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DIECI DOMANDE SULLA VERITÀ di Alétheia

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[ 7 gennaio 2018 ]

DOPO LA SBORNIA POSTMODERNISTA, PERCHÉ UN NUOVO “PENSIERO FORTE” È NECESSARIO 

Si è recentemente costituita a Bologna l’Associazione culturale Alètheia.
Qui sotto l’intervista in cui i fondatori precisano la natura e le idee dell’Associazione
.


1. Come mai date per scontato che ci sia una rivelazione all’indomani di un processo di disvelamento?  Come potete essere certi che vi sia un premio di verità, dopo una qualsiasi ricerca? Anzi: esiste, una verità che vale la pena cercare?
A Gesù che affermava di essere venuto al mondo per dare testimonianza della verità, Ponzio Pilato chiese Quid est veritas? Un dialogo che è allegoria dell’eterna disputa tra due scuole di pensiero: quella scettica e quella veritativa. I filosofi si sono arrovellati nel cercare di capire cosa sia la verità ed hanno risposto che essa è l’Essere. C’è forse un Dio creatore del mondo? E se c’è, se ne sta fuori, ineffabile, o è nel mondo? O è forse è il mondo stesso? E se l’Essere fosse il solo ente che pensa questo Essere, cioè l’uomo? Se fosse questa la risposta, è nell’uomo e nella sua relazione col mondo che si cela la verità. La verità è nient’altro che la realtà, verità-realtà che non si rivela a noi nuda, che l’uomo non riesce a riconoscere in quanto egli, tanto più la civiltà odierna procede, tanto più è smarrito e oscuro a se stesso, vittima di una disumanizzante reificazione. Il processo di disvelamento, ratio del nostro progetto, chiama in causa la ragione, chiede quindi l’incrocio dei saperi, una strutturata interdisciplinarietà. Dunque sì, che vale la pena cercare la verità, poiché privarsene è come navigare al buio e senza una bussola. Il premio è l’approdo, e l’approdo non è la conoscenza che è solo un mezzo, bensì dare senso alla esistenza in un mondo che oggi ne è privo.
2. Per voi cos’è la postmodernità? Vi collocate contro di essa?  
Ci riferiamo anzitutto al pensiero postmoderno, che affonda le proprie radici nella cultura statunitense degli anni ’40-’50 del secolo scorso e che, sbarcato in Europa, diventò una vera e propria corrente filosofica che ha attecchito, anche grazie a Gianni Vattimo, soprattutto in Italia. Esso è diventato, a partire dagli anni ’80 il paradigma fondamentale, un vero e proprio universo concettuale nel quale l’uomo occidentale ha vissuto e pensato di riconoscere il proprio tempo. Il discorso si farebbe lungo, basti qui sottolineare quelle che a noi paiono le sue caratteristiche genetiche. Al netto di stucchevoli diavolerie linguistiche, ha fatto suo il modo di vedere dello scetticismo pirroniano, per di più radicalizzandolo sulla scia di Nietzsche: non c’è alcuna verità da cercare, per la semplice ragione che essa non esiste. Esso ha dunque liquidato come illusoria e metafisica, come idea morta, ogni ricerca veritativa, ogni tentativo di dare senso alla storia ed alla vita. Per i postmoderni sarebbe vana la pretesa della ragione di conoscere e stabilire sia i fini che i mezzi per raggiungerli. Nella sua furia distruttiva della tradizione moderna, essi non hanno gettato solo l’acqua sporca (la fede positivista nel progresso, l’idea dell’evoluzione lineare della storia) ma pure il bambino (i concetti di universale, di unità, totalità, di sostanza). Di qui l’apologia di concetti che vanno ancora per la maggiore come quelli di frammentazione, ibridazione, promiscuità, decostruzione, indicibilità, fino a quello, recuperato da certo strutturalismo, di “vacanza del sé”, della costitutiva impotenza del soggetto — Althusser ebbe a dire che la storia sarebbe un processo senza soggetto. 
3. Dove ci troviamo ora rispetto alla postmodernità? Siamo nel suo tramonto, nel suo declino? Siamo all’alba di una nuova era?
