STATI UNITI: DISUGUAGLIANZE SOCIALI ED ELEZIONI di Jaehee Choi e James Galbraith
Le relazioni tra crescita della disuguaglianza economica e risultati del voto nelle elezioni presidenziali sono analizzate in un nuovo studio a livello dei singoli stati degli Usa negli ultimi vent’anni. Cattive notizie in arrivo per i democratici.
Le relazioni tra crescita della disuguaglianza economica e risultati del voto nelle elezioni presidenziali sono analizzate in un nuovo studio a livello dei singoli stati degli Usa negli ultimi vent’anni. Cattive notizie in arrivo per i democratici.
La crescente disuguaglianza economica negli Stati Uniti è strettamente legata all’elevata concentrazione della proprietà del capitale, in particolare patrimoni immobiliari e azioni delle imprese, e all’aumento del prezzo di tali attività negli ultimi decenni. Questi fenomeni a loro volta sono strettamente legati alla trasformazione strutturale dell’economia Usa negli ultimi cinquant’anni, in particolare il declino dell’industria manifatturiera con lavoratori sindacalizzati nel Midwest, l’ascesa della finanza sulla costa orientale del paese e delle attività ad alta tecnologia – soprattutto i settori legati alle tecnologie dell’informazione e all’aerospaziale – sulla costa occidentale.
A livello nazionale, questo processo ha avuto due effetti principali sulla vita politica americana. Uno è l’ascesa degli oligarchi e dei loro sostenitori, in particolare nel Partito Democratico, inizialmente nell’era di Clinton, al punto che oggi i miliardari contestano apertamente la nomina del partito alla Presidenza. Gli oligarchi hanno dominato a lungo il Partito Repubblicano, e così la politica americana è diventata in larga misura una contesa tra miliardari di diverso tipo, con la mediazione di altri miliardari che controllano i principali media, sia tradizionali che social. Ciò è ovvio per qualsiasi osservatore.
Molto meno ovvio è stato l’effetto delle nuove disuguaglianze americane sull’esito delle elezioni presidenziali. Il peculiare contesto istituzionale di quelle elezioni è che sono indirette, condotte attraverso un Collegio elettorale – il sistema di delegati che vota per il Presidente del paese – suddiviso approssimativamente in base alla popolazione ed eletto Stato per Stato, per lo più con un sistema maggioritario: chi prende più voti, ottiene tutti i delegati dello Stato. Se da un lato la crescente disuguaglianza a livello nazionale non ha avuto un chiaro effetto sul voto popolare ai due principali partiti, abbiamo dimostrato in un nuovo studio che nelle elezioni più combattute a partire dal 1992, le crescenti disuguaglianze all’interno degli Stati americani sono state un fattore decisivo nel determinare i risultati Stato per Stato, l’esito nel Collegio elettorale, e quindi la presidenza.
La logica di questa dinamica è nella base economica dei due grandi partiti americani. Un tempo i democratici erano un’alleanza multirazziale di lavoratori del Nord e bianchi del Sud nell’era del razzismo istituzionalizzato. Sono diventati poi una coalizione di abitanti benestanti delle città, per lo più professionisti e impiegati, e minoranze a basso reddito, sia nere che ispaniche. Il partito quindi in linea di massima prevale nelle due estremità della distribuzione del reddito, la più alta e la più bassa. I repubblicani, anche se sempre dominati dai ‘super-ricchi’ del paese, hanno ora la loro base elettorale nelle aree suburbane, nelle città minori e nelle aree rurali, in gran parte bianche e, in generale, con una posizione centrale nella distribuzione del reddito.
Il nostro approccio a quest’analisi si basa sulle tecniche sviluppate per misurare la disuguaglianza all’interno dei paesi, utilizzando dati settoriali su salari e occupazione, e applicati per oltre vent’anni nell’Inequality Project dell’Università del Texas. L’adattamento di queste tecniche ai dati sugli Stati Uniti ci ha permesso di sviluppare buone stime sul cambiamento della disuguaglianza all’interno degli Stati federali su base annua dal 1969 fino al 2014 e successivamente. Precedentemente, le misure della disuguaglianza all’interno degli Stati erano disponibili solo per gli anni prima del 2000 su base decennale, poiché molti Stati sono troppo piccoli per consentire al tradizionale Current Population Survey di fornire stime affidabili della disuguaglianza. Siamo stati così in grado di valutare la relazione tra le mutevoli disuguaglianze economiche dopo il 1969 in ciascuno Stato e i risultati del relativo Collegio Elettorale per tutte le elezioni di questo secolo, in particolare 2000, 2004, 2012 e 2016.
