14 visite totali, 1 visite odierne

Browse By

DELLA RICCHEZZA E DEI RICCHI di Giorgio Rosati

14 visite totali, 1 visite odierne

[ 19 novembre 2017 ]

Riceviamo da un lettore e volentieri pubblichiamo


Benché sommessamente, però ci tengo a sostenere che c’è solo un modo di combattere la povertà dei poveri, ed è quello di combattere la ricchezza dei ricchi. 

Poiché quest’ultima non può essere la cura, essendo la causa della prima. Il quale concetto, siccome a tutta prima può suonare banale, vorrei qui assicurare che non lo è. Intanto faccio notare che la povertà esiste sì separata, ma altresì inseparabile dalla ricchezza. Tant’è vero che i poveri esistono anche nei Paesi ricchi, e viceversa i ricchi si trovano anche nei Paesi poveri. Perciò nemmeno ha senso pensare che si possa diventare tutti ricchi, o tutti poveri, appunto perché vien da sé che l’una condizione può darsi, o togliersi, solo col dare o togliere l’altra. Per concepire questo nel giusto verso, però, occorre riuscire a distinguere tra la ricchezza e i ricchi. Perché la prima è di per sé qualcosa di buono e giusto, mentre dei secondi si può ben dire diversamente.

Per cominciare occorre chiarire che la ricchezza non è ciò che di solito si crede. Perché anzitutto non sono i soldi. Figuriamoci, di per sé l’Euro, o il Dollaro, e comunque tutto ciò che circola attualmente, non vale il becco di un quattrino. E ai tempi della Lira il denaro valeva se possibile ancora meno. D’altra parte, il lusso di Templi e Palazzi esisteva già ben prima che fosse inventata la moneta, per cui la ricchezza nell’Antichità doveva per forza essere qualcos’altro. Paradossalmente però, nemmeno l’oro in se stesso può dirsi propriamente tale, perché anche il metallo prezioso, come la carta straccia, serve solo a comprare qualcosa, o qualcuno. Per cui questi sono casomai mezzi di scambio, strumenti di potere d’acquisto della ricchezza, ma non la ricchezza stessa.

Invece, e a dire il vero, essa è piuttosto

IL FRUTTO SOVRABBONDANTE CHE MATURA DAL LAVORO UMANO.

Ecco allora verso dove prestare attenzione, per capire questa cosa, — al lavoro appunto. E però non inteso alla superficie per com’è, bensì nel senso profondo di che cos’è. Proprio perché il come e il cosa, cioè il dato di fatto e la questione di principio di quest’atto, invece di combaciare come dovrebbero, sono tra loro contraddittori. Il che non succede oggi, ma da sempre, purtroppo per chi lavora. Prima di questo però, cioè più in generale ancora, guardando in quella direzione scorgiamo nientemeno che la chiave di volta del nostro mondo. Poiché si scopre che è proprio quello, il lavoro, l’autentico fondamento su cui posa e si erige il nostro intero sistema di vita. Non certo appunto i soldi, ma tantomeno gli Stati. Questo fecondo punto di vista, infatti, fa vedere non solo l’origine della ricchezza, ma anche della stessa civiltà, nonché il fatto che le due cose siano andate di pari passo. Così è già possibile stabilire un punto fermo di partenza. O sia che, siccome l’uomo non ha sempre lavorato, allora nemmeno la ricchezza è sempre esistita, e quindi neanche la differenza tra ricchi e poveri.

