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BORSE: PRIMA DELLA TEMPESTA PERFETTA

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[ 7 febbraio 2018 ]

«C’è tantissima liquidità in circolazione. Se le valutazioni salgono è perché la domanda di asset finanziari redditizi come le azioni è attualmente superiore all’offerta». Questo afferma una delle teste d’uovo della Black Rock, tra i più grandi squali della finanza speculativa globale intervistato da Il sole 24 Ore. Ma i pescecani sono rapaci, la grande torta della liquidità creata dalla banche centrali dell’Occidente (15mila miliardi di dollari dal 2008!) se la vogliono continuare a spartire solo loro. Egli ci dice infatti che il recente crash di Wall Street dipende dal timore diffusosi tra gli speculatori che la Fed possa alzare i tassi d’interesse visto “il pericolo” negli USA e in Germania, di un lieve aumento dell’inflazione che sarebbe causata dalla modesta crescita dei salari. Sì, avete capito bene. Ciò che conferma quanto da anni andiamo dicendo contro la vulgata eurista, che l’inflazione è fumo negli occhi solo per la grande finanza che fa denaro attraverso denaro.

Il baco che ha fatto scattare il «flash crash» di Wall Street

do Morya Longo

Vedere giovedì e venerdì i mercati terrorizzati per l’aumento delle retribuzioni negli Stati Uniti e per le rivendicazioni salariali in Germania, fa comprendere ancora una volta quanto le Borse siano distanti dall’economia reale. La crescita dei salari (dunque dei redditi, dei consumi e in ultima analisi dei ricavi aziendali) è il grande anello mancante di questa ripresa economica globale che per ora ha prodotto più diseguaglianze che benessere. Se le retribuzioni aumentassero, come iniziano a fare in Usa e Germania, dovrebbe dunque essere una buona notizia per tutti. Anche per la finanza. Ma i mercati, ormai assuefatti dalle flebo con cui le banche centrali hanno iniettato oltre 15mila miliardi di dollari di liquidità dal 2008, vedono solo il lato oscuro della ripresa dei salari: cioè il rischio che aumenti l’inflazione e che le banche centrali ritirino la flebo prima del previsto. Dunque una buona notizia diventa negativa ai loro occhi.

Questo dimostra che i mercati sono sempre più autoreferenziali. E proprio questo è il problema: è al loro interno, nella loro struttura, che si nascondono i meccanismi che hanno la capacità di amplificare i ribassi come hanno fatto con i rialzi. La bolla non sta tanto (o solo) nelle valutazioni di Borsa, quanto nel «baco» interno dei mercati. Per esempio negli algoritmi, che ormai producono il 66% degli scambi sulle Borse mondiali. O nel «carry trade». O nel «margin debt». È per colpa loro, soprattutto degli algoritmi, che ieri è scattato il «flash crash» che in pochi minuti ha depresso l’indice Dow Jones oltre il 6%

Il pilota automatico 

I primi moltiplicatori dei mercati proprio loro: gli algoritmi. Questi “piloti automatici” usano spesso la volatilità come parametro per misurare i rischi: se è bassa comprano azioni, se si alza vendono. Dato che negli ultimi tempi è stata bassissima, anche sotto il 10%, tanti fondi si sono sovra-esposti sul mercato azionario. Si calcola che nel mondo ci siano 2mila miliardi di attivi gestiti in questo modo: cioè con la volatilità a regolare l’allocazione dei capitali. Ma il numero in realtà è molto maggiore: nel calcolo andrebbero inclusi anche tutti i fondi che usano il Var (value at risk) come parametro per misurare i rischi.

È evidente che sono anche i loro acquisti (nei momenti buoni di mercato) a far scendere la volatilità e – viceversa – sono le loro vendite a farla salire (nelle fasi negative). La loro stessa strategia diventa insomma una profezia autoavverante: più sale la volatilità più loro vendono, più loro vendono più sale la volatilità. È esattamente quanto accaduto in questi giorni: dal 10% la volatilità è più che raddoppiata fino al 34% e molti fondi (soprattutto i «risk parity» che più usano questo parametro) hanno iniziato a vendere azioni. Stimavano venerdì gli esperti di Ubs che solo la caduta di Wall Street di oltre il 2% registrata quel giorno avrebbe potuto far salire la volatilità fino a far scattare vendite automatiche in Borsa pari a 40-70 miliardi di dollari.

L’iper-debito

Meccanismi altrettanto dirompenti, ma per ora latenti, sono il «margin debt» (investitori che si indebitano per comprare azioni mettendo in garanzia del finanziamento le stesse azioni) e il «carry trade» (investitori che si indebitano nel Paese dove i tassi sono più bassi per comprare titoli dove i rendimenti sono più elevati). Entrambi pompano i mercati al rialzo quando le cose vanno bene: il «margin debt» a Wall Street, per esempio, ha toccato il suo record storico a 580 miliardi. Ma se il mercato dovesse scendere davvero, le posizioni di «margin debt» e di «carry trade» verrebbero velocemente smontate, con effetti violenti sul mercato. Ancora questo non è accaduto, ma se i ribassi perdurassero la molla scatterebbe di certo.

La droga dei buy-back

C’è poi un altro meccanismo che in questi anni ha pompato le quotazioni a Wall Street: i «buy-back», cioè gli auto-acquisti di azioni da parte delle società. Dal 2009 le aziende di Wall Street hanno speso 3.800 miliardi di dollari solo fare per questo: per comprare le proprie azioni. A parte l’occasione persa per l’economia reale (figuriamoci come sarebbe il mondo oggi se quei 3.800 miliardi fossero stati investiti per creare occupazione), questo ha anche drogato la Borsa. Calcola Artemis Cm che solo i buy-back dal 2009 hanno fatto salire Wall Street del 30% e gli utili per azione (Eps) del 40%. Insomma: un moltiplicatore pazzesco. Che ora potrebbe diventare un boomerang.

* Fonte: IL SOLE 24 ORE

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