Fino agli anni ’80, la disuguaglianza all’interno degli Stati americani era generalmente maggiore nel profondo Sud, e rifletteva il divario razziale, il sottosviluppo economico e l’eredità della schiavitù nelle piantagioni. Negli anni più recenti, il luogo della crescita maggiore delle disparità si è spostato a Nord e a Ovest. La California, un esempio importante, un tempo era principalmente bianca e suburbana, e sosteneva in modo stabile i repubblicani, da Nixon a Reagan. Oggi è una scacchiera di ricchezza tecnologica, ispano-americani e immigrati a basso reddito, tutti solidamente democratici.
Le nostre misure annuali sulla disuguaglianza in ogni Stato americano mostrano che i maggiori aumenti dal 1989 al 2014 si sono verificati in California, New York, Connecticut, New Jersey, Maryland, Nevada, Rhode Island, Massachusetts, Hawaii, New Hampshire, Washington, Illinois e nel distretto della Columbia. Tutti questi Stati hanno votato per Hillary Clinton nel 2016. E dei venti Stati con il minor aumento della disuguaglianza, tutti tranne due (New Mexico e Minnesota) hanno votato per Donald Trump, mentre nel caso del Minnesota il margine per Hillary Clinton è stato di un mero 1,2%.
Questa chiara relazione può far prevedere gli sviluppi in corso nella politica americana. Gli Stati dell’Upper Midwest, decisivi per l’elezione di Trump nel 2016 – Michigan, Pennsylvania e Wisconsin – si stanno allontanando dalla loro tradizionale fedeltà democratica, man mano che le loro città decadono, la loro popolazione lavoratrice declina, le minoranze invecchiano. Nel 2016 l’esito in questi Stati è stato molto combattuto e nel 2020 potrebbero essere vinti dai Democratici con un piccolo cambiamento nell’opinione pubblica generale, ma nei prossimi anni saranno sempre più difficili da conquistare o mantenere per i candidati democratici. Al contrario, nel Sud e nel Sud-Ovest, e in particolare in Arizona, Texas e Georgia, le città e le popolazioni non bianche stanno crescendo rispetto alle zone suburbane e rurali. L’Arizona potrebbe passare ai democratici (come già la California e il Nevada) già nel 2020; il Texas e la Georgia sono più lontani da questo ribaltamento e soggetti a estese campagne di limitazione del numero degli elettori (una vera e propria voter suppression) volte a scoraggiare il voto delle minoranze e a prolungare il dominio repubblicano. Ma i dati demografici sono inesorabili e quegli ostacoli cadranno con il tempo.
L’attuale dilemma per i democratici è che l’era di Roosevelt è finita da tempo e al tempo stesso la coalizione di Clinton non è più sufficiente, logorata dalla de-industrializzazione e dalla perdita di peso del sindacato – mentre la transizione del Sud non è ancora matura. Quindi i democratici nel 2020 hanno di fronte a sè la scelta tra tentare di recuperare l’Upper Midwest da un lato o lavorare per accelerare la nascita di un Sud democratico dall’altro. Ciascuna strategia è legata a politiche specifiche, in particolare per quanto riguarda gli scambi commerciali, le infrastrutture e i cambiamenti climatici, che possono non funzionare per i problemi dell’altra regione. E non vi è alcuna garanzia che le politiche e le promesse elettorali del 2020 – e eventualmente realizzate in caso di vittoria democratica – siano ancora appropriati per il 2024 e oltre.
È possibile, naturalmente, che le elezioni del 2020 saranno decise da altre questioni, come i gravi temi della guerra e della pace, o forse le profonde divisioni dell’opinione pubblica sul presidente in carica, Donald Trump. È anche possibile – sebbene lo riteniamo molto improbabile – che una crisi economica o una recessione possano sopraggiungere e decidere il risultato. Ma nel caso in cui il mondo sopravviva alla burrascosa apertura dell’attuale anno elettorale e l’economia americana continui nella sua crescita lenta ma costante, la cosa più probabile è che le linee di divisione del 2016 si formino di nuovo, e che le elezioni siano combattute sullo stesso terreno. In tal caso, possiamo prevedere che i risultati siano coerenti con quelli degli ultimi anni, con il Sud un po’ più conteso dai democratici rispetto al passato e il Midwest un po’ più difficile da conquistare per loro. Come nel 2016, un vantaggio democratico nel voto popolare complessivo potrebbe di nuovo rivelarsi inutile, perché nel sistema americano le elezioni presidenziali sono combattute e decise negli Stati contendibili – e questi non sono né i più egualitari né i più diseguali.
* Fonte: sbilanciamoci.info
**Quest’articolo appare anche sulla rivista Intereconomics, www.intereconomics.eu. James Galbraith e Jaehee Choi fanno parte dell’University of Texas Inequality Project alla LBJ School of Public Affairs dell’Università del Texas ad Austin.