Premessa la definizione, passo al più breve resoconto possibile di quando, dove, come e perché sono cominciate le cose di cui parlo. Per cui descriverò le origini del lavoro, fino alla comparsa della ricchezza, e quasi a ruota della civiltà. Ebbene tutto inizia circa diecimila anni fa, con la RIVOLUZIONE AGRICOLA. Quando, nella regione compresa tra i fiumi d’Egitto e Mesopotamia, l’uomo diventò per la prima volta contadino, cioè appunto lavoratore della terra. Tanto tempo fa dunque, eppure anche assai poco, se solo si considera che già allora il genere umano esisteva ormai da ben due, tre milioni di anni. E che in quello sterminato frattempo i nostri antenati sono vissuti ed evoluti appunto senza lavorare. Cioè esattamente come gli altri animali selvaggi, vagabondi alla ricerca di cibo, dalla raccolta di vegetali spontanei alla caccia di prede carnali. In ogni caso, a parte i dettagli sul prima, fu proprio da quel momento, con la scoperta della coltivazione, peraltro fatta tutta al femminile, che i nostri avi presero a produrre direttamente, essi stessi da se stessi, quanto serviva alla loro vita. Ciò che appunto costituisce l’essenza del lavoro, autentica specialità della nostra specie rispetto agli altri viventi. I quali ultimi si sostentano appunto esclusivamente di ciò che fornisce loro direttamente la Natura. Certo è che da allora, da quando abbiamo cominciato a lavorare, non abbiamo più smesso, né possiamo più smettere di farlo. Almeno se vogliamo continuare nel nostro distintivo modo di vivere. Altrimenti, se il lavoro si fermasse, torneremmo presto a uno stile di vita selvatico. Già si capisce quindi come l’avvento di questa novità costituisca altresì il vero spartiacque tra la lunghissima Preistoria umana e la tutto sommato breve Storia successiva. Perché è proprio con quella scoperta che abbiamo compiuto non il passo, ma il salto da uno stile di vita animale come gli altri, a quello esclusivo di vita civile. Perciò quell’evento di diecimila anni fa costituisce esso sì il vero Anno Zero, quello cioè prima e dopo il quale le sorti dell’umanità non sarebbero più state le stesse.

Attenzione però alla definizione che ho dato. Perché già da quella si evince che la ricchezza —sebbene non sia il denaro di oggi, né l’oro di una volta—, però nemmeno può dirsi tutto quanto gli uomini si procurano lavorando. Perché anzi essa è piuttosto solo una parte del prodotto ottenuto. Più precisamente qualcosa che avanza alla fine di ogni ciclo produttivo, una volta pareggiati i conti tra costi e ricavi dell’impresa. Intanto, per spiegare questa cosa, è bene chiarire che il lavoro, come ogni cosa tranne la moneta, non si crea dal nulla. Al contrario, chiunque intenda mettersi all’opera deve prima disporre di ciò che occorre —tipo come minimo materie prime da lavorare, attrezzi e luogo da lavoro, nonché il necessario a sostentare gli uomini impegnati nella produzione. Sicché l’atto lavorativo crea sì ricchezza finale, ma comporta altresì una spesa iniziale. Lo stesso seme piantato per la prima volta, s’è dovuto sottrarre al consumo immediato, per poterlo investire nella coltivazione. Perciò ogni processo produttivo di qualsiasi cosa può cominciare soltanto a condizione di fornire in anticipo tutto il necessario che serve a quello scopo. Solo una volta soddisfatti quei requisiti preventivi, allora il lavoro può procedere, realizzarsi, e compiersi nel prodotto finito. Cui segue finalmente l’ora di fare le parti, cioè decidere la destinazione d’uso e consumo dei beni ottenuti.

