologie contrattuali, premiandone altre. 
Alcuni economisti di sinistra, come Cesaratto e Brancaccio, ritengono che probabilmente sarà necessario, oltre a reintrodurre forti restrizioni ai movimenti di capitale, anche attuare limitazioni alla circolazione delle merci, magari con l’introduzione di dazi, prevedendo inoltre un ripristino della scala mobile su salari e pensioni. Quanto ai dazi, ritengo che, senza prevederli necessariamente generalizzati e permanenti, potrebbe giovare ricorrervi per proteggere la produzione interna di alcuni beni, a cominciare da quelli alimentari. Sarebbe possibile anche applicare dazi differenziati sugli stessi prodotti, ma provenienti da Paesi diversi, a seconda dei rapporti che si hanno con i vari Paesi, sia in merito agli scambi commerciali che alle relazioni di natura politica. I dazi, a differenza della svalutazione, sono mirati e quindi non provocano gli stessi effetti inflattivi, anche se sono percepiti come una misura più aggressiva in grado di provocare eventuali ritorsioni. È necessario che uno Stato dotato di sovranità sappia adottare misure duttili, adeguandole al mutare delle circostanze.
Tendere all’autosufficienza in relazione a ciò che è essenziale, come in primis, ma non solo l’energia e l’agricoltura, al fine di non dover subire ricatti non significa affermare principi autarchici. 
Quanto alla libera circolazione dei capitali e ancor più alla delocalizzazione delle imprese potrebbero essere, a seconda della situazione congiunturale e del consenso politico raggiunto, disincentivate tramite penalizzazioni economiche o prevedendo rigorosi limiti di legge. È probabile che molte delle aziende piccole e medie che sono state costrette a delocalizzare per sopravvivere in passato, una volta (ri)conquistata la sovranità, torneranno in Italia, accettando le regole che verranno loro richieste, a fronte della garanzia di una maggior protezione nei confronti della globalizzazione senza regole che avvantaggia soprattutto le grandi imprese multinazionali.
Riguardo alla scala mobile, citata quasi sempre da chi ritiene necessario uscire dall’euro “da sinistra”, pur non escludendo che se necessario vi si possa ricorrere, penso che abbia delle controindicazioni per cui sarebbe meglio esplorare prima una serie di altre misure atte ad evitare preventivamente l’esplodere dell’inflazione.
Verificandosi un forte ribasso dei prezzi con l’abbattimento delle tasse, questo potrebbe rivelarsi sufficiente, per lo meno fintanto che l’inflazione non diventasse eccessiva successivamente. Tanto più se sarà ripristinata la gratuità del welfare e la semigratuità di altri servizi pubblici. In ogni caso i sindacati e altri possibili organismi rappresentativi dei lavoratori potrebbero sempre richiedere adeguamenti salariali nei contratti successivi, anche senza una misura di adeguamento automatico. Fintanto che il tasso d’inflazione non fosse eccessivo, sarebbe auspicabile un autocalmieramento delle richieste di aumenti salariali da parte dei lavoratori e delle loro rappresentanze (sindacati, consigli), privilegiando invece le richieste volte ad ottenere dagli imprenditori migliori condizioni di lavoro e dal governo un sensibile e continuo miglioramento dei servizi. Questo potrebbe rappresentare uno scambio utile per evitare che nel tempo si possa sviluppare un’eccessiva inflazione (sia da costi che da domanda) ed eventuali squilibri nella bilancia commerciale.
Una scala mobile generalizzata e automatica, da ripristinare su un paniere sempre parziale e discutibile, oltre a tutelare solo il lavoro dipendente e non quello autonomo, rischierebbe di ripristinare una spirale perversa salari-prezzi. Al fine dichiarato di volerla evitare sono state giustificate tutte le decisioni dall’ingresso nello SME in poi. È chiaro che si è trattato in gran parte di un pretesto, tuttavia è realmente possibile che si venga a generare un meccanismo automatico che sarebbe meglio cercare di evitare. È altresì vero che agire nell’altro modo, contenendo la spesa pubblica e l’occupazione, allo scopo di contenere i salari, sarebbe certamente peggio. Bagnai ha scritto ne “l’Italia può farcela” che l’indicizzazione attraverso la scala mobile non determina inflazione, ma registra solamente quella che si è già verificata. Per suffragare questa tesi, ha postato una serie di grafici storici di situazioni in cui c’è stata una svalutazione e i prezzi non sono cresciuti. Credo che però non sia sufficiente osservare queste due sole variabili, senza valutarne altre, in primis le diverse politiche economiche attuate dai governi. Per esempio, a seguito della svalutazione del ’92, il governo ha attuato una serie di misure recessive, per tenere bassi i salari e così evitare una crescita dei prezzi, senza contare la rapida discesa del prezzo del petrolio verificatasi nello stesso periodo. I grafici a corredo intendono dimostrare la valenza scientifica di ogni analisi, ma difficilmente riescono a tener conto di tutte le variabili. Del resto è molto difficile che dei grafici possano tener conto di variabili complesse come le diverse politiche economiche e il loro impatto in circostanze storiche diverse.
Quindi preferisco provare a svolgere un ragionamento sulla questione. La logica suggerirebbe che, in assenza di politiche recessive da evitare, e piuttosto in presenza di opportune politiche espansive, uno strumento di questo genere possa indurre tanto un aumento del costo del lavoro quanto un aumento della domanda. Entrambe le cose sono suscettibili di provocare ulteriore inflazione, la prima maggiormente, in quanto gli imprenditori cercheranno per quanto possibile di scaricare i maggiori costi sui prezzi dei prodotti (tanto più se potranno usufruire di dazi protettivi nei confronti dei mercati esteri), innescando una rincorsa tra i salari e i prezzi; la seconda solo in proporzione al tasso di difesa del potere d’acquisto garantito dal meccanismo d’indicizzazione. Con questo intendo dire che questo strumento andrebbe maneggiato con una certa cautela, valutando i pro e i contro del suo utilizzo. Ritengo perciò che non basti rispondere, a chi segnala il pericolo di un’eccessiva inflazione, che esiste la scala mobile a protezione del potere d’acquisto, come se rappresentasse una sorta di antidoto privo di qualsiasi criticità e controindicazione.
