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TRA SCILLA E CARIDDI di Alessandro Visalli

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Alessandro Visalli è un esponente di NUOVA DIREZIONE. Giorni addietro il gruppo ha svolto la sua assemblea costitutiva. Pubblichiamo l’ultima parte del contributo di Alessandro Visalli.  La versione integrale la trovate QUI. Visalli svolge un’analisi che ampiamente condividiamo. Torneremo quanto prima sulla questione per segnalare quelli che ci paiono alcuni punti critici.

Siamo dunque qui

Podemos è tornato al governo in Spagna, ma avendo perso per strada buona parte della spinta valoriale ed elettorale antagonista, ormai prigioniero e subalterno al partito dell’establishment e dell’europeismo. Ancora peggio, Insoumise, che ha scelto la “linea Autain”[1][17] rifugiandosi nell’Ile-de-France nell’insediamento storico della sinistra, è tornato a livelli elettorali da sinistra radicale. Corbyn ha perso in Gran Bretagna per non aver avuto la forza di scegliere tra Scilla e Cariddi, restando con l’impressione di irresolutezza e confusione, unendo un programma
economico fortissimo ma nessun mezzo per attuarlo.
Il M5S, la forma ‘neopopulista’ più pura, naviga alla metà dei consensi raggiunti nel 2018 ed è
stato stritolato dalla doppia esperienza del governo “gialloverde” e “biancogiallo”.

 

Sembra quindi che dopo la tempesta 2016-18 sia in corso un ritorno alla politica ordinaria in Spagna, con il nuovo governo Sanchez, in Italia, con il Pd nuovamente in sella, in Francia, con un Macron sfidato dalle piazze ma saldo al potere, in Germania, dove ancora regge l’arco dei partiti sistemici, con il soccorso dei Grunen.

Quella che siamo abituati a chiamare “bipolarismo”.Nella quale, precisamente, si sfidano due versioni diverse del neoliberismo:

– da una parte il “neoliberismo progressista”, che unisce politiche economiche austeriane e regressive a politiche identitarie volte a valorizzare mobilità, modernizzazione, multiculturalismo e merito individuale;

– dall’altra un “neoliberismo difensivo e nazionalista” di nuovo conio, che unisce le identiche politiche, spostando in parte i beneficiari, a politiche identitarie che vivono di identificazione dell’altro come nemico, deviazione della rabbia, drastica semplificazione dei meccanismi.

C’è bisogno di altro

Bisogna rompere la gabbia del bipolarismo e tornare a chiedere un autentico cambiamento. E’ necessario aggregare un “terzo polo”, che sia alternativo a quel che si formerà tra Pd e frazioni del M5S, e quel che si è formato come nuovo centrodestra tra Lega, FI e FdI. Bisogna lavorare all’unificazione di un blocco sociale capace di reale cambiamento nel paese. Un blocco che sia fondato sull’autentica maggioranza del paese, che sia capace di aggregare una larga coalizione sociale da Nord a Sud, rispondendo alle diverse esigenze delle sue aree culturali ed economiche. Capace di parlare con i neo-proletari della new economy, i professionisti in via di “uberizzazione”, i lavoratori autonomi sfruttati e marginali, i pensionati a basso reddito e negletti, la parte ancora reattiva del proletariato e sottoproletariato urbano. Al contempo capace di attrarre a sé i segmenti di piccola borghesia operanti sul mercato interno, il ceto impiegatizio pubblico, e parte dei ceti medi riflessivi, staccandoli dall’egemonia esercitata dalla borghesia cosmopolita e dal settore dedito alle esportazioni. Solo se riusciremo a determinare questa larga alleanza avremo la forza per modificare la traiettoria che sta portando il paese e l’intero mondo occidentale verso l’esaurimento del suo modello di produzione e sviluppo. Una traiettoria che ci designa come vittime e nuova periferia interna, al fine di consentire al centro metropolitano ulteriore crescita e stabilizzazione. Ci designa come classe e come paese.