Ora, il principio logico appena enunciato, della ricchezza come parte in più di un tutto, si spiega anch’esso già solo guardando al principio della Storia, per vedere come sono andati i fatti. Infatti cos’è successo, che per almeno i loro primi tre, quattromila anni di Agricoltura —e quindi già di vita non più nomade, ma sedentaria— gli uomini hanno vissuto in modeste comunità di villaggio, senza dare alcun segno di ricchezza. A causa del semplice fatto che per quel così lungo tempo la gente consumava tutto quanto il magro raccolto che riusciva a produrre. Sarebbe a dire che, tolta una parte come cibo per la comunità, e un’altra come scorta di semi per la stagione successiva, quegli uomini riuscivano a vivere, ma senza che gli rimanesse niente da parte. Chiudevano insomma i conti in pari, sempre ammesso che la coltivazione andasse a buon fine. Così all’inizio sono occorsi tutti quegli anni, perché il raccolto cominciasse a eccedere il bisogno della mèra sussistenza. Per cui è solo col miglioramento assai lento delle tecniche agricole, che una parte di prodotto ha preso ad avanzare, come qualcosa di disponibile oltre le necessità quotidiane della vita e del lavoro. A quel punto, soddisfatti i consumi e accantonate le scorte, ecco comparire un resto, un di più, che perciò sul momento non serviva. Insomma un che di valore, ma inutile perché inutilizzato. Un plusvalore appunto, come si dice, ma comunque qualcosa da accumulare in qualche modo, conservare da qualche parte, e destinare a qualche scopo.

Ecco, questa è esattamente l’origine storica, e insieme l’autentico significato logico della ricchezza. Ecco anche la sua prima materia e forma, cioè non metallo prezioso, né carta straccia, bensì cereali, – orzo o grano. Su come sia andata all’inizio di quei tempi, cioè su che fine abbia fatto il primo sovrappiù produttivo dell’umanità, non possiamo saperlo. Non è però difficile ipotizzare che fossero i capi anziani del villaggio agricolo a sovrintendere l’amministrazione di quei beni eccedenti. I quali è probabile che fossero equamente distribuiti tra tutti, o comunque consumati insieme nelle occasioni di festa. Di certo invece sappiamo com’è andata a finire, quella primitiva fase di civiltà. Infatti, non è una supposizione quel ch’è successo a capo di quel primo, lungo, e quasi insignificante periodo. O sia che la produzione, per millenni appena sufficiente o poco più, non raggiunse un livello tale da provocare la RIVOLUZIONE URBANA, col sorgere delle prime città sui fiumi Nilo, Tigri ed Eufrate.

A quel punto la svolta epocale fu compiuta, era ormai sorta l’alba della civiltà, e con essa decise le sorti dell’avvenire. Ora la ricchezza umana aveva trovato il suo posto, da cui non si sarebbe più mossa. Con il rivoluzionario tipo d’insediamento, infatti, la novità non è solo una costruzione architettonica in pietra, ma altresì e insieme l’istituzione giuridica dello Stato. La città, infatti, già nasce proprio come Stato, e anzi meglio col suo uomo, il Re. Ecco la prima losca figura della Storia, il primo esemplare umano che ostenta magnificenza di ricchezza e potenza. S’intende, lui con la famiglia, i cortigiani, e così via. Ecco dunque comparire, insieme alla città, la divisione della comunità umana tra una classe dirigente dello Stato e una classe diretta dei cittadini. Ecco altresì che ai primi ricchi nobili fanno da contraltare i primi contadini poveri, dato che per costoro la divisione sociale ha significato solo sottrazione di ricchezza.

Si capisce insomma che già alle origini s’è compiuto quello stesso ignobile sistema, – di partizione della società in parti sociali separate – che si ritroverà intatto anche molto più tardi. Come presso i Greci (aristòs e dèmos), nonché poi presso i Romani (patrizi e plebei). E così via di seguito, con sfumature diverse, ma senz’altro fino a oggi. Tanto per dire quanto sia radicato simile ordinamento istituzionale degli uomini, distinti in ceti a seconda di ciò che possiedono, o per così dire in base al reddito. La quale squallida mentalità alimenta proprio quel circolo vizioso che si crea nel mondo umano. Perché ogni volta che qualcuno s’appropria di ricchezza, non vive solo di lusso, ma peggio ancora esercita il potere di comandare sugli altri.

