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LA SENTENZA TEDESCA: CHI HA ORECCHIE PER INTENDERE, INTENDA di Vadim Bottoni

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La Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe il 5 maggio ha emesso una sentenza che ha prodotto uno scossone nelle testate d’informazione internazionali, da Bloomberg al Financial Times, che l’hanno etichettata come “dichiarazione di guerra” o “bomba” verso le istituzioni dell’UE. I media nostrani sembrano invece ancora un po’ balbettanti, ma tant’è che la Corte tedesca ha inviato un vero e proprio diktat alla BCE per giustificare, entro tre mesi e alla luce di principi che vedremo poi, la parte più rilevante del famigerato Quantitative easing (più correttamente PSPP), avviato circa cinque anni fa.

Ci stiamo riferendo a quella misura di politica monetaria non convenzionale che agli occhi di molti aveva “minimamente” reso la BCE assimilabile alle Banche centrali degli altri paesi avanzati e che oggi, in piena crisi economico-sanitaria, rappresenterebbe l’ultimo baluardo di sostegno alle economie dei paesi del sud Europa.

Avviato nel 2015 il PSPP è un consistente programma di acquisto da parte della BCE di titoli emessi da Stati sovrani dell’Eurozona per contrastare il sentiero deflattivo segnato dal crollo della domanda aggregata imputabile, in gran parte, all’austerità imposta ai Paesi periferici dell’Eurozona, oltre che a un rallentamento generale dell’economia post-crisi. Alcuni dubbi accompagnarono tale misura, infatti diversi analisti sottolinearono tanto il ritardo nell’implementazione di una operazione considerata indispensabile quanto la criticità della mancata condivisione dei rischi, per volere innanzitutto della Germania: per tale criticità la grandissima parte dei rischi derivanti dall’acquisto titoli avrebbe dovuto essere sopportata dalle stesse banche centrali nazionali e quindi ricadere sui singoli Stati membri, nonostante il cosiddetto sistema unico delle Banche centrali che vede al vertice la BCE.

Come è possibile immaginare la Corte tedesca ha affrontato la questione da una prospettiva diametralmente opposta che è opportuno far emergere prima di entrare nel merito della sentenza, perché aiuta a comprenderla.

L’impostazione del ricorso può aiutarci, in quanto chi si è appellato alla Corte ha incentrato le motivazioni sulla distorsione che il PSPP avrebbe generato sul mercato della libera concorrenza, livellando verso il basso i tassi di interesse dell’Eurozona compresi quei paesi, come l’Italia, ai cui titoli il mercato avrebbe riservato un prezzo penalizzante.

Ma questi rilievi non tengono conto che il PSPP nasce proprio perché non si riusciva a venir fuori dalla sacca della deflazione e in tale situazione la politica monetaria (quindi la BCE) dovrebbe impegnarsi proprio ad abbassare i tassi d’interesse come stimolo alla ripresa, da cui il recupero dell’inflazione verso il target ritenuto consono (il famoso 2%). Oltretutto se c’è un’area monetaria unica il costo del denaro dovrebbe essere uniforme, tanto in Germania quanto in Italia. Ma queste considerazioni in una certa prospettiva ordo-liberista di fatto non valgono molto, ed è questa l’ottica da assumere per comprendere tanto le decisioni quanto le interpretazioni della Corte tedesca, nonché l’istanza dei ricorrenti.

In quest’ottica pertanto l’azione di politica monetaria imputabile alla BCE risulta indebita proprio nel momento in cui va ad intralciare le valutazioni dei mercati e quindi la competizione “finanziaria” degli Stati, ancorchè membri di un’unica area monetaria. Dobbiamo tener presente quindi che in questa sentenza sul banco degli imputati c’è chi pensa di “intralciare” i mercati finanziari, fosse anche attraverso soltanto una politica monetaria espansiva di un certo peso.