Penso che occorra pensare non solo a misure difensive nei confronti del mercato, ma ancor prima attive per condizionarlo. 
A questo fine sarebbe necessario comprendere perché i prezzi aumentino eccessivamente, analizzando anche i vari beni e servizi in modo differenziato. Laddove si valuterà che il maggior prezzo dipenda essenzialmente dall’aumento del costo delle materie prime o dei prodotti importati, occorrerà cercare di indurre un aumento dell’offerta nazionale di prodotti analoghi o incentivare consumi alternativi di beni che possano essere prodotti internamente. Per quanto riguarda le fonti d’energia, si tratterà di incentivare le rinnovabili in sostituzione delle fossili. In ogni caso la valutazione di quali fonti utilizzare si dovrà riferire, ancor prima che in relazione al risparmio finanziario, al calcolo del possibile impatto ambientale delle alternative tra cui scegliere. L’ambiente e le risorse naturali non si possono ricreare allo stesso modo delle risorse finanziarie! Solo se su alcuni prodotti necessari (per es. alimentari) si ritenesse che si tratti essenzialmente di manovre speculative anziché di scarsità dell’offerta o maggior costo dovuto alla necessità di ricorrere all’importazione, si potrebbero imporre dei prezzi bloccati, ma prima di tutto occorrerà intervenire sulla filiera che porta dalla produzione al consumo, per esempio incentivando la vendita diretta a km.0 e penalizzando le attività di intermediazione non necessarie, oltre ai grandi gruppi commerciali e ai cartelli che venissero attuati.
Sarà perciò da evitare l’imposizione di prezzi totalmente fuori mercato. Per esempio in Venezuela si è visto come prezzi del latte inferiori ai costi di produzione abbiano portato a imboscare il latte, destinandone la quota maggiore all’esportazione in Paesi (come la Colombia) dove i prezzi erano liberi, e nel contempo a sviluppare internamente un mercato nero parallelo. In alternativa le aziende avrebbero chiuso, come sta avvenendo in Italia, dove per altro l’invasione del latte estero e la fine delle quote ha portato a diminuire fortemente il prezzo pagato per l’acquisto ai produttori e non il prezzo al consumo concordato tra i marchi di distribuzione. Occorrerà capire cosa avviene nella filiera e/o quali sussidi eventualmente dare ai produttori di latte (se pagati troppo poco) o ai consumatori (se i prezzi fossero troppo alti). Nel caso di una sovrapproduzione, occorrerà incentivare una riconversione delle produzioni, ma intanto, oltre a stabilire dei dazi sui prodotti esteri, comprare l’eccedente per evitare una eccessiva caduta dei prezzi e il verificarsi di sprechi, incentivando le industrie di trasformazione e destinando le quantità eccedenti a scopi sociali di carattere umanitario, anche verso Paesi esteri colpiti da guerre o carestie o altre calamità. Considerando poi l’ampia fascia reddituale e dei profitti d’impresa esente prima prospettata, difficilmente si arriverebbero a tassare i redditi dei produttori, sia singoli che riuniti in vere cooperative, mentre entrerebbero a pieno titolo nei parametri tassabili i profitti della grande distribuzione (nella misura in cui i profitti andranno a superare la stessa fascia). 
Dopo aver eliminato il cuneo fiscale ed abolita l’Iva, andrebbero levate anche le altre accise che gravano su diversi beni e servizi, in primis l’acqua, l’elettricità, il gas (che sarebbe opportuno far tornare in mano pubblica) e la benzina. Tuttavia su quest’ultima sarei favorevole a mantenere una certa tassazione (in ogni caso decisamente più bassa di quella odierna, anche per tener conto del possibile maggior costo del petrolio o del gas importato) per non incentivare l’uso dell’automobile, anche se la migliore disincentivazione sarà data da un deciso ampliamento e miglioramento dell’offerta dei servizi di trasporto pubblico. La tassazione sul consumo di benzina potrebbe all’inizio abbassarsi per poi alzarsi con l’incremento di alternative valide, come la diffusione di auto elettriche e soprattutto dei mezzi pubblici.
Quanto ai servizi offerti dallo Stato, mantenendo la gratuità per quelli necessari (come scuola e sanità), per altri eventualmente si potrebbero prevedere e modulare dei ticket, modificabili a seconda del mutare della congiuntura economica e della possibilità di offrirli in numero adeguato. Per quanto riguarda la sanità, si potrebbero eventualmente mettere dei ticket su alcuni farmaci o parafarmaci meno utili, per disincentivare l’eccessivo consumo e possibili sprechi.
Non è vero che un’elevata tassazione renda maggiormente sostenibile un’elevata spesa pubblica, se lo Stato è dotato di sovranità monetaria. La cosa essenziale è l’equilibrio delle partite correnti e il fatto di non tassare il lavoro e ciò che viene prodotto lo favorisce, in quanto rende più competitivi i beni, migliorandone la componente più importante, la bilancia commerciale. In questo modo potrebbe non essere più necessario alzare i tassi per attirare investimenti finanziari e indebitarsi con l’estero al fine di mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti.
Questo non significa non usare più la leva della svalutazione monetaria, perché ci saranno comunque nazioni i cui prodotti risulterebbero ancora troppo competitivi. 