Ecco quindi che lo stesso atto di nascita della civiltà, – la città – si rivela essere un evento piuttosto sospetto. Nonché un posto ostile, almeno mettendosi nei panni di quelli che fino a quel momento erano vissuti in piccole comunità di campagna. Costoro che per la prima volta si sono visti edificare un luogo di concentramento della ricchezza, e insieme di accentramento del potere, nelle mani di un singolo uomo e del suo “cerchio magico”. Uno che a quel punto, dall’alto del trono, disponeva di un dato territorio, ma soprattutto della gente che ci viveva, e che lavorando produceva più del necessario al proprio sostentamento. Così il sovrano, cioè lo Stato in persona, concentrava su di sé ogni cosa, nell’inestricabile intreccio d’interesse economico e politico.

Dal quale primo nodo della Storia emerge anche la questione circa la giustificazione, o legalizzazione, o autorizzazione che il potere s’è sempre concesso. In verità la menzogna più spudorata, per cui i potenti fanno del proprio torto una questione di Diritto, col meschino sotterfugio di duplicare se stessi. Fin dal principio infatti, la figura del Re non incarna solo la sua materiale ‘persona fisica’ di essere umano, ma insieme rappresenta altresì la formale ‘persona giuridica’ dello Stato. Di modo che la concretezza corporea dell’uomo, – insieme alla sua palpabile ricchezza – si confonde e consolida con l’astrattezza politica di un fantasma istituzionale. Tanto che quello avrebbe avuto ben ragione di dire che lo Stato era lui stesso in carne e ossa, essendo di fatto roba sua, perché sottoposto al suo personale comando. Da cui si può intuire che lo Statista, cioè propriamente il Capo di Stato, monarchico o repubblicano che sia, non rappresenta il popolo, ma se stesso, mentre la gente è piuttosto una sua rappresentazione. I cittadini infatti, per lui, sono il ‘suo’ popolo, ma proprio nel senso che a lui devono obbedire.

Si capisce così che fine ha fatto la prima ricchezza comparsa sulla Terra, prodotta dal lavoro comune degli abitanti di un dato territorio. Requisita dalla campagna, ha finito per essere accumulata in città. Unica, a sé stante, ma già a tutti gli effetti capitale di Stato. Più precisamente quei beni avanzati sono requisiti alle varie fattorie, per finire in centro, nei grandi Magazzini, che si trovano regolarmente annessi ai grandi Palazzi e Templi di lusso. Il che sappiamo ormai con certezza, proprio perché plasticamente provato dagli scavi archeologici, sia in Mesopotamia che, più recentemente, in Egitto. Ecco dunque i primi veri forzieri della Storia, locali di rimessa, costruiti appositamente per custodire la ricchezza prodotta a quei tempi, accumulata e messa sotto l’amministrazione controllata dalla casta reale e sacerdotale.

Quanto agli altri uomini dell’epoca, su di essi e la loro vita non ci sono tracce. Però vien da sé che quelli erano i lavoratori dei campi, coloro che materialmente producevano tutto quanto ci fosse da consumare o accumulare. Per cui almeno una cosa è certa, che per quelle persone il costituente potere politico cittadino si rivelò una netta espropriazione. Ormai la terra stessa non era più loro, e con essa fu sottratta anche la ricchezza, fiscalmente confiscata. A quei disgraziati non rimase altro che di lavorare, solo che ormai non più per se stessi. L’edificazione della città ha ridotto i contadini dei dintorni alla condizione di sudditi, ormai sottoposti e sottomessi, nonché costretti a un’esistenza miserabile, al limite più basso possibile di sussistenza.

