Browse By

A CHE PUNTO SIAMO DELLA STORIA? di Moreno Pasquinelli

993 visite totali, 1 visite odierne

Il principale paradigma della visione dialettica si può racchiudere in questa massima: nulla è perenne se non il cambiamento. Non lo è, evidentemente, nemmeno il capitalismo. Sappiamo però che il capitalismo, rispetto alle formazioni sociali che lo hanno preceduto, si distingue per il suo innato dinamismo, per la sua intrinseca tendenza ad adattarsi alle diverse circostanze, per la sua capacità di superare in avanti anche le crisi più devastanti. Il capitalismo è infatti un organismo mutante, per sua natura condannato a incessante metamorfosi. Le crisi, tanto più se profonde, segnano sempre il passaggio da uno stadio ad un altro.

Il 2020 sarà ricordato come un anno spartiacque tra un periodo e un altro, come data storicamente periodizzante, come la linea che separa il vecchio dal nuovo.

Sappiamo cos’è il vecchio che ci lasciamo alle spalle: il lungo ciclo segnato dal combinato disposto di globalizzazione estrema, neoliberismo e iper-finanziarizzazione. Cosa sarà il nuovo, l’addiveniente, non è dato sapere con certezza. Con certezza sappiamo che la storia non soggiace a nessun principio teleologico per cui essa sarebbe organizzata e procederebbe in vista di un fine (sia esso socialismo o qualsiasi altra cosa si voglia intendere per fine); sia che tale principio dipenda da una volontà provvidenziale esterna alla storia, sia che esso sia concepito come immanente ad essa. Di contro alla concezione meccanicistica del rapporto causa effetto, oggi sappiamo che da una determinata causa possono risultare effetti diversi. Non si tratta solo di “probabilismo”, per cui dall’evento A non si può dedurre come assolutamente certo l’evento B.

La storia sociale non consiste in una successione di eventi indipendenti l’uno dall’altro, è invece un processo, o meglio un processo di processi in cui entrano in gioco variabili molteplici e tutte le parti sono interconnesse l’una all’altra.

Il clinamen epicureo dunque? La vichiana eterogenesi dei fini per cui l’uomo, pur ponendosi finalità date, finisce per trovarsi tra le mani un risultato diverso se non opposto a quello desiderato? O, come direbbe l’empirista Wundt, saremmo condannati, pur agendo in base a precise intenzioni, ad accettare conseguenze non intenzionali? Non proprio così, anzi, così non è quasi mai così. La storia è un campo di battaglia in cui forze diverse e opposte per interessi e visioni del mondo, si combattono per avere il sopravvento. Quale che sia il risultato di questo cozzo, vi sarà sempre un vincente e un perdente, ove chi vince, per quanti siano gli aggiustamenti che sia costretto a compiere strada facendo, imprime alla società tutta intera il suo proprio stigma, il suo indirizzo. In questo senso, ed a maggior ragione nel campo della storia, vale l’enunciato della fisica quantistica per cui, nell’analisi dei fenomeni, non si può prescindere dagli effetti provocati dall’azione dei soggetti sociali e politici.

Ma scendiamo dal cielo della filosofia all’inferno della politica. Usciremo da questa Grande Crisi lasciandoci alla spalle il capitalismo o invece esso riuscirà a venirne fuori? E se ne verrà fuori, che capitalismo avremo?

Contrariamente a quanto sostenuto da Henryk Grossmann, non c’è da attendersi alcun crollo del capitalismo come esito ineluttabile delle sue leggi di movimento. Grossmann, sull’onda del’impatto potente della grande crisi del ‘29, non faceva che riarticolare l’assunto marxiano secondo cui la madre di tutte le contraddizioni del sistema capitalistico (una specie di Urnorm) sarebbe quella tra forze produttive e rapporti di produzione, ove la forza di spinta progressiva delle prime avrebbe finito per spazzare via la camicia di forza delle seconde. Assunto che mi pare si sia rivelato errato alla prova dei fatti. Il capitale, per meglio dire i diversi e concorrenti capitali, non solo non bloccano l’evoluzione delle forze produttive, non possono permetterselo, essendo costretti a svilupparle per cavar fuori profitto dal processo lavorativo, ovvero la loro massima autovalorizzazione.

