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COVID-19 E LOTTA DI CLASSE di Antonio Martino

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Quando Alberto Asor Rosa pubblicò nel 1977 il suo Le due società: ipotesi sulla crisi italiana nemmeno la fantasia del più fervido indiano metropolitano avrebbe potuto immaginare lo scenario di questi giorni. L’ipotesi di un virus in grado di paralizzare la vita del potentissimo e liberissimo Occidente, infatti, poteva affascinare un lettore di Urania, e non certo un compagno di movimento. Oltre quattro decenni dopo la fantascienza è realtà: anzi, parafrasando Marx, è farsa. Tralasciando l’enorme massa di argomenti sulla (pessima) gestione e sui (falsi) rimedi contro la (scontata, essendo in autunno) seconda ondata, vorremmo concentrarci sull’analisi sociale delle conseguenze della crisi, in accordo con quanto già scritto in merito al problema della classe rivoluzionaria.

Partiamo dal dato reale: chi preme per il cd. lockdown è di norma un soggetto che ha dalla propria parte la sicurezza del posto di lavoro e un certo benessere accumulato. Viceversa, chi si oppone è sovente un piccolo imprenditore- proprietario di attività al dettaglio e di commercio minuto, piccole imprese con pochi dipendenti-, un libero professionista o una partita iva. Dal punto di vista strutturale, la linea di faglia è tra garantiti e non, tra lavoratori dipendenti (pubblici e privati di grandi imprese) e unità produttive autonome. In più, l’enorme massa dei disoccupati e dei precari che tende naturalmente a salvaguardare quegli scampoli di normalità fittizia. Si può perciò affermare, generalizzando, che la gestione delle misure di contenimento (sic) del virus siano un’immensa cartina di tornasole della divisione in classi della società italiana.

Anzi, la ratio e la misura dei provvedimenti mostrano la totale incuranza da parte dei governanti delle condizioni di vita della gran parte dei governati: si pensi alle farsesche discussioni sui doppi servizi, sui mezzi di trasporto, sulle case al mare in cui ricoverare gli anziani, come se la villa a Capalbio fosse patrimonio comune di ogni cittadino.

Ancora una volta, le forze della sinistra liberal hanno mostrato il loro volto intollerante: chiunque si ribelli, o osi quantomeno criticare i provvedimenti presi da un governo con ben poca legittimità popolare, va subito etichettato come “negazionista-complottista-fascista” e segnalato alle forze dell’ordine (borghese). Per i pochi compagni che ancora credono nella possibilità di una costruzione dalla base di una forza socialista, e perciò democratica e costituzionalmente orientata alla giustizia sociale, tutto questo non può andare bene. Riteniamo perciò opportuno individuare almeno una proposta di linea per un confronto scevro da ogni pregiudizio ritardato verso le classi più sensibili ai problemi attuali.

Sfruttamento e lavoro autonomo

La classe operaia non può più essere la classe generale della società perché, semplicemente, è stata indebolita dalle riconversioni industriali e dai nuovi processi produttivi. Da allora, ogni soggetto di sinistra – radical o moderato che sia – non è più riuscita a individuare un corpo sociale con cui confrontarsi e costruire un’alternativa. Il ripiegamento, del tutto strumentale e pertanto ipocrita, sul tema delle libertà individuali e dei diritti civili è servito soltanto come cortina fumogena per nascondere il vuoto pneumatico del tradimento. Se si vuole riorganizzare un movimento di classe di critica al sistema, si deve affrontare seriamente il problema dei lavoratori autonomi: partite iva, piccoli imprenditori, proprietari di attività al dettaglio e via discorrendo. Non si tratta più, come negli anni Ottanta, di evasori in grado di guadagnare cinque o sei volte il salario di un operaio: nella gran parte dei casi, il piccolo commerciante e l’avvocato di provincia senza protezioni ed eredità familiari sono redditualmente posizionati sotto un lavoratore dipendente. In più, non avendo alcuna protezione contrattuale, non possono beneficiare dei sacrosanti diritti sanciti – seppur in misura minore rispetto al passato – dai CCNL di categoria. Se v’è una classe “proletarizzata”, ebbene essa è quella sopra descritta. Stretti tra l’ossessiva pervasività del fisco e la concorrenza totalitaria dei grandi monopoli multinazionali, colpiti a fondo dalla crisi di domanda strutturale che attanaglia la società italiana grazie ai vincoli europei, i working poors del 2020 non sono soltanto i rider, gli stagisti e i salariati con contratti da fame: occorre dunque considerare – e dialogare – anche con i lavoratori autonomi. Non a caso, nell’esplosione di rabbia svoltasi nella notte di Napoli, la saldatura tra sottoproletariato e piccola borghesia è avvenuta perché la seconda:

