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MOLTO SI DECIDE DALLE PARTI DI HORMUZ di F.S.

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[ lunedì 17 giugno 2019 ]

Al momento non si può escludere nulla su quanto avvenuto nel Golfo dell’Oman. Quel che è certo è che si apre una nuova fase politica e geopolitica nella contesa strategica globale. Qui interessa analizzare l’elemento politico globale in movimento. 

Unico dato di fatto, al momento, è che si avvantaggiano le reciproche fazioni “radicali”; sia lo stato profondo statunitense sempre più stanco dell’approccio geopolitico da manager usato da Trump nelle sue “negoziazioni” bilaterali, sia le correnti interne più patriottiche della repubblica persiana, espressioni delle campagne povere, della piccola borghesia del bazar provinciale e del feudo ahmadinejadista di Mashad, per le quali il deal Rohani Obama fu sin dall’inizio un trattato capestro che avrebbe portato — come ha in effetti portato —acqua al solo mulino dell’imperialismo occidentale sulla pelle del popolo persiano. 


Da tali frazioni l’accordo di Vienna del 14 luglio 2015 fu paragonato al Trattato di Turkmenchay del 1828, in seguito al quale i zaristi russi portarono via al popolo persiano i propri territori settentrionali. Anche il generale Qasem Soleimani, che non ha mai fatto fronte comune con gli ahmadinejadisti e con il Basiji, ebbe parole durissime per Rohani. 

Avevo già avuto modo di specificare, mesi fa, come fazioni sioniste e neoconservatives considerassero attualmente l’Iran il vero hard front. Ciò, come ho spesso ribadito su
 SOLLEVAZIONE, di contro alla vulgata generale, la contesa globale si disputa nel Mediterraneo e nel Grande Medio Oriente, non nell’Indo-Pacifico.

Nel braccio di mare che separa il Golfo Persico dal Golfo dell’Oman passa ben oltre un quinto delle forniture petrolifere mondiali. Nel 2016, 19 milioni di barili di petrolio sono passati in questo braccio di mare ogni singolo giorno. Il punto più stretto è largo 33 km, ma le autostrade del mare dove passano le petroliere sono larghe circa 3 km. Chiudendo lo stretto, l’Iran alzerebbe i prezzi del petrolio mettendo in ginocchio, con esiti di difficile previsione, l’intera economia occidentale. Il generale Mohammad Bagheri, in occasione della ricorrenza della “Liberazione di Khorramshar” (24 maggio 1982), nel giorno del sacrificio, della resistenza, della vittoria, ha evocato come immediato un simile scenario di fronte ad un’aggressione occidentale all’Iran. 

«Se i sionisti non permetteranno al nostro petrolio di esser consegnato attraverso lo Stretto di Hormuz, nemmeno quello delle altre nazioni passerà», ha detto l’alto ufficiale all’agenzia Isna. Notizia molto importante, contemporanea a quella verificatasi nel Golfo dell’Oman, è che l’Air force degli Stati Uniti ha condotto con successo il primo test di volo del missile ipersonico AGM 183 A. La velocità del sistema ipersonico assegna al B-52 H/J Stratofortress, piattaforma del nuovo missile ipersonico, la capacità di lanciare oltre il raggio delle difese aeree nemiche. Questo, in sostanza, significa che grazie ad una capacità di carico utile non convenzionale è garantito un volume di fuoco maggiore sulle lunghe distanze, rispetto a quelli garantiti sino ad ora. Non è un fatto secondario, è un elemento che va considerato per avere un quadro chiaro, ma andrebbero infine considerati altri due fattori, prima di tirare le somme. Il primo è che la Cina, che si è sostanzialmente disinteressata del conflitto siriano, non farebbe altrettanto qualora venisse aggredito l’Iran, essendo il principale acquirente di petrolio iraniano, di cui necessita più di ogni altra cosa. Il secondo è che il tandem Stati Uniti Israele, al di là della guerra interna di bande e fazioni alla quale assistiamo, esercita ancora un concreto dominio strategico sia sul Medio Oriente sia sul Mediterraneo. 

Chi domina tende a conservare. Chi è dominato tende a sovvertire e a guerreggiare. 


L’arsenale termonucleare di Tel Aviv è stimato ufficiosamente sul centinaio di testate, paragonabile a quello pakistano e indiano. L’arsenale sionista è supportato da una completa triade per il suo utilizzo: missilistica, con i missili Jericho III a lunga gittata, grazie alla cooperazione con la Dassault francese; aerea, grazie alla collaborazione con l’aviazione statunitense; marittima, con i missili Cruise montati su sommergibili di produzione tedesca. Siamo perciò di fronte ad un arsenale che evoca la classica capacità di “secondo colpo” se i primi colpi andassero in fumo. Il deterrente nucleare, per il Sionismo, con il monopolio nell’area, equivale ad una rendita strategica tramite la quale ha impostato ed imposto la sua relazione speciale con Washington: l’ordine regionale del Vicino Oriente si fonda infatti, tra gli altri elementi, che vedono comunque Israele sempre in posizione di supremazia, sul cosiddetto “squilibrio nucleare”. L’attestazione della dimensione nucleare di altri Stati regionali finirebbe per neutralizzare il peso specifico di Tel Aviv. Questo fu il capolavoro geopolitico della “Operazione Sansone”, originariamente sostenuta proprio dalla Francia atomica di De Gaulle, ma non dagli Usa, in quanto i sionisti non si erano ancora purificati dal primordiale legame stretto con lo Stalinismo russo. 