Così l’Urbanesimo, con la costruzione della città e l’istituzione dello Stato, ha portato il Regno dell’uomo sulla Terra. Per cui è ben prima che si parlasse d’un Regno di Dio in cielo, che quaggiù s’è incarnata veramente quest’inedita figura del Principe, colui che ha «imperio sopra gli uomini», come diceva Machiavelli. A quel punto un tipo del genere poteva disporre ogni cosa. Investito ufficialmente dell’autorità ufficiale, costui esercitava il ‘potere d’ufficio’, ciò che significa letteralmente il termine ‘burocrazia’. Dalla stanza dei bottoni del Palazzo, il sovrano era intento nel nuovo mestiere di fare ‘politica’, parola che infatti vuol dire ‘tecnica della città’, ma proprio intesa come Stato. Solo che quest’arte del governo non era appunto altro che dominare un territorio, sfruttando tutte le risorse umane e naturali che quello conteneva. Sicché non ovviamente a vantaggio del popolo, bensì dello Stato, o meglio dei suoi uomini. In principio fu un singolo individuo, il monotono monarca, che sulla terra e le materie prime di una data regione, s’arrogò il diritto di dire ‘questo è mio’, benché fino a un momento prima fosse stato almeno anche degli altri che ci abitavano. Uno che appunto, e proprio per logica conseguenza, s’è permesso per la prima volta di dire ai suoi simili ‘adesso lavorate per me’.

Ancora, già solo da queste prime avvisaglie di civiltà, s’intravede anche il concetto di spesa pubblica. O sia il fatto che lo Stato, chiunque sia a impersonarlo, è nato per spendere. Fin dai primi Re infatti, gli Statisti non hanno mai fatto un cazzo di niente, se non disporre di quella stessa ricchezza che sottraevano ai popoli che l’avevano prodotta. Non a caso ancora oggi i politici stanno lì ad amministrare, cioè appunto decidere loro come spendere i soldi altrui, e infatti alla fine è sempre solo di quelli parlano. Dalle origini, e fino a pochi secoli fa, la spesa dello Stato era quella fatta dal Re in persona, che appunto consisteva nell’impiegare il sovrappiù agricolo sequestrato per “comprare” cose e uomini. In parte dissipato nella lussuosa vita di corte, mentre il resto per spese militari e nei grandi lavori di costruzione. Ecco quindi anche in che senso la ricchezza sottratta alla campagna creò in città non dico posti di lavoro, ma nuovi mestieri. Di gente che ha cominciato a vivere senza lavorare la terra, ma facendo altre cose a servizio del Re, della Corte, o dello Stato che dir si voglia. Tipo l’artigiano, il soldato, il funzionario, il domestico, e così via. Tutta gente appunto “pagata” con le scorte di cibo accumulate nei Magazzini statali. Perciò adesso è chiaro come al principio dei tempi storici il potere fosse intero, cioè non diviso, ma economico, politico e giuridico, tutto insieme nella stessa persona del signore di città. Il quale ordinamento peraltro, si perpetrò assai a lungo. Tale per cui solo i membri della ristretta casta aristocratica nascevano ricchi e potenti, mentre era impossibile che gente del popolo lo diventasse. Solo nel tardo Medioevo, all’epoca della civiltà comunale in Italia, i Mercanti hanno cominciato a farsi strada in Europa.

E allora, per tirare un po’ le somme, con questa chiave di lettura diventa più comprensibile che il problema sollevato non è la produzione di ricchezza, bensì la sua atavica appropriazione indebita da parte dei ricchi. Ben venga anzi quell’abbondanza generosa, sotto forma di prodotto eccedente i costi di produzione, che scaturisce dalla nostra tipica laboriosità e in ogni settore produttivo. Qualcosa che in effetti è quasi una sorta di dono, tipo quelli che fa la Natura, solo che in questo caso dovuto alla prodigalità di un puro artificio umano. Tale che, per la natura propria di quest’ingegnosa attività, l’uomo è diventato capace di produrre spontaneamente più del necessario, e disporre così di un’eccedenza di beni che sembra quasi una manna dal cielo. Può quindi ben dirsi che la ricchezza sia il prodotto superfluo del lavoro, il suo autentico valore aggiunto, concesso dagli uomini a se stessi per il miglioramento delle loro condizioni di vita. Laddove i ricchi di tutti i tempi, proprio quelli che pure per definizione non lavorano, tuttavia si attribuiscono il potere d’impadronirsi del frutto più prezioso dell’altrui fatica. Se continuano a farla franca, però, è solo perché approfittare degli altri è legalizzato dagli Stati, che sono sempre stati i primi a farlo. Ecco quindi non un’opinione ideologica, bensì una verità storica che spiega molte cose. Tipo come e perché mai ancora oggi l’atto stesso del lavoro, benché sia quello che per eccellenza ci rende esseri umani, pure sia stato praticamente sempre degradato a quanto di peggio un uomo potesse fare.

