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NOMINARE LA NAZIONE di Mimmo Porcaro

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[ 1 marzo 2018 ]

Nel mesto panorama culturale della sinistra radicale l’ultimo libro di Domenico Moro (La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, 2018) potrebbe, per usare una frase che piaceva a Stendhal, fare l’effetto “di un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto”. Potrebbe farlo (ma temiamo che non lo farà, dato che c’è gente che non avverte nemmeno i colpi di cannone) perché, oltre a porre nuovamente e con nettezza la questione dell’euro, ha il coraggio di nominare ciò che per la sinistra, e per l’intera cultura italiana, è il vero innominabile, il rimosso, il riassunto di tutto ciò che non è politically correct: la questione nazionale.
L’operazione di Moro è molto semplice, e proprio per questo va al centro del problema. Consiste nel ricondurre la questione della nazione (e della sovranità, e dello stato) ai suoi reali termini storico-filosofici, superando il riflesso condizionato che porta la sinistra a quella immotivata catena di equivalenze che fa associare sempre e comunque la nazione al nazionalismo e questo al fascismo. 
Eppure, come ricorda Moro, l’origine dell’idea di nazione è essenzialmente democratico-radicale (Rousseau, giacobinismo…), e la nazione è pensata ai suoi inizi come spazio di realizzazione della volontà popolare, come forma concreta della sostituzione del principio dinastico col principio democratico. Divenuta così la nazione forma normale della politica è inevitabile che il suo campo sia conteso tra un’ interpretazione democratica ed
Domenico Moro

un’interpretazione reazionaria: ma non è affatto vero che sia sempre quest’ultima a prevalere. Così nel corso degli anni abbiamo assistito al confronto tra una concezione volontarista e tendenzialmente progressista della nazione (la nazione come scelta politica) e di una concezione naturalista e tendenzialmente reazionaria (la nazione come espressione di una cultura, di un retaggio, di un volk). 

Abbiamo visto l’emergere del nazionalismo imperialista e contemporaneamente la nascita delle lotte di liberazione nazionale. Abbiamo sperimentato il nazionalismo nazi-fascista e contemporaneamente la Resistenza delle nazioni europee e la grande guerra patriottica dell’Unione sovietica. 
Insomma, da sempre la nazione (sia l’idea di nazione che la nazione storico-concreta) è un campo di battaglia aperto alle più diverse soluzioni, tanto da indurre tutti i più acuti marxisti — e Lenin per primo — a non avere un atteggiamento preconcetto nei confronti del problema nazionale e ad affidare il giudizio all’unico valido criterio della strategia comunista, ossia all’analisi concreta della situazione concreta, alla valutazione del diverso carattere di classe di ogni concreto movimento nazionale. 
Di più, prosegue Moro, se si arriva a Gramsci si vede quanto lo spazio nazionale sia decisivo per impostare la stessa questione della rivoluzione in occidente: ogni strategia rivoluzionaria deve essere costruita in relazione alla realtà specifica nella quale si opera, e specifico, per Gramsci, significa nazionale. Per Gramsci ed anche per noi: infatti la dicotomia tra uso progressivo ed uso reazionario della nazione si pone anche oggi; oggi che, come precisa Moro, il cosmopolitismo ha sostituito il nazionalismo come ideologia delle classi dominanti, ed oggi che le nazioni tornano sulla scena anche come forma di reazione delle diverse vittime della globalizzazione contro il carattere gerarchico della globalizzazione stessa. Una reazione che, appunto, può assumere forme diverse, progressive o regressive, ma che tenderà inevitabilmente all’esito peggiore se la sinistra — come avviene in Italia — abbandonerà il campo in ossequio al dogma liberista secondo il quale un movimento che abbia caratteristiche nazionali può essere soltanto di destra, perché sono gli stati nazionali i primi responsabili della guerra, mentre i mercati e gli enti sovranazionali sono portatori di pace. L’attuale egemonia della destra sull’antieuropeismo (che preferiremmo chiamare antiunionismo) è il classico esempio di profezia che si autorealizza.
Moro, è vero, precisa che il necessario (pur se insufficiente) superamento dell’unione valutaria non deve intendersi tanto come riconquista della sovranità nazionale, quanto come recupero ed allargamento della sovranità democratica, ossia come ricostruzione di un contesto in cui i lavoratori (a differenza di quanto oggi, grazie all’euro, inevitabilmente avviene) non siano sconfitti in partenza. E sussiste nel libro una certa reticenza a definire il legame fra oppressione territoriale del paese ed oppressione di classe. Moro ci ricorda che non si assiste oggi all’oppressione di una “nazionalità italiana” e bensì di una classe, che gli organismi comunitari sono sostanzialmente intergovernativi e che lo stato italiano non ha perso tutte le prerogative della sovranità. Vero, come è vero però che le aree statuali dell’Europa del sud sono oggetto in quanto tali di un processo di “mezzogiornificazione” dato dalla perdita di sovranità economica, e che tale processo di gerarchizzazione territoriale è il miglior viatico della gerarchizzazione di classe
Sottolinearlo rafforzerebbe le tesi di Moro senza far loro assumere una coloritura nazionalista.
Ciononostante la prospettiva del libro è ben chiara, ed è fatta per irritare i benpensanti che hanno portato la sinistra radicale alla rovina. Secondo lo stesso Moro, infatti, assumere la prospettiva nazionale non conduce per nulla ad eludere la questione di classe e la questione della trasformazione del potere di stato, anzi. Proprio perché si pone la questione del potere di stato la volontà popolare non può che assumere, in opposizione al contesto globalizzato e cosmopolita, la forma del patriottismo costituzionale, e non può che sboccare in una prospettiva che è contemporaneamente nazionale ed internazionalista. Internazionalista perché solo entro una dimensione più ampia è possibile sviluppare efficacemente la lotta di classe. Nazionale perché soltanto iniziando a trasformare l’esistente sul piano nazionale si potranno modificare gli equilibri generali e riprendere il filo dell’internazionalismo.