Il ‘soggetto’ di questa trasformazione non può più essere unilateralmente una frazione qualificata della società. Non può esserlo la vecchia classe operaia ormai frammentata e dispersa; né possono esserlo le “classi riflessive” della nuova economia della conoscenza, spesso in prima fila per la conservazione dei loro declinanti, piccoli, privilegi; né non meglio precisate “moltitudini”, con il loro rifiuto di porre la questione del potere; né le “donne”, quasi fossero una classe a sé stante.

Il blocco sociale capace di riaprire il futuro può solo essere una rete contingente di soggetti sociali, sensibili alle diseguaglianze orizzontali e verticali, tra periferie e centri. Quest’aggregazione contingente deve prendere le mosse dai danni creati dallo sviluppo unilaterale della valorizzazione capitalistica, dai luoghi dove le condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi non gode di posizioni privilegiate. È qui che nasce la resistenza da cui partire.

Il punto diventa quindi costruire linee oppositive al capitalismo che passino innanzitutto per i differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. È la divaricazione tra i ‘vincenti’ – che riescono a fare il proprio prezzo e si muovono nei centri geografici funzionali al sistema – e i ‘perdenti’, che il
prezzo lo subiscono e stazionano in area periferica – a definire il campo della lotta di classe per un socialismo del XXI secolo[2][18]. L’unica forza che può avviare una transizione.

Ma per riuscirvi abbiamo bisogno di un diverso pensiero

L’idea che il discorso politico sia autosufficiente, e che si tratti di costruire su ‘faglie di antagonismo’ esistenti, aggregando le forze eterogenee tramite discorsi emozionali si è dimostrata potente ma ha i suoi limiti. Quella che si possano rendere equivalenti posizioni sociali e radicamenti differenti facendo di diverse soggettività un “popolo” politico costruito dal discorso è un’idea effimera che è stata vista fallire in questi ultimi anni. Chi cavalca la “tigre della sorveglianza” corre i suoi rischi perché procede velocemente, aggregando emozioni e manovrando tatticamente, ma non è capace di creare una linea politica coerente. Di resistere in essa alle inevitabili pressioni e defezioni.

In altre parole, creare strutture verticistiche senza strategia, tenute unite da obiettivi disparati e soggettività spesso narcisistiche è sempre a rischio di immediata revoca di fiducia per il sospetto di inautenticità. La strategia tutta “testa e comunicazione” va fatalmente in crisi nel momento in cui, crescendo, deve passare alla produzione di potere.

Dunque per superare la crisi bisogna capire una cosa essenziale: che si è chiamati a produrre potere per cambiare il modo di produzione capitalista che ci sta stritolando. Le tensioni politiche che si scaricano nelle forze ‘populiste’, siano esse orientate a destra o a sinistra, non sono effetto dell’abile scelta di alcuni “significanti”. Al contrario: la produzione delle idee, le rappresentazioni che riescono a dominare la scena pubblica, sono intrecciate con le attività materiali nelle quali i soggetti che si attivano politicamente sono impegnati, come scriveva Marx “l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita”.

La biforcazione

Noi siamo quindi ad un punto di biforcazione. Dobbiamo scegliere tra:
1-      l’aspirazione alla riconquista storico-politica dei ceti popolari e subalterni, contendendo
l’egemonia alla destra sul campo largo.
2-      La rassegnazione alla gestione della sconfitta e alla difesa delle residue aree di consenso
marginali (delle zone ZTL) che possono essere mobilitate solo su temi morali.
Se scegliamo la prima abbiamo bisogno di due cose:

1-      una lotta spietata al settarismo ed al narcisismo, ovvero alla tentazione di reagire ad una fase di dolorosa confusione con il rinserrarsi nelle vecchie identità sfidate

2-      la ferma decisione che la lunga ritirata, prodotta dalla crisi degli anni settanta e dall’insorgenza dell’uomo narcisista e post-materialista è finita.

Quando la lunga ritirata termina, perché ne terminano le ragioni, allora bisogna dismettere tutti gli strumenti che abbiamo tenuto in campo ed usato per gestirla.

In particola la prima cosa da abbandonare è l’idea che all’impolitico neoliberale non c’è alternativa, ma ci si può solo adattare, perché è la forma definitiva dell’umano.

Il “primopopulismo” è stato questo, un adattamento, e la fase “neopopulista” che ora è entrata in crisi non ha compreso che doveva essere radicalmente discontinua.