Per essere precisi chi difende l’idea del crollo del capitalismo lo deduce dalla marxiana legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Si tratta dell’asserto per cui, data la tendenza del capitale ad aumentare la propria composizione organica (il peso del macchinario rispetto a quello del lavoro vivo nel processo di produzione), e dato che solo il lavoro vivo produce plusvalore, il capitale sarebbe destinato all’auto-consunzione. Vera la legge generale, ma lo sono altrettanto le numerose contromisure che il capitale pone in essere per sfuggirvi.

Se ne deve dedurre, storia alla mano, che il capitalismo non è destinato a crollare da solo, ma può solo essere abbattuto da una forza sociale e politica che si organizzi allo scopo. Se questa forza è assente o se è presente ma non ha la potenza necessaria per vincere la battaglia, il capitalismo non solo sopravvive, non solo cambia pelle, come ogni organismo vivente si ricostituisce per adattarsi alle nuove condizioni.

Non si vede come, nel breve periodo, dall’attuale Grande Crisi, se ne possa uscire con… l’uscita dal capitalismo. Tra tutte le condizioni necessarie allo scopo manca infatti la fondamentale: l’esistenza del suo becchino, il soggetto che per scopo si pone l’abbattimento del sistema. Dargli forma, nel senso aristotelico del passaggio dalla potenza all’atto, è appunto il compito dei rivoluzionari.

Rebus sic stantibus, è facile dedurre che il nuovo ordinamento che sorgerà dall’attuale marasma sarà anzitutto il risultato del conflitto interno al campo capitalistico. Uno scontro multiforme la cui risultante dipenderà, pur data la complessità delle circostanze, dall’azione e dalla reazione dei diversi attori in gioco. Evitando di dileguarci in profezie distopiche occorre, come prima mossa teorica, stabilire se dalla attuale crisi se ne esce con una nuova globalizzazione o non piuttosto con la sua fine. Nel primo caso si tratta di pre-vedere quale sarà la potenza e/o il blocco di potenze che ne sortiranno come egemoniche e quelle che invece ne usciranno con le ossa rotte. Nel secondo caso si tratterebbe di capire se prevarrà un caos indistinto o se avremo una stablizzazione multipolare o policentrica.

In ogni caso, al netto di spesso capziose dissertazioni geopolitiche, stiamo entrando in un periodo storico di instabilità e profonde turbolenze mondiali che si trascineranno a lungo. Quale che potrà essere l’esito del parto da cui nascerà il nuovo ordine mondiale, è sicuro che le doglie saranno molto dolorose, che non si passerà dal vecchio al nuovo per mutamenti graduali ma per via di forti rotture.

In questo contesto generale ciò che a noi deve anzitutto interessare, non è, posta l’agonia dell’Unione europea, fermarsi a congetturare su quale sponda geopolitica approderà la malandata nave del nostro Paese. La principale questione per noi, detto che questa crisi scompaginerà la società, è pre-vedere come sarà quella che verrà fuori dal crogiolo di questa Grande Crisi. Per società intendiamo non solo la sua struttura (le classi da cui è composta e le stratificazioni cetuali e funzionali al loro interno), intendiamo anche la sua connessa sovrastruttura statuale, politica, ideologica. Intendiamo infine tenere in considerazione i condizionamenti che risultano dalla sue vicende storiche, sul cui solco tutti gli attori sono costretti ad agire.

Quello della pandemia non è solo un “intervallo”, esso lascerà una traccia profonda. Le risposte fornite dai governi della più diversa specie, convergono tutte in un punto: l’uso dell’emergenza sanitaria si è spinto spesso fino allo Stato d’eccezione: i governi, alimentando maldestramente il senso di paura, hanno assunto poteri straordinari. In molti casi quote di libertà sociali e civili sono state sacrificate sull’altare della sicurezza. In molti casi lo sforzo di disciplinamento e addomesticamento sociale è andato a buon fine. Le classi dirigenti hanno sperimentato una modalità per sopperire alla cronica crisi d’egemonia. Non ci rinunceranno in futuro. Si preparano anzi a reiterarne l’utilizzo ricorrendo alle più diaboliche tecniche di spionaggio e controllo elettronico. Tutto sta a vedere se il gioco funzionerà in futuro. Impedirlo dovrebbe essere il compito di chiunque si consideri, non diciamo rivoluzionario, non diciamo ribelle, diciamo anche solo riformista — visto che una volta accettato il fatto dell’emergenza c’è spazio solo per inseguire pulsioni sicuritarie e reazionarie.

