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LA RUSSIA E IL MEDIO ORIENTE di Giuseppe Angiuli*

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La storica visita del re dell’Arabia Saudita a Mosca, 5/10/2017
[ 17 ottobre 2017 ]

Il Medio Oriente non è solo un gorgo che sembra inghiottire stati regionali e relative ambizioni egemoniche, nazionalità, culture, sette religiose islamiche. E’ il terreno ove le grandi potenze globali si sfidano per esercitare la loro supremazia. Un luogo ad alta complessità geopolitica che non si presta a semplificazioni manichee.

Volentieri pubblichiamo il punto di vista di Giuseppe Angiuli.

* Giuseppe Angiuli fa parte del Coordinamento nazionale della C.L.N.


«Grandi sconvolgimenti in atto in medio oriente. La Russia baricentro dei nuovi equilibri nella regione 

L’intera regione medio orientale è stata interessata, in questi ultimi tempi, da un generale riassestamento degli equilibri geopolitici il cui risultato appare ogni giorno di più coincidere con un’ascesa irreversibile del ruolo della Russia di Putin, ormai protagonista assoluta nella definizione di tutti i più importanti dossier in agenda. 

A tutto ciò sta facendo da contraltare una tendenziale ritirata strategica degli USA dalla regione: a partire dall’avvento dell’Amministrazione Trump, a Washington ha iniziato a delinearsi una nuova strategia che vedrebbe i nordamericani decisamente più interessati alle sorti del far east (estremo oriente) dove essi hanno necessità di lanciare un’offensiva politico-economica alla Cina e per adesso hanno iniziato a colpirla trasversalmente minacciando alcuni regimi politicamente ad essa assai contigui, come la Corea del Nord di Kim Il-sung e il Myanmar (ex Birmania). 

In medio oriente, il protagonismo della Russia ha iniziato a manifestare il suo carattere decisivo a partire da settembre 2015, quando su richiesta del Presidente siriano Bashar al-Assad (incapace di fronteggiare da solo le forze dello Stato islamico), Mosca ha deciso di scendere direttamente in campo nel conflitto siriano. 

L’inedito dispiegamento militare dei russi, unito all’abile tessitura politico-diplomatica architettata dal Ministro degli Esteri del Cremlino Sergej Lavrov, ha reso possibile in breve tempo la nascita di un solido fronte internazionale di forze compattamente ostili allo Stato islamico ed alle altre formazioni di miliziani di ispirazione jihadista. 
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Ne è venuto fuori un comando integrato – dominato dalla componente sciita – che ha visto la partecipazione congiunta dei governi dell’Iraq, dell’Iran e della stessa Siria, oltre al movimento politico-militare libanese Hezbollah, il cui apporto è risultato molto significativo sul terreno dello scontro militare all’interno dei confini siriani. 

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Dopo la ritirata dei miliziani jihadisti dalla città di Aleppo nel dicembre 2016 e con la più recente conquista della città di Deir Ezzor da parte dell’esercito regolare di Damasco, le sorti del conflitto siriano appaiono ormai definitivamente segnate con la quasi certa sopravvivenza al potere di Bashar al-Assad. 

La svolta sul terreno militare nel conflitto siriano si è accompagnata in questi ultimi tempi ad una lunga serie di clamorose novità e cambi di campo in tutto il medio oriente. 

Alternando il bastone e la carota, Vladimir Putin è riuscito nell’impresa titanica di costringere i più diversi attori del quadrante medio orientale a mutare la loro strategia di 180 gradi, ribaltando antichi equilibri consolidatissimi e, in alcuni casi, contribuendo a rompere i loro pregiudizi e la loro reciproca incomunicabilità. 
Il turco Erdogan con l’iraniano Ali Khamenei

Nell’azione di persuasione su ciascuno di questi attori è risultato decisivo, da parte russa, il fare leva su quanto sta a loro rispettivamente più a cuore e su cosa possa unire ciascuno di essi ad un altro partner della regione. 

Il neo-sultano turco Recep Tayyip Erdoğan, già sponsor di primo piano dell’ISIS, è stato convinto da Mosca ad abbandonare il progetto di destabilizzazione della Siria e a concentrarsi maggiormente sulla sua stessa sopravvivenza politica. 

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Erdoğan si è trovato gioco forza costretto a prendere atto con l’incedere degli eventi che i suggerimenti di Putin andavano effettivamente incontro ai suoi interessi: dopo avere sventato (con il decisivo intervento di forze speciali russe) il tentativo di colpo di Stato atlantista che lo ha visto vittima nel luglio del 2016, egli ha progressivamente abbandonato l’obiettivo di eliminare dalla scena il siriano Assad, iniziando a preoccuparsi unicamente di scongiurare ad ogni costo la nascita di uno Stato curdo nei pressi dei suoi confini (come prefigurato da USA e Israele). 

Da ultimo, sempre con l’avallo decisivo di Mosca, lo stesso Erdogan ha avviato un patto di stretta cooperazione col regime degli ayatollah iraniani, anch’essi fortemente contrari alla nascita di un nuovo Stato curdo. 
Dunque, Turchia e Iran seduti ad uno stesso tavolo: uno scenario semplicemente impensabile soltanto fino a pochi mesi fa e reso possibile unicamente dai buoni uffici del Cremlino. 