Definita l’ottica economico-politica in cui inquadrare la sentenza vediamo la dirompente prospettiva giuridica e di metodo che assume la Corte, in cui vengono ridefinite delle priorità che spazzano via gran parte delle interpretazioni sommarie di questi anni che ponevano sul piedistallo i trattati non rendendo giustizia al dettato costituzionale.

Le considerazioni giuridiche avanzate dalla Corte tedesca riguardano principalmente il suo ambito di azione che va condotto fin nel terreno della validità degli atti realizzati dall’UE, e questo qualora le istituzioni dell’UE superassero le loro competenze. Pertanto nelle motivazioni della Corte leggiamo che «se gli Stati membri dovessero astenersi completamente dal condurre qualsiasi tipo di verifica, concederebbero agli organi dell’UE un’autorità esclusiva sui trattati anche nei casi in cui l’UE adottasse un’interpretazione giuridica che equivarrebbe essenzialmente ad una modifica del trattato o ad un ampliamento delle sue competenze».

Infatti nella sentenza si afferma che anche ai sensi del trattato di Lisbona, gli Stati membri rimangono i “padroni dei trattati” in quanto l’UE non si è evoluta in uno stato federale.

Ecco l’insegnamento di tipo giuridico e metodologico da imprimere nelle nostre teste, la centralità della Costituzione e la legittima azione di verifica degli Stati nazionali sulle decisioni delle istituzioni dell’UE, siano pure BCE o Corte di giustizia.

Definito il quadro interpretativo, economico e giuridico della Corte tedesca, ora possiamo entrare nel merito della sentenza, precisando da subito che questa va divisa in due parti: nella prima la Corte si esprime direttamente su quanto avanzato dai ricorrenti e (solo apparentemente) non vi sarebbero scossoni per le istituzioni dell’UE, la seconda in cui viene introdotto un nuovo concetto assimilato a ragione da qualche testata a una “dichiarazione di guerra” verso l’UE.

Iniziamo dalla prima parte in cui i denuncianti affermano una cosa ben precisa, che il PSPP violerebbe il divieto di finanziamento monetario ai sensi dell’articolo 123 TFUE. Nel vaglio di questa denuncia però la Corte tedesca ha dovuto tener conto di una sentenza dell’11 dicembre 2018, in cui la Corte di giustizia dell’UE ha dichiarato invece che il PSPP non ha oltrepassato il mandato della BCE né violato il divieto di finanziamento monetario.

L’accusa che il PSPP avesse violato il divieto di finanziamento monetario (articolo 123 TFUE) non è stata accolta dalla Corte tedesca e da qui alcuni hanno letto questo pronunciamento come la parte che legittima l’azione della BCE, ma un’analisi sulle motivazioni mostra che non è così.

L’accusa si basava su una serie di limiti che sarebbero stati violati nel PSPP: il primo limite segnalato è la dimensione dell’intervento (i controvalori massimi), il secondo è il limite agli acquisti dei titoli di Stato sul mercato in base proporzionale al capitale della BCE sottoscritto da ciascun Paese  (regola del “capital key”), poi c’è il limite da porre all’ automatismo del reimpiego dei capitali rinvenienti dal rimborso dei titoli giunti a scadenza ed infine il limite sulla  discrezionalità delle decisioni della BCE.

La spiegazione della Corte tedesca è che allo stato attuale non ci sarebbero gli elementi per considerare la violazione della BCE perché il PSPP avrebbe rispettato certi limiti che però, e questo è l’aspetto interessante delle motivazioni, non sarebbero i limiti che la BCE rispetterebbe con l’odierno programma di acquisti varato per contrastare l’emergenza sanitaria. Quindi dalle motivazioni si deduce quantomeno che tale intervento non potrebbe prolungarsi oltre la stretta fase di emergenza dettata dal Covid nella quale alcuni di quei vincoli sono stati rimossi.

Pertanto la Corte tedesca esplicita le condizioni alle quali quest’intervento straordinario della BCE non potrà continuare, che sarà una tegola gigante sulle nostre teste da qui a pochi mesi.

