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UNA REPUBBLICA FONDATA SULLO SPREAD di Norberto Fragiacomo

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[ 1 giugno 2018 ]


«Ritengo ci siano gli estremi per avviare la procedura di cui all’articolo 90 della Costituzione, sono convinto dell’opportunità che il Presidente faccia un passo indietro — e lo dico proprio per il grande rispetto che provo per la carica di cui è investito. Finché dà voce alla Costituzione chi sta al Quirinale va ascoltato in religioso silenzio; quando inizia a parlare la lingua dei mercati, degli interessi di parte ecc. egli diventa criticabile al pari di qualsiasi altro politico».

Ritorno (un po’ più) frigido pacatoque animo sulla questione del discorso presidenziale del 27 maggio, che ha suscitato nel sottoscritto una vivissima riprovazione. 

Le mie convinzioni politiche non c’entrano nulla — non ero e tuttora non sono un simpatizzante della Lega, e del M5S ho scritto peste e corna. Il punto è evidentemente un altro: qui si tratta di Democrazia con la maiuscola, rispetto della Carta Costituzionale e delle istituzioni. Il Presidente, ci è stato insegnato all’università, è la Viva vox Constitutionis, il suo primo necessario attuatore: spetta a lui rispettarne non soltanto la lettera, ma anzitutto lo spirito. “Il Presidente della Repubblica nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri”: il testo dell’articolo 92 si ferma qui, non precisa — non espressamente — se la scelta presidenziale sia discrezionale o vincolata. Il riferimento alla “proposta” è però chiarificatore, e lumeggia un aspetto: il Presidente della Repubblica non fa di testa sua, si attiene a quella che è, a tutti gli effetti, una designazione.

In fondo è cosa abbastanza logica, quasi scontata, che chi è stato incaricato di guidare l’esecutivo sia libero di indicare i propri futuri collaboratori. Ciò non significa che il Capo dello Stato debba accettare qualsivoglia diktat: tocca a lui verificare che i candidati presentino i requisiti — morali, ma non solo — per poter accedere all’alta funzione. 

Pertanto casserà le singole proposte che non superino un vaglio di legittimità e/o ragionevolezza, perché ad esempio il prescelto è ineleggibile, incandidabile ecc., oppure in conflitto d’interesse  (anche potenziale) ovvero perché la sua condotta passata presenta delle macchie (es.: commissione di reati che non lo rendono tuttavia ineleggibile) tali da sconsigliare una sua partecipazione al governo  del Paese. 

Ho parlato di condotte, cioè di fatti: ciò che è inammissibile, in democrazia anche formale, è che un candidato sia respinto perché le sue idee sono giudicate “pericolose” – attenzione: non sovversive, odiose o antidemocratiche, semplicemente non in linea con quelle dell’establishment, o addirittura con gli interessi di organismi stranieri ed operatori economici. Se il Capo dello Stato fosse legittimato ad effettuare valutazioni siffatte, chiaramente “di merito”/opportunità, non avrebbe più senso parlare di irresponsabilità (da un punto di vista giuridico, sia chiaro): sarebbe lui, di fatto, il capo del governo, colui che ne detta la linea


In effetti, l’articolo 92 è stato interpretato dai costituzionalisti, con pochissime eccezioni, nel senso da noi proposto — aspetto più importante, per decenni la prassi istituzionale si è sviluppata su questa falsariga, assurgendo con il tempo a consuetudine (costituzionale, e dunque vincolante). Il Presidente della Repubblica non è un “notaio”, ma neppure un decisore, perché rispetto al Governo è figura terza: deve assicurare il rispetto delle regole, non coniarne di nuove. 