Anche la monarchia del piccolo ma influente Stato del Qatar negli ultimi tempi ha cessato il suo sostegno alle milizie della galassia islamista già attive in Siria ed ha iniziato a trovare delle inedite convergenze strategiche con l’Iran: in ballo c’è la cogestione del più grande giacimento offshore di gas naturale liquido del pianeta, collocato a cavallo delle acque territoriali tra i due Stati dirimpettai nel Golfo Persico. 
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A nulla sono valse le minacce di invasione da parte della monarchia saudita e la chiamata alle armi dell’Amministrazione Trump, entrambe furiose con Doha per la sua apertura a Teheran: in difesa dell’intangibilità del ricchissimo Qatar e della sua emittente pan-araba Al Jazeera sono immediatamente scesi in campo il Kuwait, l’Oman e la stessa Turchia di Erdogan, che si è detta disposta perfino a dislocare delle truppe di terra a protezione della monarchia degli al-Thani. 
L’immenso giacimento di gas naturale South Pars 
nel Golfo Persico sarà cogestito tra Qatar e Iran

Il governo di Mosca, al fine di chiudere il cerchio protettivo attorno al Qatar e anche per premiare gli al-Thani per la loro cessazione nell’appoggio ai miliziani islamisti attivi in Siria, ha recentemente cooptato la famiglia reale del piccolo staterello del Golfo Persico all’interno del gigante energetico russo Rosneft, facendole acquisire un quinto della proprietà azionaria. 
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Su un altro versante, Putin è apparentemente riuscito a convincere anche il falco israeliano Benjamin Netanyahu a dovere accettare suo malgrado l’inedito scenario appena delineatosi nella regione, a cominciare dalla integrità dei confini della Siria laica e baathista di Assad e dall’uscita dell’Iran (primo nemico in assoluto per Israele) dall’isolamento internazionale. 

In cambio, il Presidente israeliano ha preteso la garanzia che qualsiasi futuro tentativo dello stesso Iran o degli Hezbollah libanesi di insidiare lo Stato sionista incontrerebbe la ferma contrarietà di Mosca. 

Ma il protagonismo russo è vicino ad esplicare i suoi effetti anche all’interno del malconcio campo palestinese, tra le cui fila parrebbe che Mosca si stia adoperando negli ultimi tempi per favorire una inedita riappacificazione tra la fazione islamista di Hamas (dominante a Gaza) e quella laica di Al Fatah (al potere nei territori della Cisgiordania), con la prospettiva di dare vita ad un inedito governo di unità nazionale palestinese. 
Anche l’Egitto, ossia il Paese arabo di gran lunga più popoloso, da quando è retto dal regime militare guidato dal maresciallo al-Sisi, ha iniziato a sperimentare delle inedite forme di cooperazione militare con Mosca del tutto impensabili solo fino a pochi anni fa, tenendo conto che l’Egitto è dipeso per 40 anni dalle forniture statunitensi sia in campo economico che militare. 
Per chiudere il cerchio di questo epocale mutamento di assetti nella regione ed a suggello dei suoi recenti successi militari, economici e diplomatici, il 5 ottobre scorso Putin ha ricevuto in pompa magna a Mosca, per la prima volta in assoluto nella storia dei due Paesi, il capo della famiglia reale saudita, l’ottantunenne Salman bin Abdulaziz Al Saud, che ha raggiunto la capitale russa in compagnia di un codazzo di ben 1.500 dignitari e cortigiani. 
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La monarchia di Riyad negli ultimi tempi ha il fiato corto: per colpa del ribasso record del prezzo del petrolio, le entrate statali sono arrivate a toccare i minimi storici, minacciando la stessa sopravvivenza dei Saud. 
L’indipendentismo curdo è fortemente sostenuto da Israele 


Ecco che dunque anche per l’Arabia Saudita si è reso di importanza decisiva sperimentare una inedita intesa commerciale con il governo di Mosca, al fine di stabilizzare il prezzo del greggio. 
Comunque la si pensi sul nuovo protagonismo geopolitico russo e sui riflessi che esso produrrà negli equilibri globali, è indubbio che da quando Putin ha assunto le redini in mano nella regione medio orientale, si è determinato un nuovo assetto contraddistinto dalla stabilizzazione dei conflitti e dall’appianarsi di antiche e ataviche incomprensioni. 

Il vecchio disegno degli israeliani e dei neocons americani di ridisegnare il “grande medio oriente” a loro piacimento, con la distruzione dei vecchi Stati nazionali e con la loro suddivisione lungo linee di faglia etnico-religiose (sciiti/sunniti, arabi/curdi, ecc.) in questi ultimi tempi sembra avere subito un significativo arretramento: nonostante ciò, è verosimile che tanto a Washington quanto a Tel Aviv si seguiterà ancora a lungo a sostenere strumentalmente l’indipendentismo curdo quale principale fattore di destabilizzazione nella regione.
Sotto quest’ultimo punto di vista, palese e scoperto è stato il sostegno fornito da Israele al recente referendum secessionistico promosso dal governo regionale del nord dell’Iraq, controllato dal clan curdo dei Barzani. 
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Per intanto, tutte le strade del medio oriente sembrano portare a Mosca». 

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