Un gioco che, siamo pronti a scommettere, difficilmente funzionerà. La società che viene oggi colpita da una recessione, che potrebbe essere più grave di quella scatenata dalla crisi finanziaria del ‘29, era già segnata dalle profonde diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione neoliberista. Il vecchio e combattivo proletariato è stato rimpiazzato da un ectoplasma sociale precario, privo di forma, di coscienza di sé, di coesione  Si trattava di un processo inconfessato di riproletarizzazione sociale che con un sofisma post-moderno è stato chiamato “il poliverso dei perdenti della globalizzazione”, o i “non garantiti”, gli “esclusi”. Di qui i fenomeni populistici che hanno dato voce a quelli che “stavano sotto contro quelli che stavano sopra”, al “basso contro l’alto”. “Il popolo contro l’élite”. L’abbiamo sempre detto e lo ripetiamo: dopo decenni di lotta di classe dall’alto, si trattava, malgrado la forma storpia con cui si manifestava, di una forma primordiale e incosciente di lotta di classe dal basso.

La profonda e duratura recessione è destinata non solo a produrre strappi e accelerazioni. Essa accentuerà le diseguaglianze sociali, produrrà ulteriori mutazioni all’interno di quello che abbiamo chiamato “popolo lavoratore”. La crisi causerà un primo mutamento: il passaggio dalla riproletarizzazione al pauperismo. Non basta. Come nel fenomeno chimico della precipitazione, (in cui l’addensazione dei cristalli produce un precipitato), la crisi depositerà in basso un esercito di dannati provenienti da ogni angolo della società. Avremo nuove linee divisive tra inclusi ed esclusi, tra integrati e disintegrati. Avremo, per citare Primo Levi, “i sommersi ed i salvati”. I “salvati”, li riconosceremo non solo dal loro reddito o dalla loro funzione sociale, ma dalla maniera in cui essi si rifiuteranno di finire tra i “sommersi”. Sono quelli che potranno accontentarsi delle briciole che cadranno dalla tavola del capitale fungendo così da suo supporto sociale. D’altra parte verrà fuori una massa di scarti sociali che rifiuterà di essere sacrificata, che pur di non finire tra i “sommersi”, tenderà a ribellarsi. Questa massa è per sua natura bipolare: potrebbe agire come forza motrice di un blocco sociale rivoluzionario e anticapitalista o come carburante per avventure reazionarie e oscurantiste. Non può fungere da forza motrice spontaneamente, per farlo ha bisogno di una testa, di una direzione politica che convogli questa energia che altrimenti si disperderebbe in un ribellismo destinato alla sconfitta.

Si è tanto discusso, negli anni, del gramsciano blocco sociale. Più volte abbiamo fusitigato chi discettava sul “blocco” quasi intendendolo come un sostituto del partito. Questa discussione ce la siamo lasciata alle spalle. Grazie all’accelerazione degli eventi, la discussione sul blocco sociale si è spostata su un piano differente. Compagni ora ci mettono in guardia dalle “fughe in avanti”. Ci rimbrottano che non essendoci il partito, sarebbe aleatorio parlare di blocco sociale. Vero è che non c’è egemonia senza blocco sociale, che non c’è blocco sociale senza partito. Ma da ciò non si deve desumere una specie di corsa per tappe o di progressione scalare. La storia, tanto più in tempi di grandi fratturazioni sociali, non può permettersi il lusso di seguire schemi prefissati. Siamo già nel gorgo senza partito e senza un blocco sociale precostituito. Entrambi dovranno venire alla luce e saranno forgiati nel fuoco del conflitto. Ci gettiamo nella mischia o stiamo alla finestra a fare le pulci alla storia?
Tertium non datur.

8 pensieri su “A CHE PUNTO SIAMO DELLA STORIA? di Moreno Pasquinelli”

  1. Cittadino dice:

    “saranno forgiati nel fuoco del conflitto”

    Prima bisogna vedere se ci sarà un conflitto o se la situazione non si trascinerà a lungo in uno scontro a bassa intensità in cui i conflitti sociali non hanno abbastanza forza per ottenere qualcosa e non decollano mai.

    Tutto dipende dal tipo di spaccatura interna ai dominanti. Ad esempio sulla trattative UK/UE, uno degli indicatori di questa spaccatura, un giorno scrivono che stanno per saltare, oggi invece leggo che forse la UE potrebbe cedere perché non ha altre speranze, magari domani si rilegge il contrario. E la differenza fra deal e nodeal è di fatto per noi la differenza fra no-conflitto-sociale e sì-conflitto-sociale.

