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LIBERARSI DAL NEOLIBERISMO di Enrico Gatto

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[ 22 gennaio 2019 ]

«Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi». [George Orwell, 1984]».

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Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo- finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio- politico-economiche e poiché costituisce quello che viene definito Pensiero Unico (che sostiene il primato dell’economia sulla politica).

In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un’inscindibile ideologia politica) all’origine di tutti i nostri problemi e, semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere di classe da parte della “classe dominante” (risalente già agli anni venti del novecento ma iniziato ad attuarsi negli anni settanta); è la reazione delle élite che tanto avevano perso in termini di potere e di ricchezza nell’età contemporanea e soprattutto nei “trenta gloriosi” successivi al secondo dopoguerra (quando le costituzioni “socialiste” associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie, tanto che nello studio Crisi della Democrazia del 1975 commissionato dalla Trilaterale si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso “eccesso di democrazia” da risolvere anche con l’introduzione di tecnocrazie).

Friedrich A. Vov Hayek

Quindi, partendo dalle teorie di Von Hayek e con la Scuola di Chicago di Friedman, andò imponendosi in campo accademico questo nuovo pensiero (grazie, tra le tante, alla influente Mount Pelerin Society fondata già nel 1947 da Hayek con l’intento di aggregare varie personalità del mondo intellettuale al fine di ridiscutere il liberalismo classico della mano invisibile di Adam Smith). Essi contestarono il compromesso keynesiano del liberismo espansivo con intervento statale (l’embedded liberalism della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza) e suggerirono di passare alla deregulation, a politiche di tagli alla spesa sociale, alle privatizzazioni (degli utili e socializzazione delle perdite), alla finanziarizzazione dell’economia, al monetarismo, all’austerità, alla deificazione del Mercato e quindi alla definitiva sottomissione dello Stato e della Politica agli interessi economici dei potentati privati. Il tutto andò in porto grazie alla diffusione a reti unificate del nuovo credo tramite le “categorie previane” del circo mediatico, del clero giornalistico ed accademico e del ceto intellettuale (che, con la sintassi di Bourdieu, è da sempre il gruppo dominato della classe dominante). Si iniziò dal “test pilota” dopo il golpe di Pinochet in Cile del ’73 e, poi, nei primi ’80, dai governi occidentali di Thatcher, Regan, Mitterrand e Kohl per arrivare al capolavoro degli arbitrari parametri di Maastricht (fulcro dell’ordoliberismo) e della moneta unica europea a cambio fisso con banca centrale indipendente (e, sostanzialmente, privata). Fin da allora la distribuzione di ricchezza avrà un’inversione di tendenza ed andrà concentrandosi sempre più nelle mani di quella che è di fatto un’oligarchia finanziaria che non fa che portare avanti programmi a proprio vantaggio e a detrimento dei popoli (vedasi dati oggettivi sulla sperequazione crescente).

Ciò che si è riassunto in poche righe va contestualizzato all’epoca ed è “solo” la lotta di classe dopo la lotta di classe (Gallino) ovvero la ribellione delle élite (Lash); è l’operato di un gruppo, dell’1%, che fa i propri interessi a spese di un altro, quello del 99% (come è lecito, anche se non etico). Il problema è stata la mancata risposta delle “classi subalterne” e dei loro rappresentanti (politici e sindacali) che non hanno saputo interpretare e comprendere i fatti e tendono a non vederli o capirli tuttora (alcuni “stupidamente”, altri in malafede, sia a sinistra che a destra con l’esaurimento della storica dicotomia).


Bisogna liberarsi dei mantra che abbiamo introiettato: quelli del There Is No Alternative (Thatcher), dell’ineluttabile fine della storia (Fukuyama) e del “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”; in realtà tutto è frutto di scelte politiche ed economiche deliberate e pianificate, il sistema socio-economico nel quale viviamo non è un fatto naturale ed irriformabile e, in quanto tale, non è necessario subirlo, basta pensare ed agire altrimenti (poiché, parafrasando Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato). Purtroppo però le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti (Marx).

Per giungere ad un cambiamento è necessario arrivare ad una “massa critica” di persone consapevoli che comprendano che è in atto una “guerra” (la mai estinta contrapposizione hegeliana servo-signore) e che si compattino riconoscendo il “nemico” comune da combattere (che personalmente, credo a ragione, ho identificato appunto nel neoliberismo e nelle sue ricadute politiche e sociali). 


Dal sistema economico vigente scaturisce l’onnipervasivo e catechizzante Pensiero Unico nel quale si innervano tutte le esiziali logiche sociali hobbesiane della competizione, dell’homo homini lupus, del mors tua vita mea, del do ut des, del narcisismo individualista, dell’egoismo, dell’edonismo, del materialismo, del consumismo e della spietatezza di cui è malata la nostra società nichilistica egocentrata le quali ci rendono “schiavi perfetti” poiché il velo di Maya (Schopenhauer) ci rende incapaci di vedere le nostre “pastoie” e, quindi, impossibilitati a liberarcene. 

All’interno di quel coagulo di interessi economici e di valori culturali e morali (il blocco storico di gramsciana memoria) appare chiaro come il pensiero economico egemone abbia influito cambiando la società che, come propugnava la Thatcher, davvero non esiste più, esistono solo gli individui: non più una comunità di animali sociali (Aristotele) ma una massa di homines oeconomici, di imprenditori di sè, di monadi, la cosiddetta modernità liquida di Bauman (prodromici furono i movimenti sessantottini e successivamente, grazie al neoliberismo ed alla sua sovrastruttura, il “politicamente corretto”, l’attenzione è stata sempre più focalizzata sui sacrosanti diritti individuali e civili a spese però di quelli collettivi e sociali).

Perciò, dunque, occorre una rivoluzione culturale che può partire solo da chi ha una propria coscienza infelice (Hegel) rifuggendo dalla crematistica e ritornando all’equilibrio e quindi ai concetti di misura e limite come ci insegnano gli antichi greci (oltre che tornare all’applicazione della Costituzione del 1948).

Rimane un unico ostacolo che Platone conosceva fin da 2400 anni fa: l’eventuale “liberatore” verrà dapprima deriso e finanche ammazzato da quelli in “catene”: è davvero eloquente ed attuale il mito della caverna in cui Platone descrive come una realtà mediata e manipolata viene invece percepita come “verità” dagli sventurati protagonisti che, poiché nati in cattività, non possono immaginare un’esteriorità rispetto alla caverna nella quale sono imprigionati e quindi, non sapendosi schiavi ingannati, tantomeno ambire alla libertà.


* Fonte: ALETHEIA

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