Indirizzare il mercato

Innanzitutto sarebbe opportuno dettare regole precise in merito ai prodotti di cui autorizzare l’importazione, al fine di evitare quelli senza una certificazione verificabile di come, con cosa e da chi vengano prodotti. 
Tra il cedere ai voleri del mercato e il sopprimerlo, si possono trovare diversi modi per indirizzarlo. 
È molto meglio, per quanto possibile, usare strumenti incentivanti e disincentivanti, anziché porre divieti che non di rado possono essere aggirabili. La maggior parte degli incentivi economici devono essere strutturali e permanenti, non dati solo come stimolo temporaneo, cosa che oggi praticamente è impossibile, dovendo ogni anno cercare di reperire le risorse che sono sempre più scarse, spostandole da un capitolo di spesa all’altro, a causa dei perversi vincoli finanziari richiesti da Bruxelles ed essendoci sempre il rischio di ricevere sanzioni da parte della Corte di Giustizia, su ricorso della CE, per “aiuti di Stato” illegali o illegittimi. 

Per evitare che vengano consumate troppe risorse naturali, occorrerà indirizzare i consumi verso prodotti fatti con materie riciclabili. Ridurrei sensibilmente le tasse sui profitti delle aziende che utilizzano materie riciclate o che investono in ricerche atte a migliorare l’ambiente e a diminuire gli sprechi di materiale. Viceversa sui beni fatti con materie di cui vi è scarsità o difficoltà di approvvigionamento da attuarsi nel rispetto dell’ambiente si potrebbe mettere una tassa diversa dall’ Iva a scopo disincentivante, così come su quelli “usa e getta” che si possono sostituire con altri durevoli. Sarebbe importante far costar meno ciò che è utile e prodotto nel rispetto dell’ambiente e di chi vi lavora, mentre oggi il mercato, lasciato a se stesso, produce l’esatto contrario, con l’unico obiettivo di ridurre i costi a qualunque prezzo ambientale e sociale.
La tassazione potrebbe assumere essenzialmente la funzione di regolare l’economia, indirizzando il mercato, le aziende produttrici e i consumi dei cittadini verso comportamenti più corretti socialmente e dal punto di vista ambientale e della salute pubblica. Tuttavia in alcuni casi occorrerà anche proibire certe produzioni e alcune tipologie contrattuali e lavorative.
Così certi consumi o prodotti potrebbero essere tassati per disincentivarli, senza proibirli. Tra questi iI fumo, l’uso di imballaggi non strettamente necessari o non riciclabili, alcuni giochi con vincita (mentre i giochi d’azzardo più pericolosi andrebbero proibiti), ecc.Le attività da considerare nocive di per sé andrebbero bandite, come la fabbricazione di diverse tipologie di armi o le attività estrattive del carbone o quelle relative alla costruzione o al funzionamento dei cosiddetti “termovalorizzatori”, favorendo la riconversione delle aziende e la riqualificazione e/o il ricollocamento di chi vi lavora (del resto i termovalorizzatori e le attività minerarie già solo privati di incentivi probabilmente si fermerebbero). Industrie utili per evitare di dipendere da importazioni estere (come quelle che producono alluminio o le acciaierie), ancorché inquinanti, andrebbero indotte (con aiuti e/o penalizzazioni) a mettere in atto progetti finalizzati a ridurre significativamente il tasso d’inquinamento o in alcuni casi nazionalizzate.

Sarebbe buona norma applicare regole generali su quali categorie e in quali casi applicare le tasse, come sulle modalità e l’ammontare per evitare, per quanto possibile, decisioni discrezionali potenzialmente arbitrarie da parte di organismi burocratici deputati a rilasciare permessi ed autorizzazioni o ad applicare sanzioni.
Valuterei anche l’opportunità di non far pagare le tasse per ottenere servizi che la burocrazia dovrebbe garantire gratuitamente a tutti i cittadini e che oggi vengono continuamente aumentate solo per far cassa. Ugualmente le multe stradali, pur necessarie per contenere i comportamenti pericolosi penalizzandoli, non dovrebbero essere usate per le necessità finanziarie degli enti locali, come oggi avviene perché questi sono oberati dal “patto di stabilità”, ma dovrebbero essere calibrate e date solo in funzione della sicurezza stradale.
La prima casa non andrebbe mai tassata. 
Sul resto dipenderebbe, anziché dalla necessità di far cassa, da come si vuole orientare l’economia e il risparmio. Generalmente sarei più favorevole a tassare i redditi alti laddove si formano, invece del patrimonio. Quando si parla di tassare il patrimonio il più delle volte si considera solo quello immobiliare, ben visibile e non altri beni di lusso, in Italia o all’estero, più difficili da individuare. E magari si tassa anche chi ha contratto un mutuo che non riesce a pagare o chi ha ereditato una casa ma non ha un reddito alto. Mi sembra più logico semmai prevedere dalle tasse a fronte di un uso non socialmente utile del patrimonio immobiliare (per esempio su case sfitte, specie in città con emergenza abitativa), mentre la rendita andrebbe sommata agli altri redditi eventualmente percepiti, al fine di calcolare il superamento o meno della soglia esentasse. Escluderei perciò di prevedere l’opzione della cedolare secca. Tuttavia, pur prevedendo una certa libertà contrattuale, per favorire alcune tipologie, come quelle che prevedono un canone calmierato, si potrebbe applicare una tassa su altre, indipendentemente dall’eventuale raggiungimento della soglia di reddito imponibile. Gli affitti in nero andrebbero poi fortemente multati. Inoltre si potrebbe riproporre una tassa analoga alla vecchia Invim, un’imposta sul valore aggiunto al momento della vendita di un immobile, in analogia con il capital gain azionario (escludendo alcuni casi, come vendere la casa dove si abita per ricomprarne un’altra dove trasferirsi). Anche in questo caso quanto guadagnato andrebbe però cumulato con ogni altro reddito, al fine di calcolare se si superi la soglia esentasse e perciò si prospetti un eventuale imponibile.
Siccome credo che le tasse debbano servire principalmente a orientare i consumi e gli investimenti, eviterei di mettere tasse patrimoniali su case in località dove non c’è alta tensione abitativa, ma semmai uno spopolamento e su case affittate a canoni concordati, mentre si potrebbero tassare grandi proprietà immobiliari che hanno investito nel consumo di suolo (cosa che in seguito dovrà essere evitata tramite opportuni regolamenti e controlli degli stessi). Nel contempo detassarei anche tutti gli utili reinvestiti in ristrutturazioni necessarie ai fini della sicurezza e del risparmio energetico. 
Trovo utile la possibilità di portare in detrazione tutte le spese attuate in relazione a questi due obiettivi, per i cittadini che guadagnassero sopra l’ampia fascia esente dalle tasse, mentre non considero necessario, né forse opportuno poter detrarre e perciò incentivare ristrutturazioni di immobili specie se di interni che non siano necessari o l’acquisto di mobili nuovi. Si dice che avrebbero la funzione di sviluppare l’economia, ma è bene farlo cercando sempre di bilanciare il livello dei consumi con la quota complessiva di beni e servizi prodotti ed evitare di sprecare risorse naturali. A questo fine andrebbero incentivati prima di tutto la donazione e lo scambio di oggetti inutilizzati con eventuali riparazioni, i mercatini del riuso e poi il riciclo dei materiali di cui sono composti gli oggetti non riparabili o inutilizzabili.
Ovviamente non sono in grado di calcolare la portata e l’impatto economico dei provvedimenti indicati, anche perché credo che sia difficile azzardare valutazioni e previsioni, di fronte a tante e tali variabili ipotizzabili e perciò scelgo deliberatamente di non azzardare ipotesi numeriche, ma di provare a indicare percorsi e orientamenti, sulla base di considerazioni ragionate. Del resto, gli studi degli organismi internazionali preposti hanno regolarmente toppato clamorosamente nell’indicare numeri e percentuali! Eppure le loro ipotesi sono considerate scientifiche perché corredate di dati e previsioni (spesso inventati di sana pianta), anche se sono smentiti regolarmente dopo breve tempo, per poi essere sostituiti da altri e ricominciare all’infinito il giochetto.