Ci sono, per chi voglia vederli, tutti i segni del tramonto definitivo della postmodernità o, almeno del declino dell’egemonia culturale del postmodernismo, ciò che annuncia, se non una vera e propria era, un’epoca nuova. Tutto sta non solo a capire cosa verrà al suo posto, ma pensare ed agire affinché al suo posto non subentri qualcosa di peggio. A ben vedere, per come sta andando il mondo, si deve affermare non solo la fine del postmodernismo, ma anche il suo fallimento. Porto due esempi. Prendiamo la questione della cosiddetta “rivoluzione digitale”. Vattimo considerò il suo avvento come manifestazione della tendenza “inarrestabile alla pluralizzazione”. Oggi sappiamo come sia accaduto esattamente il contrario, la tendenza alla più radicale centralizzazione mondiale dei mezzi e dei dispositivi informatici corrisponde un vero e proprio pensiero unico, e la “pluralizzazione” è solo la maschera della più devastante atomizzazione. Prendiamo infine il postmodernismo dal lato dell’attacco ai topoi della modernità, alla morte delle cosiddette “grandi narrazioni”, all’apologia del pensiero frammentato, all’ibridazione delle identità e alla promiscuità dei costrutti ideali e sociali. Cos’è, tanto per limitarsi all’Occidente, certa nostalgia per valori tradizionali, o l’irruzione sulla scena storico-sociale dei movimenti nazional-populisti, se non il congedo dal congedo delle “identità e delle idee forti”? Se non il bisogno di ridare senso e fini alla vita associata? Se non un commiato dal pensiero globalista? Certo, tali populismi possono risultare come l’acqua salata per l’assetato, nostalgia restauratrice addirittura del pre-moderno; tuttavia, essi sono il sintomo che la storia non è finita. Anzi, come in un movimento a spirale essa riprende slancio da uno stadio più alto. D’altra parte non pare che l’élite globale neoliberale si sia lasciata trovare impreparata. Essa risponde con un suo pensiero forte, con la grande narrazione prometeica del post-umano o l’ideologia ultra-progressista del trans-umano, l’orizzonte cyborg dell’ibridazione uomo macchina, di un’intelligenza artificiale per cui avremo macchine pensanti che costruiscono e potenziano se stesse.
4. Perché credete che le metanarrazioni siano state benefiche per l’umanità? La religione, per esempio, era un bene? Perché? Le ideologie erano un bene? Gli ideali servono a qualcosa? Possono tornare a servire o sono l’anticamera di pericolose derive verso il totalitarismo?
 Non facciamo confusione tra ideali e ideologie. E’ oramai assodata la considerazione marxiana dell’ideologia come maschera di chi ha il dominio, che tenta sempre di spacciare i suoi interessi di parte per interesse generale. L’ideale è invece cosa buona, un lievito potente che fa dell’uomo ciò che egli vorrebbe essere, padrone del suo destino. L’ideale presuppone una visione del mondo; giusta o sbagliata che sia, è come una mappa per orientarsi nel caos del mondo o, per dirla tutta, per porre fine al caos del mondo. Occorre allora usare linguaggio e concetti con discernimento, dovremmo smettere di parlare di “meta narrazioni” o “grandi narrazioni”, poiché essi non contengono solo un giudizio di fatto ma di valore. Linguaggio e concetti che i filosofi postmoderni han preso in prestito da certo strutturalismo, che insieme alla critica alle ideologie gettavano nella spazzatura anche le idee. Le idee, il pensiero sono invece proprio ciò che caratterizza l’uomo senza le quali non potremmo fare differenza tra l’architetto e il ragno, tra l’umana vita associata e quella delle api o delle formiche. Non è un caso che nella domanda stabilisci il parallelismo tra meta narrazioni e “derive totalitarie”. Si tratta di un mito, di un “topos”, di una paralogia che tradiscono la loro radice, appunto, postmodernista.  
5. Perché l’uomo, privo della guida di ideali collettivi, è ridotto in poltiglia, secondo voi ? Il soggetto individualista, autodiretto, autodeterminato, completamente libero da direttive o direzioni altrui nelle sue scelte non basta a se stesso? 
