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LA CINA E’ SOCIALISTA? (2) di Mauro Pasquinelli

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Riflessioni sulla natura sociale e politica della Cina alla luce delle categorie marxiste. 
QUI la prima parte.

CAPITALE E LAVORO SALARIATO NELLA CINA DI XI JINPING

I filocinesi, per connotare la Cina odierna, ricorrono alle espressioni più bizzarre, tre in particolare mi hanno colpito: “socialismo dalle caratteristiche cinesi”,  “semi-socialismo”, “socialismo di mercato”.

Sono tre formule magico-ideologiche che hanno la pretesa di rappresentare per il solo fatto di nominare. Ma hanno un vulnus grande come una montagna: scambiano il socialismo con lo statalismo.  Come abbiamo visto nella prima parte, si basano su una evidente fraintendimento del concetto di Socialismo, e non sarebbe così difficile sostituirle con altri enunciati speculari e forse più appropriati del tipo:  “capitalismo dalle caratteristiche cinesi” ,  “semi-capitalismo” o, come ha scritto il filosofo Agamben, ricorrendo ad un eccentrico ossimoro: “capitalismo comunista” (4).  Branco Milanovic predilige il termine “capitalismo politico autoritario” (5). Per orientarci in questo guazzabuglio di definizioni e trovare la formula più adatta, occorre scovare la giusta chiave interpretativa, e in questo caso nessuno meglio di Marx può venirci incontro.

Questa chiave si chiama analisi dialettica della formazione sociale. Per comprenderne gli elementi costitutivi non ci vengono in aiuto i sociologi con la loro messe di dati empirici, gli economisti con le loro inutili curve di domanda e di offerta, o gli auto-incensamenti ideologici dei dominanti della Cina di oggi, cui fanno eco i loro tifosi nostrani. Ci occorre invece la fredda e lucida analisi scientifica della struttura socio-economica, mediante l’uso di categorie concettuali come modo di produzione, rapporti di produzione, forme giuridiche di proprietà.

Ogni formazione sociale è un insieme di differenti modi di produzione, e inquadrarne la  natura, significa isolare astrattamente il suo modo di produzione dominante. Tra il modo di produzione dominante e la sovrastruttura statale può esserci anche non corrispondenza, come per esempio accadde nella Francia del 700. Ivi, fino al 1789 il modo di produzione dominante era capitalistico nonostante lo stato e le leggi avessero ancora un carattere di tipo feudale. Con la rivoluzione la corrispondenza fu ristabilita.

In Cina sono presenti almeno quattro modi di produzione: la piccola produzione mercantile, il sistema cooperativo, il sistema capitalistico privato e il sistema economico statale guidato dal partito Comunista. Con i filocinesi possiamo concordare sul fatto che il quarto, il sistema economico statale, rappresenti il modo di produzione dominante. Ma in cosa consiste la sua essenza storico-sociale? Per un marxista la risposta è chiara ed esplicita: essa risiede  nei rapporti di produzione, che a loro volta sono influenzati dal livello di sviluppo delle forze produttive (“il mulino a vento ci da la società con il signore feudale, la macchina a vapore quella con il capitalista”), ma questo per ora non ci interessa.

“ è sempre nel rapporto diretto tra proprietari delle condizioni di produzione ed i produttori immediati che noi troviamo il segreto intimo, il fondamento nascosto di tutto l’edificio sociale e, per conseguenza anche la forma politica rivestita dal rapporto di sovranità e di dipendenza, in una parola di tutta la forma specifica dello Stato”.  (6)

Segreto intimo, fondamento nascosto, rapporto di sovranità e dipendenza, forma specifica dello Stato! Parole chiare e inequivocabili. Chi può negare che oggi in Cina il rapporto tra chi gestisce le condizioni di produzione statali, — pur non essendo proprietario de iure ma de facto dei mezzi di produzione –,  e i produttori immediati sia un rapporto di dominio piramidale tra una élite tecnocratica inamovibile e sovrana –  al cui vertice c’è un presidente a vita  — che concentra in sé tutte le prerogative del potere,  e il proletariato dipendente e anonimo che non possiede altro che la propria forza-lavoro?