“Operazione Sansone” indicava appunto l’approdo alla soglia nucleare conquistato nel concetto e nella prassi di grigia opacità (in ebraico amimut) sfruttando le divergenze tattiche della contesa inter-imperialista dell’epoca, quella sovietico-americana. Con l’ “operazione Sansone” gli israeliani giunsero velocemente allo status di super-potenza compiendo un “balzo in avanti” di cui si ritroveranno a godere a lungo i frutti tattici. La Francia gollista entrava nel club nucleare nel 1962; Israele vi entrò invece nel maggio 1967, con l’assemblaggio di almeno cinque ordigni. La Francia ha perso, nel frattempo, il proprio peso politico globale, Israele lo ha addirittura accentuato.

La trazione radicalmente ed assolutamente mediterranea del sionismo quale stato di guerra permanente fa sì che la relazione speciale con gli Usa, chiunque si trovi alla Casa Bianca, non venga messa in discussione. Almeno nell’immediato. 

La sconfitta siriana di Usa e Israele, un pericoloso campanello d’allarme o una spia rimasta accesa, non ha però per ora arrestato o sovvertito l’ingranaggio generale. I generali persiani, pur consapevoli che intimamente sionisti e americanisti sanno bene che ipotesi di aggressione anti-persiana o di regime change potrebbero condurre ad un generale incendio del Vicino Oriente, che svantaggerebbe, con effetti non prevedibili, in primo luogo proprio Israele, nondimeno sono pronti ad una eventuale aggressione imperialista, sulla quale da decenni si sono ben concentrati.


Tirando le somme, va perciò considerato che l’arretramento politico è quello del modello di Repubblica islamica retto dalla grande borghesia nazionale di Tehran, storicamente cresciuta a braccetto con la corrente moderata di Rafsanjani, nella doppia presidenza di Mohammad Khatami, dal 1997 al 2005, grande borghesia che è ora massimo sponsor del Presidente Hassan Rohani. A fianco di Rohani, vi sono le tradizionali forze della “sinistra khomeinista”, già vicine all’Onda Verde anti-Ahmadinejad, manifestazione anche questa delle frazioni dell’alta e media borghesia urbana. Per tale frazione di “sinistra moderata” l’avviata liberalizzazione economica e la pur moderata incentivazione alle privatizzazioni, che hanno prodotto negli ultimi anni il disastro sociale per la maggioranza dei persiani, si dovrebbe addirittura accompagnare alla liberalizzazione politica. 

Nella logica interna della repubblica persiana, è perciò in ballo non solo “un nuovo contratto sociale” con lo Stato da parte di milioni di contadini e di piccoli borghesi urbani impoveriti dalla nuova politica economica della “sinistra riformista” ma anche il modello di Stato politico. Il modello imperiale “neo-persiano” di Ahmadinejad, una democrazia sociale, plebiscitaria, che concretizzò l’interventismo statale a favore dei ceti a basso e medio reddito e degli emarginati, dei “calpestati” (mostafazin) e che seppe puntare ad una redistribuzione del reddito nazionale tanto dalle classi proprietarie e privilegiate, come dal vasto apparato burocratico iraniano, ai mostafazin ed ai piccolo-borghesi metropolitani e provinciali, è quello che milioni e milioni di persiani, che identificano nazionalismo imperiale persiano e Sciismo di stato, apertamente auspicano di nuovo. Sia da sindaco di Tehran, sia da presidente, Ahmadinejad era solito mandare i bulldozer delle società del Sepah-e-Pasdaran nei quartieri popolari per riassestare le strade, ignorando invece le buche nei quartieri della grande borghesia della zona settentrionale di Tehran. Tuttora, Mahmoud Ahmadinejad è il politico persiano più disprezzato ed avversato dalla grande borghesia iraniana, ma assai ammirato dai piccoli commercianti e dai contadini, un po’, volendo azzardare un paragone storico, come nel caso di Evita Peròn, la quale, appena morta, fu ricordata da borghesi e massoni al ritmo di musica jazz e costose bottiglie di champagne stappate. Storica fu inoltre, per quanto, almeno in base a ciò che si disse a bassa voce, avversata dall’élite strategica vicina alla Guida Suprema, la decisione della frazione Ahmadinejad di diffondere la Carta Geopolitica dell’Impero Persiano; il disegno politico concreto consisteva nella volontà di unificazione continentale dei popoli di lingua persiana sino all’Afghanistan, passando per il Tagikistan e l’Uzbekistan. 

Il nodo strategico del Vicino Orientale è dunque strettamente connesso alla dialettica interna che esprime non solo il Governo o lo stato profondo degli USA ma anche quello persiano. Giustizia sociale e antimperialismo marciano perciò di pari passo; usciamo infatti da un decennio di autentico totalitarismo globale fondato sul liberismo imperialista o subimperialista, che ha pesantemente condizionato anche la vita politica e sociale persiana. E’ con l’ascesa di Xi Jinping e la messa in moto di un Confucianesimo sociale di stato che tutto si sta velocemente ridisegnando. 

E’ evidente che un eventuale attacco imperialista alla Persia, anche qualora fosse solamente simbolico, mosso dal semplice fine di umiliare il popolo iraniano per avvertire di non superare la linea rossa rappresentata dalla soglia nucleare, condurrebbe alla unitaria e comune sollevazione anti-occidentale e antisionista di nazionalisti e neo-imperiali persiani seguaci di Ahmadinejad da un lato — che per lo più possiamo identificare con il prototipo dei giovani poveri delle campagne e delle periferie o con il ceto del bazar della provincia —, e degli islamici moderati della grande e media borghesia urbana dall’altro — i maggiori avversari della frazione Ahmadinejad. Che potrebbero ritrovarsi, ove prevalesse la frazione sionista e neocon, dunque la linea dell’attacco imperialista alla Persia, nel medesimo fronte degli ahmadinejadisti sociali. Che prevalga però la linea bellicista sionista, se non è da escludere, non è affatto certo.

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