Si possono ipotizzare delle eccezioni, nelle eventualità — sempre più frequenti — di “governi del Presidente”: allora il potere di ingerenza si rafforza, si potrebbe parlare di una co-decisione rispetto alle nomine ministeriali, ma proprio perché siamo di fronte a governi c.d. “tecnici” e non politici (almeno sulla carta, perché se si guarda a visione della società e disegno strategico dovremmo concludere che uno degli esecutivi più politici della Storia della Repubblica sia stato quello presieduto da Mario Monti). Il Governo Conte-Di Maio-Salvini, pur nel suo carattere di novità, era chiaramente espressione di una maggioranza politica, pertanto il Presidente avrebbe dovuto limitarsi ad effettuare una verifica formale, mai e poi mai avrebbe dovuto scendere nel merito, pronunciarsi sull’opportunità delle singole scelte. A questa  massima il Quirinale non si è attenuto: al contrario, nel discorso di domenica 27 maggio il Presidente ha voluto essere sin troppo chiaro, esplicitando le ragioni per cui ha deciso di non nominare il Professor Savona e tirando addirittura in ballo il risparmio degli italiani(!). 


Sembra di essere ritornati all’epoca della “democrazia bloccata”, con la differenza che oggi le cose vengono dette apertamente e senza infingimenti: certe politiche, anche se appoggiate dalla maggioranza dei votanti, sono vietate ai governi, off-limits a prescindere da chi si adoperi per portarle avanti. Dovremmo apprezzare questa rinuncia ad un’«ipocrisia» che, a conti fatti, poteva essere anche interpretata come rispetto per le forme? 

Personalmente non la apprezzo affatto — anzi, provo sconcerto e rabbia per una simile politicissima dichiarazione di intenti da parte di chi dovrebbe, al contrario, assicurare la libertà del gioco democratico e assumere sempre una posizione imparziale di garanzia. 

Parafrasando Grillo, il Quirinale non è di destra né di sinistra: è sopra. Se scende nell’agone politico, pretendendo di imporre una linea ai governi, si arroga funzioni non sue, e soprattutto entra in conflitto  con la volontà popolare liberamente espressa. Domenica 27 maggio ci è stato detto, in sostanza, che il nostro voto vale meno di un’oscillazione dello spread, che avere opinioni contrarie a quelle mainstream è proibito, che la nostra è una Repubblica “democratica” fondata sul pareggio di bilancio e l’inchino ai Trattati europei. La prova? L’immediata estrazione dell’asso dalla manica: l’incarico a  Cottarelli, un neoliberista graditissimo ai nostri “partner” (i contorcimenti dello Spread sono un invito inequivoco a concedergli una rapida fiducia parlamentare). 

Una decisione d’impeto? Suvvia, siamo seri…

Ritengo ci siano gli estremi per avviare la procedura di cui all’articolo 90 della Costituzione, sono convinto dell’opportunità che il Presidente faccia un passo indietro — e lo dico proprio per il grande rispetto che provo per la carica di cui è investito. Finché dà voce alla Costituzione chi sta al Quirinale va ascoltato in religioso silenzio; quando inizia a parlare la lingua dei mercati, degli interessi di parte ecc. egli diventa criticabile al pari di qualsiasi altro politico.

2 pensieri su “UNA REPUBBLICA FONDATA SULLO SPREAD di Norberto Fragiacomo”

  1. RobertoG dice:

    Hanno ceduto il controllo sulla nostra moneta (dal quale dipende l'effettiva indipendenza di un paese) ad un centro di potere esterno, hanno firmato trattati di importanza capitale per la vita delle persone come quello di Maastricht e di Lisbona senza minimamente chiedere cosa ne pensassero i cittadini. Cosa volete che sia per loro un presidente della repubblica che rigetta con motivazione politica un ministro?

  2. Anonimo dice:

    Il punto da chiarire è se oggi l'Euro faccia parte o meno della Costituzione, o se addirittura sia diventato un principio fondamentali della stessa. Perchè se (ma solo se) così è, allora il PDR era legittimato a bloccare la nomina di Padova, e l'ipotesi di un piano B per l'uscita dall'euro configura un vero e proprio attentato ad una Costituzione così intesa. Sollecitare l'interpretazione autentica della Corte costituzionale, senza prima averne cambiato i giudici, potrebbe essere estremamente pericoloso.

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