Una posizione netta, come si vede. Che tra l’altro, rimettendo al centro l’analisi della dialettica tra globale e nazionale, consente all’autore di riflettere su temi generalmente (e non a caso) evitati da tutta la cultura politica italiana, quale l’emergente conflitto tra Usa da un lato e Francia e Germania (e quindi Europa) dall’altro: conflitto che a nostro avviso costringerà inevitabilmente l’Italia a ragionare sui suoi interessi nazionali, e costringerà ancor più i lavoratori italiani a ragionare sul nesso tra i propri interessi di classe e quelli del paese (scoprendo magari che oggi, molto più di ieri, gli uni e gli altri si possono intrecciare in una soluzione antiimperialista e cooperativa). 
Una posizione, quella di Moro, che diviene ancor più netta quando individua la necessità, per chiunque voglia veramente fare politica e non si limiti a sbandierare i propri preziosi valori, di indicare ed aggredire il punto specifico di addensamento delle contraddizioni di classe, il punto in cui queste contraddizioni si manifestano in modi che rendono
Mimmo Porcaro

l’avversario più debole. Secondo Moro questo punto è oggi proprio l’euro, l’appartenenza all’Unione valutaria e più in generale ai meccanismi apparentemente impolitici ma in realtà potentemente sovrani del capitalismo liberista europeo. Gerarchizzare gli obiettivi, dunque, definire le questioni principali e quelle secondarie, scandire i tempi e i modi differenziati della tattica: ponendo questo problema (che è poi il problema di una teoria della tattica comunista, abbozzato, nella sua forma astratta, nel corso degli anni Settanta, ma successivamente tralasciato) Moro svela d’un colpo la completa inadeguatezza politica di ciò che resta della sinistra radicale, storicamente incapace di definire le priorità della sua politica perché l’unica vera sua priorità è la generica crescita del movimento, e non la trasformazione dei rapporti di forza in funzione della conquista e trasformazione dello stato. 

Inadeguatezza che ad esempio si manifesta oggi nel confusionario programma di Potere al Popolo e che con maggiore virulenza si presenterà se alle prossime elezioni europee questo programma verrà “superato” e peggiorato, come è tristemente possibile, da una nuova lista dichiaratamente europeista ispirata a Varoufakis (un nome, una garanzia). 
La lotta contro il confusionismo attuale e contro la futura, colpevole riedizione dell’ “europeismo critico” non potrà che giovarsi dell’ottimo contributo di Moro, reso particolarmente utile dalla sua forma sintetica ed efficacemente stringata.

Un pensiero su “NOMINARE LA NAZIONE di Mimmo Porcaro”

  1. Fabrizio Marchi dice:

    D'accordo con l'interesante articolo tranne che su un punto. C'è un'altra questione che nella sinistra ormai prigioniera e imbevuta di ideologia politicamente corretta, rappresenta un vero e proprio tabù (oltre alla questione nazionale): il femminismo, uno dei mattoni fondamentali dell'ideologia politicamente corretta che è l'ideologia del sistema capitalista attualmente dominante. Sarebbe ora di affrontare anche questo tema con più coraggio, e soprattutto fuori dalle rassicuranti gabbie ideologiche con cui è stato affrontato e derubricato fino ad ora.A tal proposito questo lungo documento che abbiamo inviato proprio ai compagni e alle compagne di Potere al Popolo: http://www.linterferenza.info/lettere/lettera-aperta-agli-uomini-alle-donne-potere-al-popolo/

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