Qualcuno potrebbe osservare che tale nesso di sovranità-dipendenza era già vigente in epoca feudale e schiavistica, o nel modo di produzione asiatico, e quindi non ci dice nulla ancora sulla natura capitalistica del rapporto stesso. Vero, ma esclude già la natura socialista di esso, in quanto l’essenza del socialismo risiede nel controllo diretto dei produttori associati sui mezzi e le finalità della produzione. In due parole nella democrazia reale, nella democrazia economica, nella sovranità popolare.

In quali forme si attua il rapporto di dipendenza tra proprietari de facto e produttori immediati in Cina? La mia risposta è chiara: nella forma capitalistica, più precisamente nella forma del capitalismo di Stato dalle caratteristiche cinesi, ove la classe dominante, rappresentata dalla tecnocrazia “comunista”, funge da capitalista collettivo ideale, con una mano tesa alla valorizzazione del capitale e all’accrescimento della potenza statuale e nazionale, e l’altra alla ricerca dei mezzi per garantire la stabilità sociale, l’armonia tra le classi e l’equilibrio dello sviluppo. E’ un caso che la leadership di Xi Jinping  si richiami con sempre maggiore insistenza alle tradizioni confuciane della millenaria civiltà cinese? Assolutamente no. Il confucianesimo, con il suo proverbiale richiamo al rispetto della autorità e gerarchia, torna assolutamente utile alla causa, che non e’ quella comunista, ma la tenuta complessiva del sistema.

La Cina è un paese  capitalista di stato dove la borghesia è espropriata politicamente e  il suo ruolo di classe dirigente è surrogato da una burocrazia “rossa”.  Niente di strabiliante o di miracoloso: fu previsto dallo stesso Engels in una delle sue più brillanti profezie:

“la borghesia dimostra di essere una classe superflua, tutte le sue funzioni sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati(7)

Se non ci fosse stata la rivoluzione maoista lo sviluppo autocentrato della Cina sarebbe andato a farsi benedire. La borghesia cinese era troppo debole e corrotta dall’imperialismo per tenergli testa ed impedire che la Cina continuasse ad essere saccheggiata dagli occidentali, inglesi in testa. Probabilmente avrebbe assolto la classica funzione di borghesia compradora, –come nella maggior parte dei paesi latino-americani– con un ruolo di intermediazione e collaborazione rispetto al gioco imperialista, di svendita delle risorse nazionali, in cambio di privilegi e prebende.  Il termine borghesia compradora è di origine portoghese e venne  utilizzato per la prima volta proprio in Cina per indicare gli intermediari dei monopolisti stranieri.

La profezia di Engels è di inquietante attualità. Peccato che appaia solo in una nota a piè di pagina del suo libro e pochi marxisti — tranne James Bhurnam (8) — ci hanno ragionato sopra. Ma a me ha colpito moltissimo. Intanto perché annuncia un futuro in cui ci può essere proletariato senza borghesia ma non senza capitale,  e in secondo luogo perché prefigura  il passaggio ad una formazione sociale post-borghese, tecnocratica, manageriale e aggiungo scientocratica, dove il potere viene esercitato da un élite stipendiata di super-professionisti, il famoso general intellect,  non al servizio del sogno socialista ma della più tetra delle distopie sociali, di cui vediamo già oggi, in piena pandemia, i prodromi, sia in Cina che in Occidente. Sarà tema di un’altra trattazione.

L’ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

Domenico Losurdo e Carlo Fomenti, nel tentativo di dare maggiore lustro alla loro tesi sul “socialismo di mercato” cinese, ci ricordano che, dalle riforme di Deng Xiao Ping in poi, 400 milioni di contadini affamati hanno abbandonato la campagna per migrare nelle città, sfuggendo alla povertà più estrema. Un “miracolo” mai registrato nella storia del capitalismo in cosi breve tempo. Non si avvedono però che proprio questo imponente processo migratorio è una perfetta testimonianza storica di quella che Marx chiamava “accumulazione originaria del capitale”.