“[ha] negli ultimi anni dimostrato attitudine allo scontro (si pensi ai Forconi) [e ciò] deriva dal fatto che a) sia la fascia sociale che abbia visto più rapidamente decadere il suo status con la crisi (mentre i lavoratori dipendenti sono ormai pressati da decenni, iper-controllati sul posto di lavoro, spesso frenati dai sindacati nell’organizzarsi); b) la sua cultura sia egemone in Italia e in particolare a Napoli, dove esistono ancora molte categorie di autonomi rispetto ad altri paesi europei in cui la dimensione di impresa è più grossa e ci sono in proporzione più lavoratori dipendenti.”[1]

La stessa base sociale che ha decretato un grosso avanzamento della Lega tra il 2014 e il 2018 era, in gran parte, costituita da ceti medi impoveriti e orfani di rappresentanza politica. Quello che era un tempo la mediazione politica della DC e poi, in misura diversa, di Forza Italia, è oggi assente perché non più praticabile nello scenario di monopolizzazione spinta del profitto. La distruzione creatrice di schumpeteriana memoria passa così dalla eliminazione di ogni soggetto intermedio tra il consumatore e la grande multinazionale. Nel Manifesto Marx aveva intuito che

“Quelli che furono finora i piccoli ceti intermedi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.”

Processo logico nel capitalismo, impedito e ribaltato solo durante il trentennio keynesiano e la gestione sociale dell’economia, che oggi riemerge in tutta la sua forza. Negare la tendenza oggettiva del modo di produzione significa così regalare alla reazione ingenti masse dal potenziale rivoluzionario.

Armonia di interessi tra lavoratori dipendenti e autonomi

Il conflitto sezionale tra autonomi e dipendenti serve, come tutte le divisioni orizzontali, a perpetuare il dominio delle classi dominanti. Una proposta di composizione dello scontro tra diversi settori del mondo del lavoro passa così dalla determinazione delle rivendicazioni comuni. Brevemente si può riassumere che esse possono e devono, insieme, lottare per ottenere quello che da quarant’anni manca in Italia: il partito dei lavoratori, la cui base di classe si rintraccia nella comunità di chi lavora per vivere. La demarcazione tra rendita e lavoro, come già delineato in Costituzione, rappresenta la linea del Piave su cui concentrarsi. Il rentier, colui che sfrutta le sue ricchezze e trae profitto dall’impiego del capitale accumulato, è il nemico di classe a cui contendere il governo della cosa pubblica. A chi interessa infatti distruggere le piccole attività di quartiere, i limiti alla concorrenza inumana nelle professioni e la tutela pubblica di alcune produzioni tipiche? Ai poteri indiretti del finanzcapitalismo, gli stessi che hanno distrutto le garanzie di civiltà dei lavoratori dipendenti attraverso l’egemonia del pensiero unico neoliberale. Il partito dei lavoratori nasce e vince se si uniscono finalmente le istanze di tutti gli sfruttati. Salari dignitosi, piena occupazione, diminuzione delle ore di lavoro, servizi pubblici civili sono diritti che interessano tutta la classe lavoratrice, e devono tornare a essere la bandiera di ogni lotta. Diritti economici che si saldano così ai diritti civili e alle libertà garantite dalla Costituzione, proprio nell’ora in cui si delinea una seconda e gravissima violazione di tutte le libertà.