    1. Cittadino dice:

      E dimenticavo la cosa più importante: le elezioni USA. Se vince il globalista Biden le cose andranno in un modo, se invece le vince il localista Trump andranno in un altro.

  2. Cittadino dice:

    E leggo ora sul sito Blondet che ad un parroco che ha protestato contro il lockdown è stato applicato il TSO. Dopo il caso di Dario Musso sarebbe il secondo. Sono tutti segni molto preoccupanti.
    O la situazione si sblocca presto ed inizia a riprendere il conflitto sociale o anche le prospettive di medio lungo periodo (che io non posso certo permettermi di aspettare) sono davvero poco entusiasmanti. Ed io ho la brutta sensazione che purtroppo stiano per dare un altro calcio al barattolo, ma spero ancora di sbagliarmi.

  3. Francesco dice:

    Credo che il problema sia nella composizione del cosiddetto “blocco sociale”. Un tempo il blocco sociale POTENZIALMENTE rivoluzionario era composto essenzialmente dalla famosa “classe operaia”, (…e, in senso lato, dalla “classe dei “salariati”) i cui membri, bene o male, condividevano più o meno gli stessi interessi.
    Oggi, il blocco sociale POTENZIALMENTE rivoluzionario è costituito da disoccupati, piccoli lavoratori autonomi e “salariati” precari: gli interessi di questi gruppi sono spesso contrastanti tra loro, e addirittura, anche all’interno di uno stesso gruppo, i vari individui sono in competizione tra loro (…si pensi alla concorrenza tra esercenti oppure alla competizione tra disoccupati per accaparrarsi un misero contratto a termine)
    È questa frantumazione che le classi dominanti sfruttano per mantenere il potere: non a caso negli ultimi decenni esse hanno fatto di tutto per accentuarla (…si pensi alla progressiva scomparsa dei contratti di lavoro dipendente a vantaggio dei contratti con partita iva).

    Francesco F.
    Manduria (Ta)

  4. Diana DE Pietri dice:

    Ho poche speranze di essere letta perché l’ultima volta che ho mandato un commento a Pasquinelli non l’hanno pubblicato non si sa perché. Comunque. “Il capitale, per meglio dire i diversi e concorrenti capitali, non solo non bloccano l’evoluzione delle forze produttive, non possono permetterselo, essendo costretti a svilupparle per cavar fuori profitto dal processo lavorativo, ovvero la loro massima autovalorizzazione.” Affermazione non corretta. Basta guardare cosa sta succedendo con il Covid. Hanno bloccato (Big Pharma) tutte le cure che funzionavano, (vedi l’ultimo Luogo Comune di Mazzucco) quindi fatto morire un sacco di gente, bloccando non solo le forze produttive, ma anche i cervelli di medici, infermieri, scienziati, giornalisti, etc. Per non parlare di tutti i blocchi alle ricerche sulle fonti di energia alternativa. E non solo, esemplare la storia della marijuana (vedi ByoBlu, vari video sulla canapa). Se c’é una cosa che ha fatto il capitale dai tempi di Lenin é stato quello di bloccare e deviare l’evoluzione delle forze produttive. Lenin citava l’esempio dell’eliminazione dell’invenzione delle calze da donna che non si smagliavano come esempio di blocco delle forze produttive. Da allora altro che le calze hanno bloccato!
    Una cosa che non capisco é perché non si parla degli obiettivi strategici fondamentali come ad esempio l’autosufficenza alimentare ed energetica. Ci sono molti gruppi, sono migliaia in tutto il mondo che vanno in questa direzione.
    “Il vecchio e combattivo proletariato è stato rimpiazzato da un ectoplasma sociale precario, privo di forma, di coscienza di sé, di coesione “Dargli forma, nel senso aristotelico del passaggio dalla potenza all’atto, è appunto il compito dei rivoluzionari.
    Ma il compito dei rivoluzionari é anche quello di vedere come si é trasformato questo proletariato combattivo, e dove si é nascosto, o no? “Comunità, autosufficienza, ritorno alla terra e resilienza: questo è quello che ci serve” titolo di un articolo apparso in marzo in un blog di uno dei tanti gruppi che ci sono in Italia e in tutto il mondo dove si sono nascosti questi vecchi proletari combattivi.

