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LA QUARANTENA E’ UN TEST SOCIALE di Paolo Becchi

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La politica ha oggi anche a che fare con la vita degli individui, la “nuda vita” in senso biologico. È un fatto risaputo, almeno da quando essa si è fatta “biopolitica”, ossia – secondo il significato che tale espressione ha ricevuto dalle analisi di Michel Foucault – potere che pone quale oggetto della sua regolamentazione, delle sue discipline, la vita delle persone. Non sempre è stato così. Soltanto, infatti, a partire dalla metà del XVIII secolo il potere politico ha cominciato ad occuparsi, ritenendolo un proprio problema, di questioni legate ai processi biologici che riguardano gli individui: la nascita, la durata della vita, la mortalità, lo stato di salute del “corpo” sociale, e così via. In questo senso il potere politico si è definito attraverso tutta una nuova serie di interventi e di controlli regolatori sulla popolazione, in relazione a questioni, come quelle ricordate, che, nei secoli precedenti, erano state, in fondo, estranee al campo di azione del “politico”.

Nell’arco di due secoli, sappiamo dove siamo ormai giunti: lo sviluppo tecnico-scientifico e le scoperte della medicina rendono ormai possibile manipolare la vita con un campo di possibilità fino a pochi anni fa impensabili. Ed il potere, il bio-potere, viene perciò chiamato a controllare, regolamentare, decidere dell’inizio e della fine della vita in modi inediti – si pensi all’ingegneria genetica, alla fecondazione assistita o alle tecniche di differimento della morte.

Pochi mesi fa, un virus si è diffuso rapidamente in Cina – per la verità, non si sa bene se per cause del tutto naturali o per possibili intrecci con l’attività di qualche laboratorio biochimico. Non faremo i complottisti. Non ci interessa. Epidemie sono sempre possibili e grazie alla globalizzazione pure le pandemie: la Cina è lontana ma il virus non conosce frontiere e diventa in poco tempo “globale”. La Cina è vicina, dunque, ma non nel senso in cui i vecchi maoisti italiani intendevano.

“Che fare?”, si sarebbe chiesto Lenin. Il paradosso è che, proprio nel momento in cui la politica, nel farsi bio-politica, deve affidarsi alle conoscenze scientifiche, a “saperi” che le sono esterni (medicina, biologia, chimica, etc.), ecco che questi “saperi” si rivelano, inaspettatamente, incapaci di fornire risposte e soluzioni ai problemi. Giornali e televisioni ospitano ogni giorno interventi di scienziati ed esperti che non sono d’accordo su nulla, o quasi, divisi tra chi grida al disastro incombente e chi sostiene che si tratti di una banale influenza. Come ha ricordato pochi giorni fa un comico, l’unica cosa su cui sembrano tutti d’accordo è che bisogna lavarsi le mani frequentemente. E che la soluzione sarebbe un vaccino, ma che ci vorrà del tempo per realizzarlo.

La politica, però, deve agire comunque. E così dopo aver fatto finta che il problema in Italia non esistesse, si è attivata, con dispositivi di “emergenza”: isolamento, chiusura del territorio, quarantena. Dalla sottovalutazione siamo passati all’alimentazione continua del panico. Il passo è stato breve e gli italiani si sono trovati, in ventiquattro ore, ridotti a topi di laboratorio, mentre lo Stato sperimentava su di loro le stesse politiche dello “stato d’eccezione”, applicate in Cina.

Se c’è qualcosa che questa epidemia ci ha già insegnato, non riguarda la medicina, ma la bio-politica: nello “stato d’emergenza”, gli italiani sembrano disposti a concedere tutto quanto richiesto dal potere, rinunciando senza fiatare alle loro libertà. I porti, certo, è meglio continuare a lasciarli aperti, ma lo Stato si sente libero di costringere migliaia di persone a non uscire di casa, di riprendersi i “pieni poteri” sulle Regioni, di incolpare il virus se il paese entra in recessione.

E poi ci sono i paradossi della globalizzazione: migliaia di immigrati clandestini possono liberamente circolare per il Paese, ma gli abitanti di Codogno devono rimanere chiusi, segregati nelle loro abitazioni.
Anche questo in fondo fa parte di questa logica dell’emergenza, del panico provocato dal governo e alimentato dai media: il “nemico” è il tuo vicino di casa che potrebbe infettarti. Sembra che gli italiani siano disposti a rinunciare a tutti i diritti “fondamentali” di cui tanto ci vantiamo tanto – pilastro delle società democratiche occidentali – non appena il governo paventi la “diffusione” del contagio.

Tutto è concesso, pur di non ammalarsi. Persino il diritto alle cure si è trasformato nel dovere di non ammalarsi, perché potresti contagiare gli altri. Certo, non voglio negare questo pericolo, ma c’è proporzione tra quello che stiamo facendo e l’epidemia in corso? I poteri che deleghiamo allo Stato per assicurare la nostra salute si sono progressivamente ampliati secondo una logica “securitaria” che, in casi come questo, mostra in fondo di non avere limiti. Vuoi la sicurezza, e allora isoliamo intere comunità, chiudiamo gli asili, le scuole e le università, i luoghi di lavoro e di svago, le biblioteche, i teatri, gli stadi e persino le Chiese. Il consiglio attuale dei difensori della “società aperta” è: chiudetevi in casa e non uscite sino al prossimo decreto del governo. È pazzesco, a farci cambiare stile di vita non c’è riuscito il terrorismo jihadista ma il virus cinese.

Fin dove il potere politico può spingersi, per assicurare che io non mi ammali? A questa domanda non c’è, ad oggi, una risposta, anche perché nessuno se l’è posta. Al contrario, tutto sembra indurre a pensare che siamo ormai pronti ad accettare che lo Stato si spinga fin dove voglia. Siamo diventati in Europa un laboratorio dove sperimentare, per la prima volta in sistemi democratici, le tecniche biopolitiche dell’emergenza e vedere come il popolo reagisce. E in segno di gratitudine l’UE è anche disposta a farci fare un po’ di deficit.

L’emergenza giustifica misure eccezionali. Ma non sono le misure eccezionali, in fondo, che danno la prova che siamo ancora in una situazione di emergenza, che essa non è mai ancora terminata? Quanto può andare avanti questo circolo? All’infinito, finché governo, giornali e media riusciranno a tenere in allarme la cittadinanza. E ci stanno riuscendo, oggi con messaggi rassicuranti, domani all’opposto con l’elenco crescente dei contagiati e dei morti e così via di seguito, senza fine.

In una città qualsiasi, d’improvviso, si diffonde un’epidemia, tutti col passare del tempo diventano ciechi in un modo peculiare, vedono bianco. È la storia di Cecità, il romanzo di José Saramago. Solo la moglie di un medico risulta immune. Il governo decide di rinchiudere gli infetti in un manicomio allo scopo di evitare il contagio. Ma a poco serve. Perché appunto alla fine tutti, tranne la moglie del dottore, diventano ciechi. Alla fine i ciechi guariscono senza alcuna ragione. L’epidemia se ne va così com’era sopraggiunta. Il medico dialogando con la moglie alla fine si chiede “perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà conoscerne la ragione. Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.

Fonte: paolobecchi.wordpress.com

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