Il problema della coscienza di classe

Per saldare le componenti del mondo del lavoro serve necessariamente coscienza di classe. E questa, si badi bene, può venire solo dalla costruzione di una contro-egemonia che rimuova le false coscienze liberali purtroppo presenti in tutti i settori. Sia nel milieu del salario che in quello del lavoro autonomo occorre quindi rimuovere le ragioni dei conflitti sezionali e costruire incessantemente una piattaforma comune di convergenza. Su questo punto si può aprire un discorso comune e costruttivo, senza tuttavia cadere nei luoghi comuni che hanno per anni consegnato tali segmenti a forze opposte ai loro interessi. I socialisti devono al momento abbandonare vecchie retoriche superate dai fatti, gli autonomi e i liberi professionisti, simmetricamente, devono comprendere che non sono né potranno mai essere dei Gianni Agnelli in sedicesimo: l’unica ancora di salvezza per la loro esistenza passa dalla consapevolezza del proprio stato di subalternità al Capitale. Da lì all’unione con i salariati organizzati e i disoccupati il passo potrà esser breve trovando un soggetto politico accogliente e non divisore.

Conclusione

Nel 1946 Lelio Basso poteva affermare che

Ai ceti medi, come del resto agli impiegati (che quasi sempre solo una mera parvenza, un fatto puramente esteriore distingue dall’operaio, al quale li lega la stessa dipendenza dal capitalista e la stessa insicurezza del domani) non resta che unirsi al grande esercito dei lavoratori, al proletariato e riconoscersi proletari, abbandonando ideologie, che sono più di retaggio di tradizioni superate e manifestazioni di una retorica da strapazzo, che non la reale espressione di legittimi interessi spirituali […]essi devono appunto rinunciare alla pretesa di costituire la spina dorsale della società borghese, rinunciare alla funzione di mediatori fra capitalisti e lavoratori, che si risolve in definitiva in una funzione di cani da guardia della società borghese, e assumere invece il proprio posto nella lotta rivoluzionaria contro questa società, accettando la guida politica del proletariato, che è la classe più preparata a questo compito.[2]

A differenza di allora, non esiste una classe già pronta che assuma su di se il compito rivoluzionario di costruzione del Socialismo. A uno stato di difficoltà ulteriore, però, si può controbattere attraverso l’impegno e la volontà decisa di costruire una società libera e giusta, in cui “il libero sviluppo di ciascuno sia condizione del libero sviluppo di tutti”. Per fare questo bisogna lavorare per esasperare le contraddizioni della società capitalistica oggi in crisi, rialimentando a livello di senso comune l’attesa verso una società più giusta e solidale. A tal fine serve l’unità di tutti i subalterni e di tutte le persone che abbiano a cuore i valori iscritti nella nostra Costituzione. Chi ancora ciancia di bottegai e kulaki rischia di fungere da utile idiota del Capitale: e i lavoratori italiani, modestamente, tanto idioti non sono.

* FONTE: LA FIONDA — https://www.lafionda.org/

4 pensieri su “COVID-19 E LOTTA DI CLASSE di Antonio Martino”

  1. Francesco dice:

    Ottimo articolo e lucidissima analisi della realta’. Lo dico da “bottegaio”.

    Francesco F.
    Manduria (Ta)

  2. Alessandro Chiavacci dice:

    Finalmente, con la pubblicazione di questo articolo, Sollevazione apre una discussione radicale sulla identità della sinistra di classe. Lo apprezzo molto, anche se le mie conclusioni sono un po’ diverse da quelle auspicate dall’ autore.

    Io partirei dal confronto fra la situazione attuale e quelle che precedettero l’insurrezione generale del 25 aprile 1945. Nelle Direttive per l’insurrezione generale, del CLN, che chiunque può trovare su internet, il centro è la mobilitazione degli operai. La richiesta fondamentale è di DIFENDERE MILITARMENTE LE FABBRICHE dalla possibilità che i nazisti in fuga le distruggano distruggendo così anche la potenzialità produttiva del Paese, la possibilità di occupazione e di benessere per il futuro.

    Durante il lockdown del 2020, che ha avuto conseguenze non minori di quelle di allora (si pensi che fra giugno 2019 e giugno 2020 il Pil italiano è caduto del 18%, come durante tutta la Prima Guerra Mondiale), i sindacati, a partire da landini, hanno chiesto solo una cosa; SICUREZZA. Particolarmente diffusa la richiesta di sicurezza fra gli insegnanti, dove la richiesta in tal senso sui social è molto diffusa.

    Cos’è cambiato da allora…?

    In sostanza una cosa: l’introduzione della cassa Integrazione. A maggio 2020 si sono pagate 850 milioni di ore di cassa integrazione, equivalenti al lavoro di 5.600.000 lavoratori dell’industria a tempo pieno, contro i 13, 5 milioni di ore pagate a febbraio.

