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GUERRA MODERNA E UTOPISMO TECNOLOGICO di F.S.

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[ giovedì 4 luglio 2019 ]

Sean McFate è un ricercatore di sicurezza in Africa e docente di teoria militare alla Georgetown University. In The Modern Mercenary (2017) fornisce un chiaro scenario sull’industria degli eserciti privati e mercenari che la maggior parte degli analisti definisce “molto inquietante”. 


L’autore, che fu paracadutista dell’esercito Usa e appaltatore militare nel settore privato per la compagnia militare DynCop, offre un’analisi che ci invita a riflettere su una forma “neomedievale” di guerra moderna. Le società di sicurezza private stanno emergendo

ovunque, la Cina schiera i contractors a guardia della Via della Seta, la Russia disporrebbe del temibilissimo Moran (Gruppo Wagner) fondato dal leggendario Dmitriy V. Utkin, che

secondo molti studiosi nemmeno esisterebbe concretamente ma sarebbe una invenzione della propaganda imperialista statunitense, un po’ come le fakes sugli hackers russi e Trump.

McFate porta un esempio che conosce direttamente, quello della Liberia.


La Liberia, paese ricchissimo di materie prime, fu devastata — in seguito al ritorno in patria di Charles Taylor, fuggito da un carcere americano con la complicità, a quanto pare, della Cia, poi arruolato da Gheddafi — da una serie di guerre civili che portarono il paese al disastro. Nel 1975 il reddito procapite liberiano superava quello egiziano ed era quasi il doppio di quello indiano, nel 2003 la Liberia era il paese più povero dell’Africa. Nel 2005, la Firestone Natural Rubber Company investiva in Liberia più di 103,75 milioni di dollari ufficialmente con il fine di migliorare le condizioni del paese; solo due società, la Dyson Corp e la Pacific Architets and Engineers furono chiamate a presentare offerte per riorganizzare le forze armate liberiane sotto la supervisione del dipartimento di stato americano. 


Lo studio di McFate sui mercenari si completa con il fondamentale saggio pubblicato di recente: The new Rules of War, grazie al quale si è guadagnato, da parte dell’ex capo del Comando Nato Jim Stavridis, il nome di “nuovo Sun Tzu”. McFate è un machiavellico e un realista politico, ovvero nega che sia in corso una mutazione antropologica e ridicolizza gli utopisti tecnologici, che citano senza soluzione di continuità l’avvento delle “guerre tecnologiche” o delle “cyberguerre”. L’autore sostiene che sì, la guerra convenzionale è morta per sempre, ma non per lasciare il passo alla cyberguerra, che conta solo sino a un certo punto, bensì alla “guerra ombra” (Shadow War), la guerra non dichiarata come tale, uno stato di guerra permanente che non solo vedrà emergere sempre più insurrezioni che potranno trasformare improvvisamente i vari quadri sociali consolidati e vedrà l’affermazione di nuovi tipi di potenze mondiali, ma finirà per insegnare che la vittoria non sarà mai definitiva e stabilizzata. 

Altra perla nella visione di McFate è che le migliori armi non saranno quelle visibili o quelle che sparano meglio o quelle di ultimissima generazione, ma quelle che marceranno a lato di un pensiero politico strategico che possegga il segreto della tattica operativa, segreto che pare essere dimenticato dalle nuove generazioni di politici e militari. Il mondo, in preda alla furia del dileguare e assolutamente non stabile che l’autore prevede, richiederà sempre più questo pensiero politico capace di declinare una visione con una tattica quotidiana e realistica; non a caso, gli Stati Uniti hanno praticamente perso tutte le guerre imperialiste che hanno combattuto dopo il 1945 in quanto continuano a guerreggiare basandosi sul prototipo, ormai superato, della Seconda Guerra mondiale. Unica eccezione, a fronte di tale sequela di sconfitte tattiche statunitensi, fu, almeno a mio avviso (non vi è stranamente infatti segnalazione del fatto in McFate), l’aggressione armata al popolo serbo compiuta dalla frazione Clinton nel corso degli interi anni ’90 dello scorso secolo. 

Come si ricorderà, fu prima portata alla ragione a suon di bombardamenti la piccola Repubblica Serba di Bosnia nella prima metà degli anni ’90, poi venne il turno di Belgrado nel ’99 a causa della vicenda del Kosovo. A cosa fu dovuta questa eccezione?

Probabilmente all’applicazione, nel caso serbo, di un modello strategico tardo bizantino da parte della politica strategica americana. Luttwak, nella Grande strategia dell’impero bizantino, comprese che le alte gerarchie dell’Impero Romano d’Oriente, seppur tardivamente, superando l’insegnamento di Vegezio puntarono ad imporre il principio geopolitico che non si può sconfiggere un nemico semplicemente abbattendolo. Ciò non solo richiederebbe una dissipazione eccezionale di energie di ogni tipo, ma quasi mai condurrebbe al risultato politico che si auspica. 


Di conseguenza, senza esser ascoltato, Luttwak propose nel 2010 al Pentagono ed alla Casa Bianca clintoniana guidata da Obama il modello geopolitico e geostrategico di Bisanzio. Nel contesto jugoslavo, gli Usa finirono viceversa per appoggiarsi a livello tellurico soprattutto sull’armata jihadista islamica, supportata logisticamente dall’oligarchia imperialista clintoniana; i jihadisti non sconfissero militarmente l’esercito jugoslavo, ma furono un esempio di entità extra-statale e forse pure non convenzionale (come la definirebbe McFate) che preparò, per quanto indirettamente, il terreno politico al governo di occupazione Nato che avrebbe messo fuori gioco Slobodan Milosevic e il Partito Socialista Serbo. I vari Minic, Dindìc come il DOS di Kostunica, non erano classificabili, nel corso della guerra, come agenti strategici jugoslavi della frazione Clinton. Tutt’altro. Fu la pressione politica globale scagliata contro Belgrado, associata alla reiterata logica di sanzioni e provocazioni sociali ed economiche, a giocare un ruolo anche in quel caso decisivo. 

La storia della “guerre jugoslave” merita a nostro avviso di essere ancora analizzata e studiata a fondo, in quanto i serbi si ritrovarono sconfitti politicamente pur avendo trionfato in tutte le battaglie militari (Kosovo compreso). Fu e rimane perciò un caso da manuale di guerra militare e politica. Quanto agli Usa, nei casi successivi, in particolare nel Vicino Oriente dagli anni del 2000, il fallimento strategico della “Dottrina Wolfowitz” è parso evidente. E’ stato, non tanto un fallimento militare, quanto appunto politico e tattico. La Siria come la solida resistenza del fronte bolivariano in Venezuela, ben mostrano attualmente che la superpotenza in teoria più evoluta e ipermoderna, quella americana, si sta rivelando in concreto quella politicamente più ferma in un impasse strategico, soprattutto di fronte ai russi che paiono aver ripreso a fare “grande politica” risvegliandosi finalmente sul piano globale. Ciò conferma pienamente quanto sostiene McFate.


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