L’egemonia del pensiero postmoderno, forse suo malgrado, ha finito per accompagnare quella del pensiero unico neoliberista. Ma qui non si tratta solo di pensiero, di idee, di visioni, qui si tratta della profonda metamorfosi del capitalismo, della sua trasformazione, ammesso che il concetto sia davvero adeguato, in capitalismo finanziario a scala globale. Sempre un processo storico-sociale ha bisogni per dispiegarsi, di suoi propri simboli, di proprie liturgie, di un clero intellettuale che le amministra. I nuovi dominanti per poter dominare dovevano abbattere gli ostacoli che trovavano sulla loro strada, e i principali ostacoli erano tutte le forme associative e collettive, per ciò stesso identitarie, che la modernità aveva lasciato in consegna, fossero esse sindacati, partiti, movimenti sindacali e culturali. Da anni gli stessi stati nazionali sono sotto attacco. Per farlo anche i nuovi dominanti, in nome della fine della storia e delle “grandi narrazioni”, hanno usato in verità a loro volta la più distruttiva delle narrazioni, quella che prospettava la definitiva emancipazione dal “secolo del terrore e dei totalitarismi” mettendo al centro l’individuo privo di fini e di principi morali ma pieno di desideri e bramoso di realizzarli qui e ora —tanto erano e sono i nuovi dominanti che coi loro mezzi potentissimi potevano e possono non solo manipolare i bisogni ed i desideri, ma fabbricarli, per trarne vantaggio. ”La società non esiste, solo l’individuo esiste”: non poteva esserci immagine più icastica di quella fornita a suo tempo da Margaret Thatcher. I guasti che l’atomizzazione ha prodotto, a cominciare dalla società che per prima ha agito da laboratorio, quella nordamericana, sono evidenti e inquietanti. Dove più ha scavato a fondo l’ideologia della fine di ogni ideale, più l’uomo è fatto schiavo, eterodiretto, eterodeteminato. L’uomo è, nella programmatica definizione di Aristotele, un “animale politico”, essere comunitario per eccellenza, per cui egli non si può autodeterminare se non in relazione con gli altri.
6. Perché vi collocate contro le contaminazioni e le trasmutazioni d’identità ? Serve, un’identità ? O è l’anticamera delle contrapposizioni di uomo contro uomo?  
Oggi risulta evidente che quella della “contaminazione” delle vedute politiche e morali e della “trasmutazione” delle identità collettive, presentatasi come deificazione narcisistica dell’individuo, come apice della liberazione, è stata un travestimento necessario del “pensiero unico” neoliberale per diventare egemone. Un pensiero unico che, in nome della lotta contro le identità collettive, è a sua volta una diversa e nichilisitica identità. L’ennesima dimostrazione che l’uomo ha bisogno di identificarsi, di riconoscersi, di dare un senso alla propria vita. No, non si può fare a meno di identità, come dicevamo di visioni del mondo. E se parliamo di conflitti non risulta che oggi si viva in un mondo edenico o pacificato, che non si diano “contrapposizioni”. Esse sono non meno feroci di quelle che questo secolo si lascia alle spalle, con la differenza che esse, rimosso ogni orizzonte di senso, sembrano avere solo potenzialità distruttive. 
 7. Perché non riuscire a concepire un mondo privo di principi ordinatori?  
Il mondo umano, cioè storico-sociale, compreso quello cosiddetto della postmodernità, non potrebbe esistere un solo attimo senza principi politici ordinatori, senza dotarsi di norme morali e quindi di leggi, e di sanzioni per chi le viola. Tutto sta a decidere chi decide queste norme, e se vanno nel senso del bene comune o di quello della parte dominante. Senza questi principi vivremmo nel mondo del bellum omnium contra omnes,  la guerra di tutti contro tutti. Ed è forse proprio questo il tragico destino che spetta all’umanità ove non si emancipasse dal presente. 
8. Nel vostro Manifesto parlate di scomparsa del sacro dalla società occidentale. Occorrerebbe tornare al sacro? 