Denaro e merce non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte, e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati”……….” Nella storia dell’accumulazione originaria fanno epoca dal punto di vista storico tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse di uomini vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege. L’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. La sua storia ha sfumature diverse nei vari paesi e percorre fasi diverse in successioni diverse e in epoche storiche diverse. Solo nell’Inghilterra, che perciò prendiamo come esempio, essa possiede forma classica (9)

Il rapporto capitale-lavoro può essere esaminato sia da lato della forza lavoro sia dal lato del capitale, o nella loro reciproca relazione. In termini hegeliani esso racchiude una unità di opposti, il che significa che un polo non può esistere senza l’altro, e sarebbe sufficiente, concettualmente, specificare i caratteri dell’uno per dedurre immediatamente quelli dell’altro.

IL PROLETARIATO

Dal lato del lavoro, per esserci rapporto capitalistico, l’operaio deve possedere i seguenti requisiti: a) deve vendere la propria forza lavoro come merce in cambio di un salario di sussistenza b) deve essere libero di vendere la propria forza lavoro sul mercato, a questo o a quel capitalista c) non deve far parte dei mezzi di produzione come lo schiavo o il servo della gleba c) non deve essere proprietario dei mezzi di produzione come lo è  il contadino coltivatore diretto. Questi quattro caratteri identificano i produttori immediati come proletari, differenziandoli dai loro lontani parenti  pre-capitalistici (schiavi e servi della gleba)

Attenzione: laddove lo Stato obbliga il salariato, con l’uso della forza, a svolgere  certe mansioni piuttosto che altre, a lavorare in determinati tipi di fabbriche statali, e non concede ad esso la libertà di spostarsi, di cambiare lavoro, di scioperare,  li non abbiamo più l’ideal-tipo del lavoratore salariato ma un soggetto di tipo pre-capitalistico, più vicino alla servo della gleba che al proletario. Questa sottospecie produttiva  era presente nella Russia di Stalin (per spostarsi da una città all’altra lui impose addirittura il passaporto, il lavoro era pressoché militarizzato),  o nella Cina Maoista. Il PC cinese, aprendo al mercato, si sta muovendo per la “liberalizzazione” della forza lavoro, concedendo al salariato maggiore  libertà nello scegliere il proprio padrone, o la città in cui lavorare.  Ma si guarda bene dal fornire tutte quelle libertà sindacali e rivendicative che il movimento operaio ha ottenuto in Occidente, e che purtroppo anche qui, per un parallelo processo di cinesizzazione, stanno scomparendo.

Un’analisi attenta dei caratteri della forza lavoro cinese, sia quella attiva nel settore privato che in quello statale, ci indica che oggi essa possiede tutti i requisiti del salariato (soggetto merce, forma salariale della retribuzione, separazione dalla proprietà e dal controllo dei mezzi di produzione). Costituisce  ne’ più né meno che  la parte  variabile del capitale. E’ lontana dall’essere classe dirigente di un fantomatico processo di transizione al socialismo. L’unico processo di transizione che io vedo in atto nella Cina di oggi è quello da una formazione “collettivista burocratica”, presente all’epoca di Mao primo del 1978, ad una capitalista di Stato post-borghese, come vedremo nella terza parte di questo saggio.

Come accade in Occidente Il soggetto operaio che lavora nel settore pubblico vive lo stesso tipo di estraneazione di quello che lavora nel privato, e sfido gli apologeti del socialismo di mercato a trovare differenze di status tra le due soggettività produttive. E’ vero che Huawei, il gigante delle telecomunicazioni cinesi, appare come soggetto giuridico pubblico, non privatistico  (10) ma in esso la volontà dei lavoratori conta, per dirla in gergo,  come “il due di denari quando è briscola coppe”. Né più e né meno che nelle multinazionali Amazon o Apple. L’operaio che assembla cellulari in Huawei è li, zitto e buono per ottenere un salario di sopravvivenza, non per decidere come assemblare il prodotto, con quali tempi e ritmi, a chi e dove venderlo. La separatezza ne fa un proletario e dove esiste un proletario c’è sempre un capitalista che lo comanda. Il rapporto capitale-lavoro, permane nella sua unità di opposti, anche se difronte all’operaio si erge un capitalista buono che invece di bastonarlo e reprimerlo, gli concede diritti sindacali, scuole e ospedali gratuiti e magari un reddito di cittadinanza qualora lo licenzi.

Se vogliamo dirla tutta neanche le cooperative cinesi, controllate dallo Stato sfuggono a questa logica. Avendo come fine il profitto ed operando in un mercato, sono di fatto  unita’ capitalistiche, e i cooperatori  salariati di se stessi. Un po’ come le  “coop rosse” italiane dove i livelli di sfruttamento e di alienazione sono identici, se non superiori a quelli vissuti dagli operai sotto il comando di un capitalista privato.