Come finanziare la spesa pubblica

Si ritiene in genere che le tasse siano necessarie per 1) poter sostenere di emettere troppa spesa a deficit e 2) evitare che l’eccessiva moneta in circolo provochi l’inflazione.
Fa ancora fatica a diffondersi l’idea che si possano aumentare notevolmente le uscite dovute alla spesa non compensate da analoghe entrate, provenienti da tasse o da svendita di beni pubblici, con spesa definita “a deficit”. Purtroppo la parola deficit rende male l’idea, suggerendo qualcosa di negativo, di pericoloso, mentre dovrebbe essere considerata la normalità dell’emissione monetaria a debito. È opinione comune che occorra non “esagerare” nello spendere a deficit, dovendo garantire la “sostenibilità” del debito pubblico, che oltre a un certo limite, peraltro non definito in modo concorde, diventerebbe appunto “insostenibile”. Sembrerebbe un’enunciazione di buon senso, ma in realtà è fondata sul luogo comune (sbagliato) secondo cui sarebbe necessario ripagare presto o tardi quel debito. In realtà quando uno Stato è indebitato con i propri cittadini non ha nessuna necessità di tagliare la spesa, in quanto può sempre emettere nuovi titoli di debito. È paradossale che si demonizzi l’emissione “a debito”, quando questo significa proprio che lo Stato non emette indiscriminatamente, ma intercettando i risparmi dei propri cittadini al fine di dar loro un’opportunità di investirli in modo sicuro.
Per poter spendere a deficit nella misura che si ritiene più utile, lo Stato può scegliere di stampare direttamente la moneta o aumentare il cosiddetto debito pubblico. Questo significa che non esisterebbe alcun limite alla spesa pubblica a deficit, dal momento che tanto il debito pubblico quanto la monetizzazione sono sempre possibili? Da un punto di vista teorico può essere vero dire che uno Stato che dispone di una moneta propria e di una Banca Centrale non autonoma non può fallire, tuttavia potrebbe avere una moneta fortemente svalutata, con degli aspetti negativi che oltre un certo limite non sarebbero più compensati da quelli positivi. Inoltre, importando in maniera eccessiva rispetto a quanto viene esportato, potrebbe aver bisogno di prestiti in valuta estera per pagare parte dei prodotti importati. Il maggior rischio da evitare è proprio quello di indebitarsi innanzitutto con strutture finanziarie sovranazionali e in secondo luogo con prestiti diretti da parte di Stati esteri. Tuttavia non è affatto necessario diminuire la spesa pubblica in proporzione alla diminuzione delle entrate fiscali.
Dal punto di vista dell’equilibrio generale mi sembra più appropriato spostare il concetto di “sostenibilità” da una relazione di grandezze di ordine finanziario a una su scala ambientale. Purtroppo la sostenibilità in relazione alla disponibilità delle risorse presenti nei diversi habitat, onde evitare il loro depauperamento e inquinamento, non viene mai utilizzato come parametro.
Mentre da un punto di vista economico-finanziario credo che occorra spostare il concetto di “sostenibilità” dal “debito” (o dal deficit) a qualcosa di diverso. Infatti non è tanto l’ammontare del debito pubblico o del denaro creato attraverso monetizzazione che di per sé diventano insostenibili, ma la parte del debito (privato e pubblico) verso l’estero e il deficit delle partite correnti che consegue a uno squilibrio della bilancia commerciale, con importazioni superiori alle esportazioni. Che rapporto c’è tra aumento della spesa pubblica a deficit e gli squilibri sopraccitati? Si potrebbe pensare che maggiore è l’emissione di titoli di debito pubblico, in qualche modo aumenteranno anche quelli detenuti all’estero nella somma totale. Ma questo non è detto, anzi se lo Stato è dotato di sovranità monetaria è facile che, perfino senza dover porre dei vincoli all’acquisto dall’estero di titoli di Stato nazionali, questo non accada più o torni ad essere un fenomeno marginale, come un tempo. Questo sia per l’insicurezza circa il cambio valutario, che scoraggerebbe il loro acquisto da parte di investitori esteri, sia perché i tassi sarebbero determinati dalla Banca Centrale, che potrebbe riprendere la funzione che aveva prima del 1981 di compratrice di ultima istanza, impedendo speculazioni.
L’indebitamento privato sarebbe in gran parte evitabile dalla ripresa dell’economia reale e del risparmio, che limiterebbe fortemente la necessità di ricorrere a prestiti, a maggior ragione se esteri. L’obiettivo dell’equilibrio della bilancia commerciale e quindi delle partite correnti sarebbe garantito non più attraverso l’imposizione dell’austerità per reprimere la domanda interna, insieme alla ricerca della competitività con l’abbassamento dei salari per esportare di più, ma dalla maggior convenienza dei prodotti interni data dalla svalutazione del cambio, dall’abbattimento delle tasse e, se tutto ciò non dovesse bastare, da dazi o limitazioni all’importazione posti su alcuni prodotti. La spesa pubblica dovrebbe essere indirizzata a sostenere i settori dell’economia nazionale che ne avessero necessità e che fossero ritenuti più idonei al perseguimento degli obiettivi voluti, in relazione a un diverso modello di sviluppo, che tenga conto essenzialmente della “sostenibilità” sociale e ambientale, al posto di quella fittiziamente ricavata da bizzarre formule finanziarie pseudoscientifiche con percentuali inventate e indicatori controversi come il Prodotto interno lordo ed altro.
Tra l’emissione di Tds e la monetizzazione diretta in generale trovo preferibile che lo Stato continui ad emettere titoli di Stato (Tds, definiti titoli di debito pubblico), a condizione di stabilirne anticipatamente il tasso e che la Banca Centrale non sia più autonoma e quindi obbligata ad acquistare sul mercato primario quelli rimasti invenduti stampando denaro. Questi titoli preferibilmente dovrebbero essere indicizzati a varie scadenze invece che a tasso fisso. Il tasso da stabilire potrebbe essere variabile, ma di media appena superiore all’inflazione, al fine di preservare il valore dei risparmi e di indirizzare la liquidità verso questo genere d’investimento sicuro piuttosto che su altri. Con un’inflazione alta non sarebbe necessario che la superi, a differenza da una situazione come quella odierna, in cui non essendoci inflazione i Tds non solo non rendono niente, ma addirittura non convengono essendo gravati da tasse e costi dell’intermediazione bancaria. Occorre però non di meno considerare che in caso di eccessiva inflazione sarebbe ancor più importante drenare liquidità attraverso il risparmio e che tassi troppo negativi in relazione all’inflazione potrebbero costituire un disincentivo all’acquisto.