Ecco allora, per riassumere e concludere, il seguente sillogismo.

Premessa maggiore: la ricchezza è una creazione del lavoro umano, e precisamente l’eccedenza di prodotto rispetto ai consumi umani e materiali necessari alla produzione.

Premessa minore: il lavoro è per sua natura un atto SOCIALE, cioè un interesse comune, poiché coinvolge ugualmente tutti i membri di uno stesso territorio. Non quindi un affare PRIVATO degli imprenditori, né tantomeno un affare PUBBLICO dei politici.

Conclusione: la ricchezza è pertinenza di quelli che l’hanno prodotta lavorando, cioè dei popoli —tanto a livello locale che globale. Sicché tocca a costoro decidere cosa farne.

Postilla

Spero sia chiaro che il quadro storico e logico appena descritto, sull’origine del lavoro e della ricchezza, non è a sé stante, cioè valido solo per quei tempi passati, appunto perché ha invece una portata generale. Nel senso che per principio ancora adesso ogni possibile impiego di lavoro crea un valore superiore alla spesa che serve a produrre qualsiasi cosa. Beni agricoli, artigianali, o soprattutto industriali che siano. Tant’è vero che solo a questa condizione, ancora oggi, un imprenditore apre e tiene aperta la sua azienda, cioè se appunto il lavoro dei dipendenti crea ricchezza. Altrimenti, se va non in perdita, ma già in pareggio, allora quello chiude, perché non ha più niente di cui profittare. Una roba che dà il voltastomaco, ma che pure è all’ordine del giorno di questo rivoltante sistema liberal democratico cristiano, e come se niente fosse.

Come può constatare chi ha letto fino a qui, questo ragionamento non è contraddittorio, eppure è del tutto contraddetto dall’intero corso della Storia. Dato che un’equa partizione di ricchezza tra chi pure ne avrebbe diritto, benché sia la cosa non dico giusta, ma logica da fare, pure non s’è ancora mai vista, e anzi la norma è sempre stata l’esatto contrario. Segno allora che sono loro, i fatti, a essere contraddittori. E che, come ho cercato di mostrare, sono tali fin dall’inizio, ma proprio già solo per il modo stesso in cui sono cominciati. Ciò che a me sembra già abbastanza per denunciare con una certa sicurezza la qualità disumana del nostro pur mirabolante progresso. Che, per quanto possa luccicare, è fatalmente viziato dal peccato originale di uno sfrontato abuso e sopruso di potere, perpetrato sempre da quegli stessi uomini che ancora adesso devono pentirsi.

Infod’Annata, fine ott ‘17


giorgiorst@gmail.com

3 pensieri su “DELLA RICCHEZZA E DEI RICCHI di Giorgio Rosati”

  1. pinco pallino dice:

    Per chi ancora non la conoscesse ecco la favola l'isola dei naufraghi di Louis Even che spiega in maniera semplice e comprensibile anche ai bambini alcuni concetti come ricchezza,lavoro,moneta,debito,ed inoltre propone un sistema economico che oserei definire "capitalista socialista" che lui chiama cedito sociale la trovo molto inerente a questo articolo.http://www.bellia2.com/l'isola_dei_naufraghi/l'isola%20dei%20naufraghi.htm

  2. g. rosati dice:

    SIC!!

  3. Anonimo dice:

    Grazie dell'ottimo post e non preoccuparti x chi diffilmente capirà mai… assordato dal proprio abnorme ego non sta nemmeno a sentire. Ciao Marco

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *