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LOTTA DI CLASSE IN TUNISIA

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[ 13 gennaio 2018 ]

Esattamente sette anni dopo la “Rivoluzione dei gelsomini” che abbatté il regime di Ben Alì, la Tunisia è scossa da una rivolta popolare che riguarda soprattutto le zone più depresse del Paese e mobilita gli strati sociali più disagiati. La scintilla è stata una legge di bilancio austeritaria imposta da Fmi e Banca mondiale. Alla testa della rivolta il Fronte Popolare, il blocco delle organizzazioni di sinistra.



Nella Tunisia delle rivolte: “Stavolta non ci fermeremo”

Il governo reagisce dopo gli scontri nei cortei: 237 arresti. Sassaiole nelle città. A Djerba molotov contro la sinagoga

di Francesca Paci*


Molte ore dopo l’assalto al Carrefour di Ben Arous, periferia Sud di Tunisi, l’odore dei lacrimogeni aleggia ancora sul viale buio davanti alle saracinesche bruciate. Le proteste contro il carovita che da tre giorni tengono in scacco il Paese e hanno prodotto 237 arresti, decine di feriti tra cui 49 poliziotti, 45 mezzi della sicurezza danneggiati, si accendono di slogan diurni nel cuore borghese della capitale e di sassaiole notturne qui, banlieue miserabile, dove piccoli gruppi di giovani con il cappuccio della felpa sulla testa parlottano sbirciando i blindati appostati all’incrocio.

«Anche se non è la rivoluzione del 2011 non si fermerà, ci ripetono che diversamente da Internet e schede telefoniche il pane e l’olio non sono aumentati, ma i bisogni della gente non sono più quelli di mezzo secolo fa» ragiona il tassista Samir in sosta alla boulangerie La Reine, un isolato più avanti, in direzione di quell’autostrada per Tunisi dove le pietre lungo il guardrail raccontano gli scontri durissimi all’altezza delle case popolari di El Kabaria.

A sette anni dalla cacciata di Ben Ali, l’unica sopravvissuta delle primavere arabe, ma anche quella che ha fornito il maggior numero di volontari allo Stato islamico, combatte con i suoi fantasmi. La settimana scorsa l’annuncio della legge di bilancio accompagnata dall’aumento dei prezzi della benzina, del gas, dei servizi, ha scatenato le piazze di una decina di città, da Kasserine a Djerba, dove pare sia stata attaccata la sinagoga: i moti più duri da quando nel 2016 il governo ha promesso al Fondo Monetario Internazionale un drastico taglio della spesa in cambio del prestito quadriennale da 2,9 miliardi di dollari. La popolazione, gravata da un tasso di disoccupazione giovanile del 25% e l’inflazione al 6,4% (contro il 4,2% del 2016), è esplosa.

«È allarmante perché non c’è alcuna leadership, ma si tratta di manifestazioni di poche decine di persone che pur mettendo alla prova il governo non terremoteranno il paese» nota Hamza Meddab, studioso di periferie tunisine e analista dell’European Council on Foreign Relations. L’Ugtt, il sindacato dei sindacati, chiede l’aumento del salario minimo, oggi al di sotto dei 400 dinari (€ 134), ma resta a fianco del governo. In strada ci sono i disoccupati e gli agitprop del Fronte Popolare, la sinistra radicale, i cui slogan – Manich Msamah (non perdoneremo) e #Fech_Nestanew (cosa stiamo aspettando?) – risuonano in avenue Bourghiba tra cordoni di agenti più numerosi dei manifestanti.

«Da giorni si respirano lacrimogeni e rabbia, chi protesta tira avanti da troppo tempo con 500 dinari al mese e la pazienza è finita» ci dice il giovane dottor Said al telefono da Tebourba, dove nelle ultime ore centinaia di persone sono scese in piazza per i funerali del manifestante ucciso durante gli scontri. Due mesi fa nella città settentrionale di Sejnane una madre di cinque figli si era data fuoco evocando il gesto di Mohammed Bouazuzu, il fruttivendolo di Sidi Bouzid diventato il simbolo della rivoluzione del 2011.

«il 2018 sarà l’ultimo anno di stenti per i tunisini» ripete il premier Chahed nel discorso di Capodanno rimandato dalla tv in un caffè solo maschile di Citè el Tadhamoun, altra periferia sud di Tunisi, due centri commerciali bruciati. «Promesse, promesse, dal 2011 abbiamo ottenuto solo la libertà, e non ci manteniamo la famiglia» sentenzia il proprietario asciugando bicchierini di tè.

Periferia e centro, provincia e città, borghesia e proletariato vero: le ataviche contraddizioni tunisine tornano, convitato di pietra nella transizione dal passato che non passa. A pochi isolati dal Parlamento, il deputato di Ennahda Osama al-Saghir ricorda le cifre dell’Iva, passata dal 6 al 7% per i prodotti necessari e dal 12 al 13% o dal 18 al 19% per gli altri. Poca roba, dice, rispetto ai singoli commercianti «che se ne sono approfittati aumentando i prezzi del 15,20%». Difende il governo insomma, ma anche il diritto di critica, un privilegio della democrazia: «In realtà è iniziata la campagna elettorale per il voto amministrativo del 6 maggio che vedrà in campo migliaia di città, 8 milioni di elettori e oltre 7200 candidati. L’opposizione capitanata dal Fronte Popolare, che in Parlamento ha appena una trentina di seggi, cavalca il malcontento contro la maggioranza».

Ennahda, storica forza popolare oggi in coalizione con Nidaa Tounes nel governo di unità nazionale, tende da sempre l’orecchio alla pancia del Paese ma in queste ore ne minimizza la forza d’urto sottolineando che, al netto dei problemi, il paese cresce del 2,2%, la disoccupazione è scesa dal 18% al 15,3% e con 7 milioni di visitatori nel 2017 il turismo respira.

L’umore cupo. Le camionette dell’esercito davanti ai caffè a ridosso della casbah ricordano lo Stato d’emergenza, in realtà in vigore dal 2015. C’è ancora qualche giorno prima del 14 gennaio, anniversario della rivoluzione, nel bene e nel male.

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