Ma come detto nella sentenza c’è una seconda parte ancor più rilevante, legata all’introduzione nelle motivazioni del principio di proporzionalità che costituisce il perno rivoluzionario della sentenza. Sulla base di tale principio la Corte tedesca esprime giudizi fondamentali in termini di politica economica contraddicendo, qui si, la sentenza dell’11 dicembre 2018 della Corte di giustizia dell’UE che avrebbe giudicato le decisioni della BCE sul PSPP come adeguate ai compiti della stessa.

Tale decisione è criticata dalla Corte tedesca in quanto non terrebbe evidentemente conto dell’importanza e della portata del principio di proporzionalità (art. 5 TUE), in virtù del quale l’azione dell’Unione è limitata agli obiettivi dei trattati. Pertanto se la BCE, attraverso il PSPP, avesse provocato effetti al di fuori degli stretti obiettivi istituzionali avrebbe violato il principio di proporzionalità stesso. Semplificando, l’obiettivo dichiarato delle politiche monetarie della BCE è l’inflazione prossima al 2% e sono anni che non viene raggiunto: così mentre la Corte di giustizia dell’UE afferma che il programma di acquisto della BCE può proseguire fintanto che l’obiettivo non viene raggiunto, per la Corte tedesca invece quest’espansione monetaria sta determinando effetti (collaterali) crescenti che sconfinano nella politica fiscale, e ciò in violazione del principio di proporzionalità. Di questo allora la BCE entro tre mesi dovrà rendere conto, specificando che gli obiettivi di politica monetaria del PSPP non siano sproporzionati in relazione agli effetti di politica economica e fiscale generati, pena la fine di queste politiche monetarie: infatti la Corte stabilisce che, passato il periodo dei tre mesi senza esito favorevole, la Bundesbank non potrà più partecipare all’attuazione e all’esecuzione delle decisioni della BCE. Questo significa che la Bundesbank venderà le obbligazioni già acquistate sulla base di una strategia coordinata con l’Eurosistema, ma ciò vuol dire la fine delle politiche monetarie di controllo sugli spread i cui effetti deleteri sono facilmente immaginabili. Visti i presupposti della sentenza non si capisce come si potrà giustificare il rispetto del principio di proporzionalità, dando quindi il via alla procedura imposta dalla Corte tedesca, per la quale il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) e la BCE devono quindi rispettare i limiti del loro mandato di politica monetaria, mentre la Corte di giustizia avrebbe colpevolmente trascurato tutti gli effetti di politica economica derivanti dal programma.

L’insegnamento economico-politico da trarre è che, alle condizioni attuali, non solo la politica monetaria da sola non serve a raggiungere gli obiettivi e stimolare l’economia, ma che l’indipendenza della Banca centrale che persegue in autonomia le politiche monetarie non è possibile, visto che ci sono effetti di sconfinamento sul terreno della politica fiscale: questo insegnamento porta a concludere che solo il recupero degli strumenti di politica fiscale da parte dello Stato possono risolvere il dilemma, altrimenti ampio spazio ai mercati finanziari con le conseguenze che abbiamo appreso in questi anni.

Ma per un’analisi completa c’è ora bisogno di un’ultima riflessione, capire nel merito in cosa consistono questi effetti di sconfinamento, ovvero capire perchè la BCE non riesce a realizzare il principio di proporzionalità consistente nel necessario bilanciamento dell’obiettivo di politica monetaria con gli effetti di politica economica derivanti dal programma PSPP, cadendo quindi in violazione dell’articolo 5 del TUE.

Tali effetti di “sconfinamento” per la Corte sono determinati in primo luogo da aspetti quantitativi, ovvero dal volume e dal tempo dell’intervento, perchè in fase iniziale il PSPP sarebbe anche conforme al diritto primario (ma un intervento ridotto però non avrebbe effetti). Nello specifico la prima violazione, ovvero il primo effetto del PSPP sulla politica economica, riguarda le migliori condizioni di rifinanziamento degli Stati membri rispetto a quelle che avrebbero potuto offrire i mercati dei capitali, che avrebbero senz’altro riservato più alti livelli di spread per paesi come l’Italia. Altro punto critico è che il PSPP si potrebbe sostituire agli strumenti di assistenza finanziaria come il MES, che ricordiamo avrebbe invece effetti devastanti per paesi come l’Italia legati alle “inderogabili” condizionalità recessive in esso incorporate. Altra violazione risulterebbe l’effetto del PSPP sulle banche commerciali perché aiuterebbe i bilanci non consentendo conseguenti declassamenti di rating.

In sostanza, per la Corte tedesca, i motivi per cui la BCE commetterebbe delle violazioni sono gli stessi per cui paesi come l’Italia ne avrebbero dei benefici, tra l’altro non derogabili per la nostra sopravvivenza economica. Parimenti la direzione che paesi membri come l’Italia dovrebbero volere per la BCE, quella di finanziamento diretto degli Stati, è esattamente opposta a quella espressa dalla Corte tedesca che ha letteralmente blindato la BCE nella gabbia austeritaria intimando non solo un arresto nel suo stentato incedere ma, pena il distaccamento della Bundesbank, un radicale dietrofront!

Insomma abbiamo nero su bianco gli interessi contrapposti e insanabili tra Germania e paesi come l’Italia, con la differenza che la prima ha fatto valere non solo la consueta forza negoziale, ma quella giuridico-costituzionale fissando gli obiettivi ed anche i mezzi formali per attuarli: la contrapposizione degli interessi è ulteriormente amplificata dai diversi principi economici ispiratori delle due Costituzioni, ordo-liberisti per quella tedesca e, quantomeno, keynesiani per quella italiana.

Notazione recentissima e rilevante per la definizione dello scontro in atto è la nota ufficiale con cui si è espressa la Corte di giustizia dell’UE, secondo cui « per garantire un’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, solo la Corte di giustizia, istituita a tal fine dagli stati membri, è competente a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto dell’Unione ». La reprimenda della Corte UE verso quella tedesca diviene un vero e proprio monito nel passaggio in cui « eventuali divergenze tra i giudici degli Stati membri in merito alla validità di atti del genere potrebbero compromettere infatti l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione e pregiudicare la certezza del diritto ».

Ma questo monito della Corte UE potrebbe avere effetti reali solo nella misura in cui vincolasse l’azione della Bundesbank che, con tutta probabilità, sarà tenuta a seguire la linea della Corte tedesca che non si limita alla Bundesbank ma ha investito anche il governo federale tedesco e il Bundestag, sulla base della loro responsabilità in materia di integrazione europea, per vigilare sull’azione della BCE secondo i criteri ora definiti in termini di proporzionalità.

In conclusione, la Corte costituzionale tedesca pone un atto che fa valere le proprie prerogative giuridiche per blindare l’UE nella gabbia ordo-liberista stringendola e serrandola ancor di più; il quadro degli interessi contrapposti tra Stati all’interno dell’UE è chiaro come è chiaro che questi possono e devono mettere al centro la propria Costituzione; all’Italia non rimane che far valere le prerogative di Stato nazionale applicando un’azione uguale e contraria a quella della Germania per far valere i principi della nostra Carta costituzionale ed uscire dalla gabbia ordo-liberista dell’UE. I prossimi mesi ci attendono.

Fonte: Liberiamo l’Italia

Un pensiero su “LA SENTENZA TEDESCA: CHI HA ORECCHIE PER INTENDERE, INTENDA di Vadim Bottoni”

  1. Alberto Conti dice:

    In parole povere la Germania, per tramite della sua stessa Corte Costituzionale, riafferma nel bel mezzo della più grave crisi economica degli ultimi 100 anni che lo spread è cosa buona e giusta, e va quindi difesa fino alla morte.
    Che lo spread strutturale e strumentale, ulteriormente manipolabile all’occorrenza da banche e agenzie di rating corrotte, sia cosa pessima e ingiusta nella guerra commerciale avviata con la moneta unica, lo dice il buon senso e il comune senso del pudore, non occorre scomodare le rispettive Costituzioni evidentemente antitetiche e reciprocamente incompatibili. Del resto mai superate di fatto, oltre che di principio, da una superiore Costituzione Europea che non è mai riuscita a decollare per mancanza di consenso dei Popoli.