Sì, ne parliamo. Non per recuperare un’idea trascendente del sacro, che con ciò s’intende una realtà al di sopra dell’uomo ed a cui egli deve riverenza e venerazione. Contro il cupio dissolvi di ogni principio etico morale, in una società dove predomina la dimensione edonistica dei diritti va recuperato il valore del doveri sociali ed il loro rispetto. Sacro come concetto non solo soggettivo ma sociale: si dice di una promessa che è sacra perché è un’obbligazione verso l’altro, lo si dice di un sentimento, di un giuramento, di un ideale, di luoghi che han segnato la storia. Dante definì sacra la sua Divina Commedia, ed è giusto che sia, come per ogni grandiosa e immortale opera umana.
 9. Dal momento che contrapponete alla performatività il sapere veritativo, potete dirci in cosa consista quest’ultimo?
Con ciò mi pare si torni alla prima domanda. Veritativo è quel sapere che se non ancora corrisponde, conduce alla verità, che quindi ha significato opposto al verosimile, ciò che della verità ha solo l’aspetto, malgrado e di contro quindi all’odierna doxa che accetta come verace, invece, gli enunciati performativi, che non spiegano nulla, che si giustificano solo in quanto pronunciati da chi si suppone abbia l’autorità (che è ben altro da autorevolezza) per esprimerli. E, per precisare cosa sia il sapere veritativo, nessuno forse lo descrisse meglio di Marx: «La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è questione teorica ma pratica. E’ nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla prassi è una questione puramente scolastica».
10. Denunciate la “cecità” della scienza attuale. La vostra soluzione è dunque quella di tornare al pensiero anticipatore della prassi? Credete davvero che il pensiero, da solo, possa restituirci la vista/ visione perduta? 
Noi riteniamo che il pensiero, ove sia pensiero che si ponga un fine, ove non sia mera contemplazione di se stesso o fuga mistica, sia già prassi, quanto meno in potenza. E un pensiero che si pone un fine, un pensiero teleologico, tende per sua stessa natura ad essere anticipatore dei fatti, a progettarli, a diventare pensiero in atto. Sì, solo il pensiero può vedere, se per vedere intendiamo appunto una visione, il cercare il proprio fine, e con ciò esso deve non solo darsi un metodo ma procurarsi gli strumenti e i dispositivi che a quel fine conducono. No, non si tratta di un romantico  recuperare “una visione perduta”, il progetto è più ambizioso. Si tratta di lavorare a una nuova visione, certo attingendo all’immenso patrimonio di pensiero passato. E per una nuova visione occorre superare la scissione tra filosofia e scienza, così com’è venuta avanti dalla fine dell’ottocento. Per la precisione occorre contrastare la tendenza a delegittimare la filosofia assorbendola nel pensiero scientifico, per l’esattezza tecno-scientifico ed alla sua natura pratico-manipolativa. Può sembrare inaccettabile ciò che Heidegger disse della scienza, che essa “non pensa”, ma a ben pensare è proprio così, tanto più oggi che la tecno-scienza sembra essere assurta, su spinta delle élite dominanti, a nuova religione, con la pretesa di essere il solo sapere oggettivo e rigoroso. La scienza odierna non pensa poiché ad essa non interessa la verità, né si perita di cercare risposte ai dilemmi morali e spirituali dell’esistenza — che considera irraggiungibili noumeni—, poiché non si pone alcun fine se non quello, grazie alla tecnica, di mostrare la sua propria potenza. Di qui la sua hỳbrisl’atteggiamento di ostinata e titanica sopravvalutazione delle proprie forze.

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Un pensiero su “DIECI DOMANDE SULLA VERITÀ di Alétheia”

  1. Anonimo dice:

    Interessantissima l'intervista. Ottimo il manifesto di questa associazione in cui mi ritrovo pressoché in toto.

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