NOI SOCIALSCIOVINISTI RINSELVATICHITI… di Carlo Formenti
La dichiarazione congiunta di Austria, Olanda, Svezia e Danimarca stronca le illusioni del governo Conte in merito a una posizione più “accomodante” della Ue, che dovrebbe consentirci di incrementare la spesa pubblica per sostenere la nostra economia, provata dal coronavirus. Comunque vada a finire il confronto all’interno della Commissione, dobbiamo sapere fin d’ora che qualsiasi sia la formula con cui verranno concessi, se verranno concessi, gli “aiuti” comunitari, sarà al prezzo di “riforme” che, come in Grecia, si tradurranno automaticamente in tagli a salari, pensioni e spese sociali. La morte di Alesina (il celebrato portavoce dei dogmi neoliberisti al di là di ogni smentita empirica) non impedirà al suo spirito di continuare ad aleggiare come un avvoltoio sulle rovine del Paese.
La sberla delle Svizzere nordiche, capitanate da un’Olanda esperta in dumping fiscale, farà cambiare idea alle nostre élite partitiche, imprenditoriali e mediatiche, che da decenni accettano senza se e senza ma i vincoli esterni che ci vengono imposti dopo avere svenduto la nostra sovranità monetaria, anche a costo di rinunciare a parte del loro bottino? Assolutamente no, perché sanno di non avere alternativa se vogliono conservare il proprio potere sulle classi subalterne. Le cose cambiano se rivolgiamo lo sguardo verso quel ceto intellettuale che, fino a poco fa in quasi totale sintonia con la sbornia globalista/europeista, comincia a nutrire qualche dubbio, anche sotto lo stimolo delle voci sempre più numerose di colleghi stranieri (economisti, sociologi e politologi) che prendono atto dell’irreversibilità della crisi epocale che stiamo vivendo e invitano a capire che non se ne esce senza un cambio di civiltà.
La marea sta cambiando recita per esempio un articolo dell’olandese Rutrger Bregman che, prendendo le mosse da un articolo del Financial Times nel quale, sorprendentemente ove si consideri la linea editoriale di quel foglio, si parla della necessità di un ruolo più attivo (anche con interventi diretti!) dello Stato in economia, e addirittura di ridistribuzione dei redditi per ridurre le disuguaglianze. Questa svolta, sostiene l’autore, non è solo il frutto dello shock provocato dalla pandemia, ma del “lavoro ai fianchi” che alcuni economisti di fama mondiale (si riferisce, in particolare, a Mariana Mazzucato e Thomas Piketty) conducono da anni, contribuendo a smontare i paradigmi neo liberisti. Le idee alternative, argomenta, tendono ad accumularsi lentamente e progressivamente, per esplodere nel momento in cui eventi catastrofici le rendono di assoluta rilevanza e attualità.
Questa tesi è simile a quella difesa dallo stesso Piketty nella sua ultima, monumentale (più di mille pagine!) opera: “Capital and ideology”. Non a caso Thomas Fazi, in una lunga recensione del volume, pur apprezzando molte delle proposte di Piketty per superare la nostra civiltà fondata sulla proprietà privata, gli rimprovera, laddove critica il determinismo storico di ispirazione marxista, di tendere a stortare il bastone dall’altra parte, nel senso di attribuire più peso ai cambiamenti di mentalità rispetto ai fattori strutturali. Ma soprattutto gli rimprovera di non trarre le conclusioni dell’analisi che lui stesso conduce sui devastanti ”effetti collaterali” della globalizzazione. Secondo Piketty, infatti, il vero peccato delle sinistre non sarebbe tanto e solo quello di essersi convertite al neoliberismo, quanto quello di avere ignorato la necessità di forgiare nuovi strumenti per perseguire la lotta contro le disuguaglianze a livello globale, invece che a livello dello stato-nazione. Insomma, argomenta Fazi, Piketty si sbarazza delle vecchie utopie per abbracciare quella, ancora più improbabile, di un fantomatico governo mondiale, e questo proprio nel momento in cui la globalizzazione arretra, lasciando il posto a un mondo multipolare in cui riparte la lotta imperialista fra singoli stati e blocchi di stati per spartirsi risorse e mercati.
E qui vengo al punto. Come dicevo sopra, molti intellettuali stanno riconvertendo i rispettivi punti di vista su alcuni nodi cruciali della convulsa fase politica che stiamo attraversando, ma la questione su cui continua a registrarsi un’inerzia che impedisce di regolare i conti con il passato resta quella della sovranità nazionale. Vedere, in proposito, un interessante volume collettaneo curato da Alessandro Barile (“Il secondo tempo del populismo. Sovranismo e lotte di classe”, Momo edizioni). La maggior parte dei saggi ivi raccolti si lasciano alle spalle le polemiche ideologiche di una sinistra “radicale” schierata con le élite liberali nella crociata contro “populismi” e “sovranismi”, parole passepartout sistematicamente associate a un’area politico-culturale di destra, se non fascista. Viceversa, nel volume troviamo, fra gli altri: un contributo di Raffaele Sciortino che mette il neopopulismo in relazione con una fase storica in cui, sconfitto il proletariato e le sue organizzazioni storiche, e riapertosi il Grande Gioco per l’egemonia mondiale con nuovi protagonisti che entrano in campo, la distanza fra lotta di classe e conflitti geopolitici si assottiglia, generando fenomeni di inestricabile ambiguità; un’accurata e documentata lettura di Raffaella Fittipaldi della peculiare esperienza politica di Podemos quale esempio di movimento populista di sinistra; due saggi di Marco Santopadre e David Tranquilli che ragionano di populismo e sovranità nazionale senza inciampare nei consueti luoghi comuni contro le eresie “rossobruniste”.
Questi contributi, tuttavia, sono preceduti da un saggio di Stefano Azzarà che, già dal titolo (“Sovranismo o questione nazionale? Il rinselvatichimento socialsciovinista nella politica odierna”) lascia intendere come il crampo mentale di cui sopra conservi ancora la sua inerzia. Curiosa, quasi divertente, la schizofrenia fra la prima e la seconda parte del saggio: dopo una accurata – quasi inappuntabile – ricostruzione del dibattito in campo marxista sulla questione nazionale (dalle origini ai Settanta del 900) e dopo avere ammesso che le sinistre hanno regalato alle destre su un piatto d’argento l’eredità gramsciana del nazional popolare, Azzarà si scaglia, nella seconda parte, contro il “socialsciovinismo” (concetto vagamente anacronistico) dei “sovranisti di sinistra”, apoditticamente equiparati al sovranismo di destra, senza distinguere fra chi rivendica una sovranità popolare esplicitamente connotata in termini di classe e chi agita vetusti stilemi nazionalisti (peraltro demagogicamente impugnati, come l’anticapitalismo di hitleriana memoria). E dato che tutti i salmi finiscono in gloria, conclude con la consueta difesa d’ufficio di un’Europa certamente da riformare (!!??) ma cornice più propizia al riequilibrio dei rapporti di forza fra capitale e lavoro. Forse dovrebbe rileggersi più attentamente sia Domenico Losurdo che i teorici della dipendenza e del sistema mondo, autori che pure conosce discretamente, a giudicare dalle citazioni della prima parte.
* Fonte: Micromega
Azzarà sta a Losurdo , come Fusaro sta a Preve. Ahi questi epigoni!
Come diceva il maestro Costanzo: “Dai miei nemici mi guardo io, dagli allievi mi guardi Iddio”.
Sono d’accordo.