Non mi sembra valida l’obiezione per cui, se gli interessi dei Tds fossero premianti, non converrebbe più effettuare investimenti produttivi, proprio perché lo Stato potrebbe decidere di aumentare o diminuire il tasso dei Tds a seconda dell’opportunità di drenare risparmio alzandolo (senza esagerare) o di stimolare gli investimenti produttivi abbassandolo. Del resto, è la domanda di beni il maggior stimolo alla produzione. Se la domanda tira, chi avesse voglia e capacità di farlo preferirebbe investire nell’economia reale al posto di accontentarsi di un tasso di interesse basso. Chi invece non ha vocazioni imprenditoriali, o magari fa già un lavoro diverso che gli consente dei risparmi, non può essere obbligato a investire in una nuova attività, né indotto ad assumere rischi entrando nel mercato azionario o a spendere tutto in consumi, ma gli può essere prospettata l’opportunità di investire i propri risparmi senza rischi e senza alimentare pericolose bolle speculative (finanziarie o immobiliari).
Paradossalmente, se lo Stato emette direttamente moneta per la spesa a “deficit”, questa può non essere conteggiata nel debito mentre, quando rastrella il risparmio privato cui dà in cambio titoli di Stato, questi vengono a sommarsi agli altri nel conto del debito pubblico. Quindi più l’emissione monetaria non è diretta, ma coperta dal risparmio di privati cittadini o banche che acquistano obbligazioni emesse dallo Stato, più il debito pubblico viene considerato alto! Non credo si debba demonizzare l’emissione “a debito”, soprattutto se il debito resta interno alla nazione diventando il “credito” dei cittadini. Del resto l’insostenibilità del debito è un mito (o uno spauracchio) privo di fondamento. Il “debito” non ha mai necessità di essere restituito, perché nuovi titoli di Stato vengono a sostituire i precedenti quando scadono, con un naturale ricambio. Tuttavia è importante che la crescita del Pil, sostenuta dal maggior deficit, risulti superiore agli interessi. L’unico vero problema sarebbe dover accettare (ovvero subire) un prestito estero, magari da qualche istituzione finanziaria sovranazionale. Questo può avvenire quando non ci si riesce più a finanziare sul mercato (ma la sovranità monetaria e la Banca Centrale non più indipendente dovrebbero bastare a scongiurare questo rischio) oppure quando l’equilibrio dei conti con l’estero è eccessivamente compromesso (e questo va evitato con politiche economiche adeguate).
In ogni caso mi sembra più utile togliere liquidità, nella misura in cui dovesse servire, canalizzando il risparmio verso i Tds che non con un drenaggio forzato attraverso la tassazione. Bagnai, in uno dei suoi ultimi post, ha scritto che sarebbe necessario spendere a deficit privilegiando la monetizzazione diretta all’aumento del debito pubblico (con l’emissione di titoli di Stato). Allo stesso tempo non parla della necessità di una drastica riduzione dell’imposizione fiscale, soprattutto eliminando le tasse più atte a produrre inflazione e articolando diversamente le rimanenti. Anche assumendo che sia sempre possibile per lo Stato spendere a deficit, non capisco perché l’emissione di Tds dovrebbe preoccupare più di una monetizzazione diretta, se non per il fatto che questi titoli d’investimento vengono nominati debito pubblico (che, si sa, è considerato brutto). In uno Stato con sovranità monetaria, non si potrebbe chiamarlo in altro modo? In ogni caso conoscere quanti Tds vengono collocati a un tasso prestabilito può indicare quando potrebbe essere conveniente cambiare il tasso offerto o passare a una monetizzazione diretta (che può anche semplicemente significare l’acquisto dei titoli invenduti da parte della Banca Centrale).
Se si può rastrellare il risparmio al fine di drenare liquidità incanalandola senza penalizzare l’economia e raccogliendo altresì consenso, che bisogno c’è di drenare ulteriore liquidità attraverso tasse generalizzate? 
Spesso si demonizza chi investe in titoli, dicendo che il denaro così viene immobilizzato e non giova all’economia. Ma le tasse non sono denaro sottratto all’economia, oltre a provocare tutta una serie di danni di cui si è detto sopra? Senza contare che lo Stato può contribuire direttamente allo sviluppo economico e dell’occupazione anche attraverso la spesa e gli investimenti pubblici o perfino acquisendo attività private (oltre a ricomprarsi quelle che era stato costretto a svendere a un prezzo analogo o minore).
Penso che, mentre il risparmio delle risorse pubbliche costituisca un non senso e abbia una valenza negativa (il che ovviamente non significa che non si debba cercare di allocarle nel modo migliore), quello privato possa avere a volte una funzione utile potendo servire anche ad evitare un futuro indebitamento in caso di spese più o meno impreviste. Non sono d’accordo nello spingere i privati a un consumismo sfrenato, a detrimento delle risorse e spesso anche dell’ambiente, non ritengo quindi che sarebbe opportuno incentivare a tutti i costi il consumo nell’ansia di sviluppare sempre più l’economia intesa come sempre maggior produzione di beni (tra questi in ogni caso preferirei sostenere i “consumi” a vario titolo culturali e ricreativi, ovvero la produzione di servizi più che di beni materiali). Sono state formulate alcune proposte nel senso anzidetto, come quella di detassare tutto il reddito che sarebbe speso in consumi e servizi di ogni genere, di cui si dovrebbe fornire puntualmente dimostrazione attraverso una marea di scontrini o di tutte le operazioni fatte con qualche carta di credito, limitandosi a tassare quello accumulato in risparmi giudicati improduttivi e quindi da penalizzare. Oppure quella della moneta data a tassi negativi, vale a dire che se non viene spesa subito di anno in anno subisce una svalutazione, non a causa dell’inflazione ma in modalità programmate fissate per legge. Mi sembrano ipotesi, prima ancora che complicate da attuare, inopportune.