    Sto forse dicendo che bisogna abolire la cassa Integrazione? No, sto dicendo, da un punto di vista diverso da quello dell’autore di questo articolo, che, IN QUESTE CONDIZIONI, la classe operaia non è più rivoluzionaria. E non lo è perché vede separare le proprie condizioni di esistenza da quelle della produzione e dal benessere generale. Per dirla con i termini di questo articolo, in una crisi generale come questa, si trasforma in una classe di “rentier”. Diverso sarebbe, poniamo, se l’ammontare delle erogazioni sociali fosse commisurato al livello generale del Pil. Ma il problema non è questo.

    Il problema è che la richiesta esclusiva di sicurezza di Landini, che porterà il nostro paese ad un indebitamento esagerato e al successivo commissariamento da parte della Ue (e i sindacati sono unanimemente, e non a caso, europeisti) è la naturale evoluzione di un movimento socialista che, nelle due versioni della seconda e della terza internazionale, si è posto solo il problema della contrattazione verso il capitale: la versione socialdemocratica rivendicando solo più salario, diritti e welfare stare; la versione leninista abolendo il capitalista senza superare il rapporto di dipendenza con il capitale (stavolta pubblico).

    Detto in altri termini, entrambe le versioni hanno ignorato che il rapporto di produzione capitalistico è sì sfruttamento, ma è sfruttamento in quanto è scambio di obbedienza, subordinazione, iniziativa, sicurezza, contro salario.

    La soluzione perciò non mi sembra quella di una nuova analisi sociologica mirante a individuare chi è oggi “più sfruttato” (analisi sulla quale l’autore ha sicuramente qualche ragione), ma nel rovesciare il punto di vista dal quale si guarda al rapporto capitale-lavoro. Per esempio promuovendo nel settore privato la partecipazione dei lavoratori AL CAPITALE E ALLE DECISIONI dell’impresa.

    La soluzione alle crisi del capitale è, oggi più di sempre, quella socialista. Un socialismo però che superi i limiti di quello degli ultimi 150 anni.

    1. Antonio Martino dice:

      Gentilissimo,

      La ringrazio per gli spunti dati all’articolo, che nasceva con la speranza di poter innescare una discussione nel variegato mondo marxista. Quello che Lei dice non è sbagliato, infatti ad oggi chi subisce più velocemente il processo di proletarizzazione non sono i lavoratori dipendenti- salvaguardati dalla CIG- quanto i non tutelati: tra essi, oltre ai lavoratori del nero e ai parasubordinati, grande parte giocano i cd. bottegai.

      Nel faticoso processo di costruzione di un soggetto di classe, perciò, non si può sottovalutare una dinamica simile. Ad oggi mi preme evitare che i massimalisti da tastiera regalino il dissenso di categorie numerose ai vari Salvini di turno, e per questo necessitiamo di una vera unità di classe tra subalterni che vogliono rompere le loro catene.

      In questo, il lavoro culturale è vitale per far emergere scampoli di coscienza di classe.

      Sulle prospettive e le finalità, mi pare al momento troppo avventuroso pronunciarsi: il fine tattico- e sarebbe oro colato- è il ripristino integrale della Costituzione e della sua struttura economica mista. Dopo aver nazionalizzato il credito, le infrastrutture e le principali industrie strategiche si potrà procedere alla formalizzazione del controllo operaio.

      Ma tutto questo, oggi, è utopia.

      Facciamo scavare la talpa, e non creiamo divisioni ad arte tra sfruttati.

      AM

  3. m dice:

    Quindi il giudizio sugli scioperi di marzo (dove gli operai chiedevano: CHIUDETE LE FABBRICHE, CI CONTAGIAMO) è che questi sono dei privilegiati, mentre i veri precari sono i loro datori di lavoro e la confindustria che ha fatto carte false per tenere aperto? o i ristoratori e i baristi?
    Conosco un ragazzo, un amico di un caro amico di Bergamo, morto a 37 anni di Covid; lavorava in una fabbrica di trattori, non ha mai chiuso (le fabbriche di trattori, come tutta la filiera agricola non ha chiuso MAI).
    Vorrei capire la vostra esatta posizione in materia.

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