    Occorre quindi chiarire, oltre ogni ragionevole e comprensibile noia, cosa significhi spread e quale sia la sua portata economica nella competizione commerciale tra Stati dell’unione (che sarebbe più corretto chiamare Divisione Europea, anzichè UE).
    Lo spread è la differenza tra rendimenti del bond decennale di qualsiasi Stato del mondo (non solo degli Stati membri della UE !) e il bond decennale tedesco, calcolata in percentuale, come qualsiasi altro rendimento finanziario, e poi moltiplicata per 100. Ad es. spread Italia a 250 significa che chi acquista un decennale italiano al posto di quello tedesco ci guadagna un interesse annuo del 2,5 % in più, in cambio di un maggior rischio default dello Stato italiano, stile Argentina all’epoca dell’attentato alle torri gemelle.
    Già da qui appaiono subito due enormi assurdità: 1) la Germania per il solo fatto di essere presa come pietra di paragone universale significa che ha strutturalmente i tassi d’interesse sul suo debito pubblico più bassi del mondo, il che sta ad indicare più che una affidabilità massima una inflazione minima. 2) La UE, che è essenzialmente una unione monetaria con cambio fisso tra le valute dei Paesi membri (anche chi non adotta l’euro ne segue passivamente le stesse logiche), non offre in cambio alcuna garanzia o aiuto per evitare il default di Stato, cioè anche valutario, ai propri membri.

    E il MES allora? Già, bell’aiuto, ma per le banche dei Paesi dominanti a spese del Popolo del Paese caduto in default senza neppure avere i benefici del normale fallimento, la cui dichiarazione non viene concessa dalla BCE, vedi Grecia.

    Ma perchè lo spread è più sbagliato che ingiusto, o viceversa? In altre parole è semplicemente assurdo in una area valutaria vasta, composta da molti Stati? Forse che gli USA hanno lo spread tra i bond del Texas e del Massachusetts? No, hanno un unico tipo di bond USA, ed un’unica politica fiscale federale.
    Queste due cose devono stare insieme, perchè è tramite le tasse a imprese e cittadini che si pagano gli interessi sul debito pubblico, rendendolo sostenibile qualunque esso sia. Questa è l’unica vera garanzia contro il default di un qualsiasi Stato membro dell’Unione, ottenuta nella pratica tramite compensazioni. Vogliamo chiamarlo principio di solidarietà che tiene insieme l’Unione? E’ esattamente quello che manca alla UE, per esplicita volontà del suo più grande Paese membro.
    Ma poi le domande si accavallano. E perchè mai un’unione tra Stati dovrebbe favorire quello ad inflazione strutturale più bassa, fino a renderlo il più forte all’interno dell’unione stessa? E’ forse un merito sottopagare (in senso relativo alle dinamiche economiche interne al singolo Paese) i lavoratori per avere inflazione bassa e il vantaggio competitivo in termini di più export e meno import? No, non lo è, fino al punto che gli stessi regolamenti UE, pur di parte, non possono che sanzionare (solo a parole evidentemente) i disavanzi commerciali dei (del) Paese esportatore netto, tantopiù se tali disavanzi sono ingenti e strutturali. Insomma, non si può fare un’unione tra fazioni in guerra permanente per il predominio economico-politico, tra gatti e topi, tra volpi e galline, tra allevatori e maiali. E’ durato quasi un trentennio di fatto, un ventennio ufficialmente, abbiamo già dato anche più di quanto potevamo dare. E’ arrivato il momento della resa incondizionata allo stato schiavile o della rinascita nella libertà riconquistata. Il Popolo del lockdown lo sta per capire.

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