Molti di coloro che perorano politiche economiche di segno keynesiano sono dell’idea che risparmiando i cittadini attuino un comportamento dannoso per lo sviluppo economico. 
Credo invece che, mentre il debito pubblico può e deve espandersi, sia un bene cercare di far diminuire per quanto possibile il debito privato, innanzitutto quello a carico di singoli e famiglie, mentre quello delle imprese deve essere sempre reso sostenibile. Nel contempo penso che il risparmio privato, seppure non vada incentivato, non debba neanche essere penalizzato, quando è una scelta e non imposto, come oggi, dalla paura di quali potrebbero essere le condizioni future. Risparmiare oggi può servire a non indebitarsi domani (o a indebitarsi meno), in occasione dell’acquisto di una casa o dell’attuazione di un progetto.
D’altro canto è buffo se non paradossale che oggi gli stessi i quali, volendo mantenere questo stato di cose, dicono che avremmo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ci spingano a indebitarci in ogni modo, dicendo che è necessario spendere di più in consumi per rimettere in moto l’economia. Fattivamente solo la spesa pubblica, non sottoposta ad assurdi vincoli, può farlo evitando o limitando i danni provocati tanto dall’indebitamento dei privati quanto dalla loro rinuncia forzata a spendere. In realtà quello che sembra paradossale da un punto di vista logico non è un errore, ma risponde al perseguimento di un lucido progetto volto a diminuire il peso dello Stato e delle scelte politiche attuate in funzione dell’interesse pubblico. Lo scopo reale non dichiarato è quello di impoverire la popolazione e le attività produttive, spingendo le une e le altre ad indebitarsi e perciò realmente a “vivere al di sopra dei propri mezzi”, ingrassando il settore finanziario, con il rischio di non riuscire più a ripagare i propri debiti e di vedersi sottratti beni e attività.
Per quanto riguarda le banche, non trovo sufficiente una separazione tra banche commerciali e d’investimento. Posto che oggi le banche spesso sono accusate anche di colpe che non hanno, in quanto gran parte delle loro “sofferenze” è causata dalla crisi economica, una volta ripresa la sovranità monetaria e ricostruito il pieno controllo dello Stato sulla Banca d’Italia e di questa sulle banche, di cui almeno le più grandi, cioè quelle da definire di interesse nazionale andrebbero rese pubbliche, si potrebbero incentivare certe attività e disincentivare, limitare o proibirne altre. A tutte le banche si potrebbero per esempio imporre regole per ridurre la leva finanziaria, stabilendo l’obbligo di detenere una quota di riserva obbligatoria superiore, com’era in passato. Delimitare nettamente il credito al consumo. Proibire le operazioni di cartolarizzazione, insieme alla maggior parte delle operazioni dette di “finanza creativa” (come i futures, le vendite allo scoperto dei titoli e altri generi di scommesse speculative). Sull’abolizione dei derivati la discussione è aperta, ma anche nell’eventualità che si optasse per non abolirli del tutto, dovrebbero essere rigidamente limitati ad alcune forme di copertura dai rischi e non riproposti indiscriminatamente, come avviene oggi, oltre tutto presentandoli con clausole indecifrabili. Le attività delle banche che rimanessero private andrebbero controllate, ma lo Stato dovrà garantire il loro salvataggio preferibilmente acquisendone quote con capitali pubblici, qualora si rendesse necessario a seguito di una loro crisi, salvo rivalersi su eventuali responsabili se colpevoli di dolo.
Il risparmio non speculativo deve essere totalmente garantito e incentivato. Tassare i Tds, dopo aver stabilito un dato tasso d’interesse o analogamente le obbligazioni bancarie non ha alcun senso, se non quello di dover aumentare per converso i tassi d’interesse, se si vuole trovare chi li compra. Per inciso non trovo giusto considerare “speculatori” tout court o spregiativamente rentiers anche quelli che cercano solo un rendimento moderatamente positivo dei propri risparmi.
L’acquisto di azioni potrebbe essere sottoposto a precise regole. Per esempio, dopo aver proibito le vendite allo scoperto, si potrebbe stabilire progressivamente un tempo minimo obbligatorio di mantenimento delle azioni nel portafoglio (per evitare devastanti mordi e fuggi) e poi tassare le transazioni finanziarie diversamente (più sono numerose e frequenti nel tempo, maggiore è la tassa da applicare, mentre oggi le banche al contrario tendono a concedere sconti e agevolazioni ai loro “migliori” clienti, considerando tali quelli che effettuano più operazioni). Inoltre tutti i redditi da capitale (quelli acquisiti a fronte di un capital gain), così come quelli dovuti a dividendi azionari o agli interessi su obbligazioni e titoli di Stato dovrebbero cumularsi nel reddito generale, contribuendo a determinare l’eventuale quota imponibile, al di sopra della quota esente, come i redditi da ogni altra fonte. È chiaro che non sarà facile imporre regole e limitazioni a fronte della facilità di effettuare transazioni internazionali, per cui occorrerà pensare a strumenti adeguati e si dovrà agire con cautela e progressività.

La paura della troppa inflazione (o della mancata inflazione)

Abolire la zavorra rappresentata dalle tasse sui consumi di beni e servizi e sul lavoro che serve a produrli, è utile dunque ad abbattere i costi, per evitare che sia necessaria un’eccessiva svalutazione e al fine di salvaguardare condizioni di lavoro e potere d’acquisto. La cosa in qualche modo paradossale è che oggi da un lato si teme che l’uscita dall’euro provochi inflazione e dall’altro si invoca l’inflazione restando nell’euro. Penso che, mentre uscendo dall’euro potremmo (al netto di una volontà politica contraria) avere in mano degli strumenti per governare il fenomeno, ora non possiamo che subire sia la mancanza d’inflazione, sia una sua ipotetica ripresa. Questa, se anche le manovre della BCE riuscissero attraverso un miracolo a provocarla o piuttosto avvenisse per un aumento dei costi delle materie prime, non sarebbe affatto benefica in mancanza di maggior occupazione e di salari decrescenti, perché aumenterebbe il costo della vita, facendo diminuire il valore dei salari reali e perciò il potere d’acquisto e la domanda. 
Per quanto riguarda il “dopo euro”, ritengo che sarebbe sbagliato passare da una demonizzazione dell’inflazione all’eccesso contrario di esaltarla come positiva. Alcuni sovranisti sembrano ritenere l’inflazione di per sé un toccasana in quanto farebbe diminuire il peso del debito. Questo può essere vero solo in parte, per i debiti che non sono indicizzati né godono di un’assicurazione fornita da strumenti derivati, senza contare che molte aziende sono in credito attualmente verso lo Stato.
Dando per scontato che la lira si verrà a svalutare nei confronti delle monete di alcuni Stati con cui siamo in rapporti commerciali e/o con cui abbiamo abbiamo partite finanziarie aperte, è da considerare che per i privati in debito verso l’estero diventerà più oneroso rispettare il debito, per cui sarebbe opportuno che lo Stato intervenisse ad aiutarli con misure volte a compensare il maggior onere. Al contrario, le aziende in credito verso l’estero, avrebbero dei vantaggi.
Quanto al debito pubblico, quello italiano è attualmente denominato in euro e seguirà la lex monetae, cioè verrà automaticamente ridenominato in lire, ridiventando meno oneroso in base alla svalutazione conseguente. Se passerà ancora del tempo prima di riuscire ad attuare l’uscita dall’euro, potrebbero essere messi in atto progetti per ridenominarlo in valuta estera e/o metterlo sotto giurisdizione straniera (come è stato già fatto in Grecia). Occorrerà perciò vigilare e denunciare qualunque tentativo di far passare un provvedimento del genere. Se malauguratamente dovesse avvenire, questo potrebbe portare a qualche difficoltà in più, ma non pregiudicherebbe i vantaggi, anzi la necessità di (ri)conquistare l’indipendenza dall’UE e abbandonare l’euro.
Di fatto oggi assistiamo a un intensificarsi della deflazione nell’economia reale insieme a un’inflazione, definita meglio bolla, di alcuni prodotti finanziari (come il valore delle azioni, al di là di ogni riferimento ai valori reali degli asset), o dei beni rifugio (l’oro più delle case che risentono dell’aumento della tassazione), dal momento che le politiche imposte dall’UE, oltre a impoverire la stragrande maggioranza della popolazione, non fanno che aumentare le diseguaglianze sociali. Eppure i prezzi non scendono ancora quanto i salari e gli stipendi: infatti, tenendo conto dell’abbassamento di questi e dell’aumento del numero dei disoccupati o sottoccupati, il potere d’acquisto è sceso molto di più. I prezzi sono scesi di meno perché devono tener conto di una serie di costi abbastanza rigidi o addirittura lievitati (come la tassazione) e in alcuni settori di una distribuzione gonfiata dai costi di numerosi intermediari.
Un certo grado d’inflazione sui beni di consumo potrebbe essere utile se fosse conseguenza e sintomo di un aumento della domanda aggregata a seguito di una ripresa economica, mentre avvenendo per il trasferimento di un aumento dei costi (magari per l’aumento dell’Iva o delle accise sulla benzina o del prezzo del greggio) in presenza di un’economia stagnante, non avrebbe alcun connotato positivo, ma al contrario aggraverebbe la situazione, in quanto diminuirebbe il potere d’acquisto (anche se ci sarebbe un leggero alleggerimento del peso dei debiti non indicizzati). Del resto, finché restiamo nell’eurozona, questo è l’unico genere di inflazione che ci può toccare. Si dice che oggi si è portati a non effettuare acquisti per l’aspettativa di un ulteriore ribasso dei prezzi, ma non si considera che la causa prima dei mancati acquisti e dell’abbassamento dei prezzi è innanzitutto la marcata diminuzione del potere d’acquisto della popolazione (causa abbassamento di salari e redditi e aumento della disoccupazione) e l’incertezza nel futuro (che suggerisce prudenza nelle spese). Questi fattori permarrebbero o addirittura rischierebbero di aggravarsi se l’inflazione fosse tenuta artificiosamente più alta (facendoci tra l’altro perdere ancor più competitività sul piano internazionale).
L’inflazione perciò non può essere un obiettivo da perseguire di per sé, stabilendo un tasso preordinato cui attenersi come oggi vorrebbe, almeno a parole, la BCE di Draghi. 
D’altronde neanche deve essere considerata il pericolo principale da evitare a tutti i costi, in particolare dopo la fuoruscita dall’euro. 
Mentre ora si dice che rilanciarla –sia pure moderatamente– potrebbe essere utile per uscire dalla recessione, allo stesso tempo si agita lo spauracchio di un’inflazione senza controllo che potrebbe verificarsi –dicono– concedendo troppa flessibilità di spesa agli Stati o, ancor peggio, nel caso di ripristino della sovranità monetaria. 
Quanto al pericolo che potrebbe rappresentare in una situazione post-euro, cerchiamo di ipotizzare come eventualmente fronteggiarla. Dopo aver agito sui costi attraverso l’abbattimento delle tasse, resterebbe l’eventualità di un’inflazione causata da una maggior domanda, favorita dall’aumento dei salari reali e dell’occupazione, spinta dal forte incremento della spesa a deficit e dal ripristino del welfare che libererebbe risorse. Eventualmente, tolti i servizi essenziali che devono essere forniti gratuitamente (come scuola e sanità), per gli altri (come trasporti, attività ricreative, sportive e culturali) le tariffe e i ticket, che comunque andrebbero ridotti, potrebbero sempre essere rimodulati a seconda della congiuntura economica ed in base a valutazioni di opportunità sociale. In generale, a meno di un boicottaggio internazionale (cosa poco probabile dal momento che il sistema dell’eurozona molto probabilmente finirà per tutti e comunque ci sono molti altri Paesi pronti e ben disposti a continuare ad esportare), se non addirittura di un embargo (cosa ancor meno probabile), il commercio internazionale potrebbe garantire un’offerta adeguata a eventuali aumenti di domanda in quasi tutti i settori.
Resterebbero tuttavia due problemi: la finitezza di alcune risorse (ma non dovrebbe essere difficile riuscire a sostituirle) e lo squilibrio delle partite correnti e soprattutto della bilancia commerciale.
Motivi per cui sarebbe opportuno non spingere a un consumismo eccessivo, magari indotto dalla paura che i prezzi continuino ad aumentare, proprio come oggi in modo simmetrico la deflazione, producendo un’aspettativa di prezzi ancor più bassi, combinata con la mancanza di denaro a disposizione, porta a spendere sempre meno.
In entrambe i casi i fenomeni (deflazione e inflazione) finiscono per alimentarsi da sé, determinando pericolosi auto-avvitamenti. 
C’è chi pensa che in conseguenza di questo squilibrio la moneta si svaluterebbe di quel tanto che basterebbe a ristabilire l’equilibrio import-export e quindi anche una leggera inflazione causata dall’aumento delle materie prime potrebbe servire allo scopo. Questo può essere vero solo in parte, credo non sia sufficiente fare affidamento unicamente su un possibile riequilibrio dato dalle spinte naturali del mercato, senza intervenire a promuovere politiche atte ad accrescere le produzioni di beni e servizi all’interno della nazione, tanto più oggi che una parte non indifferente del sistema produttivo di cui disponevamo è stato smantellato (per chiusura o delocalizzazione) o (s)venduto a compratori esteri e quindi dovrà essere ricostruito.
Occorre tener presente che, se si incentiva l’acquisto di sempre nuovi e maggiori beni di consumo, per evitare l’inflazione e/o di dover importare eccessivamente occorre produrne altrettanti e quindi sfruttare di più il lavoro umano e le risorse che l’ambiente ci mette a disposizione. Perciò, mentre vedrei più utile favorire l’acquisto di beni duraturi e riciclabili (da incentivare nel caso che il mercato di per sé dovesse ritenere antieconomiche le attività di riciclo), potrebbe anche rivelarsi opportuno incoraggiare e indirizzare opportunamente il risparmio, indicizzando i titoli pubblici emessi e garantendo interessi atti a compensare il fenomeno inflattivo.
Per fare tutto questo, occorre un governo consapevolmente determinato e pienamente responsabile. sostenuto dal consenso della maggioranza del popolo, che ci liberi dalla sottomissione nei confronti dell’UE e della moneta unica.