    1. Sollevazione dice:

      Gentile Diana,
      alla Redazione di sollevazione.it sono arrivati solo 3 suoi commenti, tutti e tre pubblicati, ad articoli precedenti.
      Non ci riteniamo responsabili per possibili mal funzionamenti di rete o connessione.
      Grazie comunque per averci segnalato la cosa.
      La Redazione

  5. sollevazione dice:

    Ringrazio tutti per i commenti.
    Dissento da quanto sostiene la lettrice Diana De Petri.
    Mi risparmi, la supplico, dalle citazioni dei maestri.
    Lenin scrisse l’Imperialismo nella convizione categorica che la “fase suprema del capitalismo” significasse che ormai il capitalismo stava tirando le cuoia. Ma almeno, fu saggio a sostenere che ciò non significava che le forze produttive non sarebbero ancora potute crescere.
    Trotzky invece radicalizzò nel 1938 (programma di Transizione) la tesi leniniana profetizzadno che il capitalismo non era più in grado di sviluppare le forze produttive e giunse alla conclusione (prescrittiva per i suoi seguaci) che occorre prepararsi alla definitiva resa dei conti e che la rivoluzione socialista era all’ordine del giorno.
    Salvo poi, due mesi prima di essere ammazzato da una sicario staliniano, in uno sprazzo di lucida “follia” (In Difesa del Marxismo) giunse d scrivere, cito a memoria: “Se anche dopo la prossima devastante guerra mondiale la classe operaia si rilevasse incapace di conquistare il potere, sarà il segno che anche Marx si sbagliava attribuendogli la missione storica di portare l’umanità verso il socialismo”.
    Il discorso ci porterebbe lontano….
    Tornando al discorso sulle forze produttive. Lei cita l’esempio dei farmaci e delle …. calze.
    Un po’ pochino mi pare, per negare l’evidenza che nell’utimo setttantennio il balzo compiuto dalla produttività del capitale è stata formidabile. Che questo sviluppo sia contraddittorio, che si sia compiuto a spese del proletariato, non v’è dubbio. Del resto il capitale più accrescere la propria valorizzzazione solo a spese del proletariato.
    Non ci spiegheremmo altrimenti nulla, ma proprio nulla, di come sono andate le cose. Lungi dall’espansione delle transizioni al socialismo abbiamo avuto una generale restaurazione del capitalismo negli stessi “paesi socialisti”.
    Del resto Marx ci aveva messo in guardia nella Ideologia tedesca: “Una formazione sociale non perisce fino a quando riesce a sviluppare le sue forze produttive”. Ovvero: “L’umanità non si pone che i problemi che può davvero risolvere”.
    SE siamo stati sconfitti è perché la fuoriuscita dal capitalismo non si è mai davvero posta, almeno nei paesi centrali, come problema cogente e dirimente.

    Moreno Pasquinelli

    1. Diana DE Pietri dice:

      Grazie per la risposta. Probabilmente esiste giá da tempo la possibilitá di ottenere energia pulita, infinita e a costo zero. Hanno comprato o ammazzato tutti gli inventori. (Vedi: Tom Bosco, generatori free energy, luci e ombre. Border Nights dicembre 2019). Non si puó immaginare un blocco piú grande delle forze produttive. Per me l’importante é sapere che lo scopo del profitto privato impedisce e distorce la ricerca scientifica in tutti i campi. In campo medico ad esempio. Con questo Covid ho dovuto cercare come una pazza nei blog alternativi le informazioni per curare me e la mia famiglia. Ho perso ore e ore per cercare di capire cosa fare. Per non parlare dell’agricoltura. Cioé i campi fondamentali per la vita di ognuno, energia, alimentazione e salute non si sviluppano come potrebbero e dovrebbero ma sono bloccati, deformati, nascosti, repressi, fatti marcire, morire, depistando le indagini, corrompendo gli scienziati e le istituzioni, ammazzando gli inventori e i ficcanaso, lavando il cervello alla popolazione impedendo una informazione corretta, occupando tutti i media e oscurando e ridicolizzando la informazione corretta dei pochi onesti. Tutta la organizzazione produttiva mondiale, cioé la vita di tutti é resa invivibile per questo. Perché lo scopo del profitto impedisce lo sviluppo delle forze produttive a favore di tutti e la vita del 90 per cento della popolazione mondiale é resa piu dura e triste per questo motivo. Bisogna solo che molti ne diventino consapevoli.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *