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CLASSE OPERAIA E POPOLO LAVORATORE di Moreno Pasquinelli

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Queste note mettono a fuoco, pur in forma schematica, quella che un tempo si sarebbe chiamata “composizione” della società italiana e in particolare di quello che chiamiamo “popolo lavoratore”. Tengono conto dei risultati indotti dal lungo ciclo neoliberista e non delle conseguenze dell’attuale drammatica crisi sociale concausata dalla gestione sistemica della pandemia. Crisi, tuttavia, che secondo chi scrive, conferma ed anzi approfondisce, le tendenze di fondo maturate nel periodo precedente.

Secondo i dati Istat su 60milioni di italiani residenti gli occupati sono circa 23,4 milioni. Di questi 5,3milioni figurano come indipendenti (cifra che tuttavia nasconde diverse figure sociali), mentre la massa dei lavoratori dipendenti — ovvero quelli che stanno sotto-padrone e che campano vendendo la propria forza-lavoro, manuale e intellettuale in cambio di un salario —, consiste in circa 18,1 milioni.

Tuttavia questa massa, tanto più in ambiente neoliberista, è profondamente disomogenea. Essa conosce al suo interno fortissime differenziazioni: per la quota di reddito di cui si gode, per il rango sociale che si occupa, per la funzione che si svolge nel processo lavorativo, per il possesso o meno di proprietà (immobiliari e mobiliari). Mutatis mutandis vale ancora la definizione leniniana di classe sociale. [1]

E’ noto che in una stessa azienda, privata o pubblica che sia, esiste una articolata gerarchia funzionale al comando capitalistico, solo formalmente giustificata in base alle differenti mansioni specificamente lavorative. Si tratta di vere e proprie figure gerarchiche, quelle propriamente operaie che producono plusvalore per il capitale, e le figure impiegatizie, fino ai dirigenti apicali, le quali, in molti casi, ottengono più reddito di quanto valore effettivamente producano. Marx ci direbbe che nel primo caso c’è un rapporto di sfruttamento, nel secondo no. [2] Gli ultimi nella scala gerarchica tra le figure dei lavoratori dipendenti sono gli interinali, assunti con contratti a termine (molti in cosiddetto regime di “somministrazione”). I dati ci dicono che in Italia ce ne sono almeno 2,7milioni — tra i quali oltre 500mila lavoratori “somministrati“, che lavorano nel 95% dei casi con contratti brevi o brevissimi. Il dato medio è di 12 giorni, ma il 58% viene chiamato in servizio per meno di sei giorni e il 33,4% (era il 30,5% nel 2012) addirittura per una sola giornata.

Tra questi settori paria, in Italia, ci sono anzitutto i lavoratori a nero e non registrati da alcuna statistica. Fonti attendibili parlano di 3,7 milioni di proletari senza alcuna tutela (non solo immigrati).

Vi sono quindi i cosiddetti “autonomi fittizi”, le finte “Partite IVA”. Secondo un recente calcolo, su un totale di 5,3milioni di lavoratori autonomi, i salariati camuffati sono in Italia più di mezzo milione.

A tutti costoro dobbiamo aggiungere gli ultimi, “l’esercito industriale di riserva”, i disoccupati. Ai 2,5 milioni di disoccupati ufficialmente registrati vanno sommati due milioni circa di cosiddetti “disoccupati invisibili” (inattivi, cosiddetti “scoraggiati”, ecc.)

Queste cifre ci dicono come minimo tre cose. La prima è che in Italia la massa proletaria di coloro che campano grazie alla vendita della loro forza-lavoro è composta da quasi 27 milioni di cittadini, ovvero ben più di un terzo della popolazione. La seconda è che sono destituite di ogni fondamento le teorie secondo cui il tardo-capitalismo avrebbe portato alla “fine del lavoro”. La terza è che chiunque si ponga l’obiettivo di una radicale trasformazione sociale, e quindi quella di un soggetto politico egemonico, è su questa enorme massa che deve far leva invece di puntare, come vuole la narrazione ideologica dominante, sul ceto degli “imprenditori” o, come si dice, sul “mondo delle imprese”.

Sommando a questa massa proletaria i 4,8milioni di lavoratori autonomi/indipendenti effettivi — di questi, dati Istat, 3milioni e 652mila, ovvero il 68,1% , non hanno dipendenti — abbiamo che più della metà della popolazione italiana ottiene il suo reddito (o almeno la maggior parte) grazie al lavoro.

Se a questa massa incorporiamo la maggioranza dei 16milioni di pensionati — buona parte dei quali ricevono un sussidio pensionistico irrisorio (5,8milioni di pensionati ricevono meno di 1.000 euro al mese) — abbiamo quello che noi chiamiamo “popolo lavoratore”, il poliverso di “chi sta in basso”.

Poliverso appunto, poiché “Popolo lavoratore” è solo una figura sociologica generica, visto che essa cela sensibili disuguaglianze interne. Disuguaglianze che riguardano la stessa classe proletaria e che ci aiutano a spiegare come mai questa massa non agisca come “blocco sociale”. Ma su questo torneremo alla fine.

Ai fattori di disomogeneità intrinseci ai luoghi di lavoro di cui abbiamo accennato, si sommano quelli esterni. La gran parte dei nuclei familiari non solo è plurireddito (all’interno di uno stesso nucleo possono convivere diverse figure sociali), è proprietaria della casa in cui dimora. Al netto del crollo dei valori immobiliari i dati ci dicono che “Le case degli italiani valgono 6mila miliardi”. Per la precisione nel 2016, dei 40,9 milioni che hanno presentato la dichiarazione dei redditi, oltre 25,8 milioni (il 63,1% del totale dei contribuenti) sono risultati proprietari di immobili o di quote immobiliari. In crescita sono i proprietari di abitazioni senza figli a carico che rappresentano il 76,6% del totale. Per quanto attiene al risparmio, sempre l’Istat segnala che il crollo dei consumi va di pari passo alla propensione al risparmio, ciò che riguarda anche famiglie a basso reddito.

Non c’è dubbio che a partire dal secondo dopoguerra, anzitutto grazie al lungo ciclo di lotte sindacali e politiche, la classe operaia ha visto aumentare la propria quota parte di ricchezza nazionale. Per connotare questo fenomeno certa sociologia ha fatto ricorso ad un neologismo: la cosiddetta “cetomedizzazione”. Un abbellimento cosmetico di un fenomeno che il marxismo aveva denunciato sin dalla fine del XIX secolo: l’imborghesimento del proletariato. [3] Lenin, da parte sua, per spiegarsi la degenerazione politica delle socialdemocrazie europee, sostenne che alla base vi fosse una corruzione sociale più profonda, l’esistenza di una vera e propria “aristocrazia operaia”. [4]

E qui siamo ad una delle ragioni che spiegano il passaggio dal “keynesismo” al neoliberismo. Uno degli obbiettivi più ambiziosi del capitale è infatti quello di portare a compimento, passo dopo passo, quella che potremmo chiamare “riappropriazione capitalistica”. Una riappropriazione che procede su tre diversi livelli. Il primo è quello di depredare, via privatizzazioni, beni e patrimoni pubblici; il secondo è estorcere su larga scala la quota di ricchezza sociale che il proletariato occidentale ha strappato dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni ’70 del secolo scorso; il terzo è quello per cui il grande capitale punta a far fuori i settori della piccola e media impresa (manifatturiera e commerciale) per impossessarsene assieme alle loro quote di profitto e di mercato. Si tratta della attualità di quella che Marx definì La legge generale dell’accumulazione capitalistica, [5] legge che si manifesta in maniera più violenta nei periodi di crisi e recessione.

Questa depredazione non si deve considerare conclusa ma ha compiuto passi da gigante ed ha mutato a fondo quella che un tempo gli operaisti chiamavano “composizione di classe”. Il lungo ciclo neoliberista e l’uso che l’élite dominante ha fatto e va facendo della crisi storico-sistemica iniziata nel 2008 — anche in questo caso a sostanziale conferma della validità della legge scoperta da Marx [6] — ha prodotto e continua a produrre una pauperizzazione sociale generale che non riguarda solo il proletariato vero e proprio ma pure piccola e media borghesia.

E’ illusorio sperare che la crisi economica e sociale possa trasformare la massa sociale del “popolo lavoratore” in blocco sociale. Non è mai accaduto, e non si vede come possa accadere oggi. Affinché una massa sociale si trasformi in blocco occorre un agente aggregatore che porti in atto ciò che è solo in potenza. Chi può assolvere la funzione di agente aggregatore? Esso può essere solo un soggetto politico. Che questo soggetto assuma la forma-partito, quella di movimento o di fronte, non si può stabilire a priori, poiché dipende dalla circostanze. Una cosa tuttavia risulta evidente dall’esperienza storica: questa funzione non può essere assunta da un sindacato. In un contesto nel quale l’egemonia politica, per quanto traballante, è detenuta, anche grazie alla potenza della sua macchina ideologica, dal capitale, un simile soggetto politico, è obbligato a costruire una contro-egemonia, a farsi portatore di quella che Gramsci chiamava “riforma morale e intellettuale” [7], ciò implica una “visione del mondo”, una idea della società futura che sia tradotta in programma, che quindi sappia indicare, oltre alle trasformazioni necessarie, la strategia per attuarle.