* Fonte: Rivista Indipendenza n.41




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4 pensieri su “PER UNA DIVERSA POLITICA FISCALE, DOPO L’USCITA DALLA UE E DALL’EURO di Lidia Riboli”

  1. pigreco san dice:

    bla bla bla ma come si fa a dare in mano ancora la sovranità nazionale ad un italiota. i risultati si son visti. meglio la BCE. l euro elimina l inflazione la peggior tassa delle classi più povere ed elimina i nazionalismi, già per me questo è un guadagno sufficiente e l economia ripartirà. se qualche fabbrica non si adegua e non sa stare al passo pazienza che chiuda, ma mille volte meglio così.

  2. Ippolito Grimaldi dice:

    Complimenti Lidia una riforma organica molto ben dettagliata, una sola domanda: ritieni che sia possibile applicarla anche in presenza dell' euro e se ritieni che non sia possibile puoi dire il perché?

  3. Lidia dice:

    Assolutamente impossibile dentro l'euro e l'UE. Non abbiamo alcuno spazio di movimento né finanziario, né legislativo. Occorre smontare tutta la costruzione europea, fin quella del mercato unico e del Trattato di Roma che ci sottoponeva ai vincoli giuridici comunitari e al giudizio della Corte Europea di Lussemburgo.

  4. Luca Massimo Climati dice:

    omplimenti "pigreco": esponi con chiarezza, da probabile "sinistrato", sorosiano inconsapevole, presupponendo una sua buona fede nelle sue catastrofiche tesi ,l'esatto contrario che dobbiamo fare, soprattutto per difendere la classe degli "sfruttati", la prima a soffrire le conseguenze della dittatura UE e del capitale trans-nazionale, che qualcuno rappresenta solo virtualmente ed in modo assolutamente velleitario. I nemici a noi più fieri sono coloro che emanano ,affamando il Popolo e distruggendo l'economia reale autoctona,la domanda interna ,radici e basi per il futuro.Ultima chicca: l'autorazzismoNon si può più sentire e se sommassimo l'esercito degli pseudo radical chic e intellettuali fancazzisti ,analfabeti di ritorno, parassiti cognitivi, ma anche commentatori coatti da bar, pronti a vomitare contro l'Italia ed il suo Popolo, ne verrebbe fuori un intero esercito di liberazione, di almeno quattro milioni di persone : solo che nessuno "fa un cazzo" per cambiare le cose.L'articolo della compagna Lidia Riboli è lodevole e mi fregio di averlo personalmente segnalato , essendo stato pubblicato sul numero 41 ultimo della rivista "Indipendenza" . Averne di veri intellettuali come Lidia !

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