Ma l’umano non termina di modificarsi, come la storia, cambia sempre insieme alle condizioni materiali ed alle forme del sociale che vi sono relazionate. Dunque sta nuovamente per cambiare.

Cosa significa dunque passare tra Scilla e Cariddi?

Tre cose:

Oltrepassare l’impolitico neoliberale e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma. Porre con coraggio e coerenza la questione della trasformazione dell’esistente e della creazione di un nuovo mondo. Andare al cuore dei problemi, dimenticare le tattiche ‘intersezionali’ volte a sommare narcisismi inconciliabili, andare oltre la vaghezza, il rifiuto della denominazione di un livello strutturale dello scontro. Accettare la polarizzazione e stare da una parte.

Dimenticare la strategia tutta “testa e comunicazione” del primopopulismo, in ogni sua versione. Creare le condizioni per forme nuovamente solide, imperniate su un nuovo attivismo che faccia leva sulle reti di comunicazione diffuse e sulla vicinanza dei corpi. Sulle mobilitazioni politiche di prossimità, su coesione “simpatia” e mutuo sostegno. Sulla creazione di una cultura comune e condivisa.

Rigettare l’odore di sconfitta della sinistra, radicale e non. Tutta la sinistra è attardata inconsapevolmente in pratiche adattive per una società che già non c’è più. Per paura resta abbarbicata ad una “base sociale” ristretta, che ripiega costantemente, ed ormai ha perso anche molta parte della sua “base di massa”. Ne è immagine la postura della radicalità come voce morale inflessibile che fustiga i potenti e si trincera entro gli indicatori di purezza e superiorità del discorso “politicamente corretto”. Tre bastioni individuano questa cittadella assediata: il cosmopolitismo, la retorica dei diritti e delle minoranze, ed il tono morale con il quale sistematicamente interviene.

Per far crescere questa possibilità bisogna ricominciare a fare Grande Politica, a creare quadri di senso e progetti di liberazione del paese che si confrontino con la dura realtà delle cose. Svolgere analisi concrete delle situazioni concrete e non rifugiarsi nelle “frasi rivoluzionarie”, o nelle
tecniche ‘primopopuliste’ che presupponevano un mondo che sta venendo meno.

Quel che sta accadendo è che, revocato il ‘compromesso keynesiano’ ed esplose nuovamente le contraddizioni che teneva a freno, si torna alla durezza.

Bisogna combattere quindi in modo determinato la guerra egemonica, piazzaforte per piazzaforte, ma tornando a capire la politica come lotta tra posizioni strutturali di interessi, resi tali dal modo di produzione e dalla collocazione spaziale.

In questa guerra servono alleati di ogni genere, ma la questione dirimente è quale gruppo sociale esercita la direzione intellettuale e morale. La condizione necessaria per cambiare le cose e accedere alla forza per cambiarle è infatti di esercitare questa direzione; di creare con la necessaria pazienza e lena un blocco sociale del cambiamento che si incunei tra i due poli neoliberali.

Farlo con tutti coloro che vogliono davvero cambiare direzione, e non solo spalla al fucile.
Questo è il nostro compito.
NOTE

[1][17]
– Mi riferisco allo scontro simbolico tra due importanti esponenti della France Insoumise, Djordje Kuzmanovic, poi uscito dal movimento, e Clémentine Autain. Si veda “Scontri in France Insoumise”.
[2][18]
– Si veda anche “Partito e classe. Dopo la fine della sinistra”.

Un pensiero su “TRA SCILLA E CARIDDI di Alessandro Visalli”

  1. Anonimo dice:

    Perche' non ci ritroviamo con i compagni di nuova direzione? Noi siamo usciti trppo presto da eurostop, loro troppo tardi. Dovevamo usire insieme e creare il nucleo del partito della sinistra patriottica. La chimera di Fassina ha fatto il resto. Questa "rissosita' nel nostro campo mi ricorda le nefaste divergenze tra i gruppetti troskisti. Basta con queste inutili quisquilie, uniamoci una buona volta senza pregiudizi, abbiamo un futuro da conquistare.

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