Post scriptum

Non si dovrebbe prendere per oro colato l’affermazione di Marx secondo cui “l’esistenza determina la coscienza”. [8] Tale affermazione pecca anzi di semplicismo. L’assunzione di una coscienza politica (ove per coscienza s’intenda, appunto, una visione del mondo e non tanto una corporativa consapevolezza dei propri interessi economici), non avviene per germinazione, non sorge come frutto automatico delle condizioni materiali di esistenza. Acquisire coscienza significa non solo strappare al reale la sua maschera, significa disporsi ad agire per mettere il reale capovolto sui suoi piedi. Capire e quindi agire chiede uno slancio, uno sforzo congiunto, intellettuale e morale, sforzo che per sua natura implica un trascendimento della realtà fattuale. 

NOTE

[1] «Si chiamano classi dei grandi gruppi di persone che si distinguono tra loro per il posto che occupano in un sistema storicamente determinato delle produzione sociale, per il loro rapporto (per lo più sanzionato da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per il modo con cui ottengono e per la dimensione che ha quella parte di ricchezza di cui dispongono». V. I. Lenin, La grande iniziativa, 28 giugno 1919, Opere Complete, pp. 384-85, Editori Riuniti 1967

[2] Sfruttato per Marx è solo chi produce plusvalore per il capitale. E Marx precisa che in ambiente capitalistico solo il lavoro che crea plusvalore è lavoro produttivo, che cioè valorizza il capitale, ovvero riconsegna al capitale più valore di quanto questo ne offra in cambio come salario.

[3] «Il proletariato inglese si imborghesisce sempre più, sicché questa, che è la più borghese di tutte le nazioni, sembra infine voler arrivare a possedere un’aristocrazia borghese e un proletariato borghese, accanto alla borghesia. Del resto ciò è in una certa guisa spiegabile per una nazione che sfrutta tutto il mondo». [F. Engels, Lettera a K. Marx del 7 ottobre 1858]. 24 anni più tardi lo stesso Engels scriveva: «Ella mi domandava che cosa pensino i lavoratori inglesi della politica coloniale. Ebbene, precisamente lo stesso che pensano della politica in generale. In realtà non esiste qui alcun partito di lavoratori, ma solo conservatori e liberali radicali, e gli operai godono del monopolio commerciale e coloniale dell’Inghilterra sul mondo». [Lettera a Karl Kautsky del 12 settembre 1882]

[4] «Questa situazione eccezionale, monopolistica aveva creato in Inghilterra condizioni di vita relativamente sopportabili per l’aristocrazia operaia, cioè per una minoranza di operai qualificati e ben pagati. Di qui la mentalità piccolo-borghese, corporativa di questa aristocrazia operaia, che si era staccata dalla sua classe, gravitava verso i liberali e aveva un atteggiamento ironico verso il socialismo, considerato un’‘utopia’. (…) Negli ultimi tempi il monopolio dell’Inghilterra è stato definitivamente scalzato. Alle precedenti condizioni, relativamente sopportabili, si è sostituita un’estrema povertà a causa del rincaro della vita. Si inasprisce in grandissima misura la lotta di classe, e, con questo inasprimento, viene scalzato il terreno su cui alligna l’opportunismo, viene scalzata la base che permetteva la diffusione nella classe operaia delle idee della politica operaia liberale». [ V.I. Lenin, Discussioni in Inghilterra sulla politica operaia liberale [ottobre 1912], in op. cit., pp. 167-68]

[5] «Nella misura in cui si sviluppano la produzione e l’accumulazione capitalistica, si sviluppano la concorrenza e il creditole due leve più potenti della centralizzazione. Allo stesso tempo il progresso dell’accumulazione aumenta la materia centralizzabile, ossia i capitali singoli, mentre l’allargamento della produzione capitalistica crea qua il bisogno sociale, là i mezzi tecnici di quelle potenti imprese industriali, la cui attuazione è legata a una centralizzazione del capitale avvenuta in precedenza. Oggi quindi la reciproca forza d’attrazione dei capitali singoli e la tendenza alla centralizzazione sono più forti che mai nel passato. Ma anche se l’estensione relativa e l’energia del movimento centralizzatore sono determinate in un certo grado dalla grandezza già raggiunta dalla ricchezza capitalistica e dalla superiorità del meccanismo economico, ciò malgrado il progresso della centralizzazione non dipende affatto dall’aumento positivo della grandezza del capitale sociale». [Karl Marx, Il capitale, Libro I, Sezione VII, Capitolo 23, La legge generale dell’accumulazione capitalistica]

[6]  «Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione (…), tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. (…) Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in rapporto all’esercito operaio attivo, tanto più in massa si consoliderà la sovrappopolazione la cui miseria è in proporzione inversa del tormento del suo lavoro (…), tanto maggiore [è] il pauperismo ufficiale. Questa è la legge assoluta, generale dell’accumulazione capitalistica». Marx, ‘Il Capitale’, cit., vol. I, p. 705

[7] Antonio Gramschi, Quaderni dal carcere

[8] Karl Marx, L’ideologia tedesca

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