IL CAPITALE

Esaminiamo ora il rapporto capitale-lavoro in Cina dal lato del capitale.  Non ci vuole un genio per capire  che nel settore capitalistico cinese in mano ai  grandi miliardari  — se ne contano secondo stime recenti  almeno 384 di contro ai 689 degli Usa, e ai 35 italiani(11) —  il denaro operi come capitale, cioè venga impiegato nel processo produttivo per essere valorizzato, succhiando plusvalore alla forza lavoro subalterna. Che forse il ciclo del capitale, Denaro-Merce Plus-denaro (D-M-D’) subisce significative mutazioni nelle industrie strategiche controllate o partecipate dallo Stato, sotto il controllo del Partito comunista cinese? A me non pare. Lo stato cinese, come ogni stato sovrano capitalistico,  crea denaro dal nulla o con la leva fiscale, poi lo investe nel processo produttivo per ottenere un surplus, che viene a sua volta reinvestito come capitale o redistribuito nella forma di servizi sociali e assistenziali. Opera la legge della riproduzione allargata del capitale in un contesto di tipo keynesiano, cioè il processo di accumulazione mediante il quale il plusprodotto serve ad estendere la base produttiva e ad oliare i dispositivi del dominio e del consenso.

Il fatto che il surplus della nazione cinese venga speso dall’elite’ del PC in modo più efficiente che in Occidente  — va da se’ che se fosse completamente consumato saremmo difronte ad una nuova aristocrazia feudale — con  piani quinquennali ed un’ottica di lungo periodo, maggiormente attenta alla piena occupazione e ad evitare squilibri che possano fare entrare in crisi l’intero sistema, non  indica che la Cina sia Socialista ma solo che la sua classe dirigente è più accorta, previdente e  lungimirante. Indica che il capitalismo cinese, rispetto a quello occidentale,  ha tratto migliori lezioni dalle leggi del suo stesso funzionamento. La super-class occidentale, dedita oramai alla rendita parassitaria e alla speculazione finanziaria, bramosa solo di produrre denaro attraverso denaro senza passare per il ciclo produttivo, oggi possiede   sicuramente uno spirito e una praxis meno capitalista della tecno-crazia che guida il gigante asiatico.

Riassumendo: i due grandi pilastri dell’accumulazione capitalistica nella Cina Post-maoista sono il serbatoio sconfinato di manodopera a basso costo proveniente dalle campagne e il ruolo dello Stato che, contrariamente a ciò che accade nell’occidente neoliberista, mantiene una funzione direttiva nei settori strategici, alloca risorse, distribuisce ricchezze,  stimola la crescita del mercato interno, investe in ricerca, invia le migliori teste a studiare alla Silicon Valley offrendogli profumate borse di studio, crea infrastrutture con l’uso keynesiano della leva monetaria, e gode perciò di grande consenso sociale.

Il capitale cinese non ha bisogno di delocalizzare le produzioni all’estero perché possiede già al suo interno il maggiore esercito industriale di proletari a basso costo del mondo il quale, unitamente all’high-tech di cui ora i cinesi son all’avanguardia,  garantisce i più alti tassi di plusvalore possibili sul mercato internazionale. Se delocalizza il capitale  finanziario all’estero, acquisendo il controllo di grandi imprese, porti, aeroporti, debiti di altri Stati etc. lo fa perché soffre a sua volta di sovraccumulazione del capitale e sovrapproduzione delle merci. Non trovando sufficiente collocazione nel mercato interno, in crescita ma saturo, i capitali cinesi spiccano il volo e si avventurano alla conquista dei mercati esteri, sottraendo ai concorrenti occidentali quote di produzione e domanda globale. Solo nel Debito pubblico americano la Cina ha investito 1,3 trilioni di dollari, una cifra pari a più della metà del debito pubblico italiano, o del nostro PIL.  Non dimentichiamo inoltre che 4 delle maggiori banche mondiali sono cinesi.

A smentire la prosopopea dei paladini del “socialismo cinese” vi è pertanto anche la partecipazione della Cina al grande banchetto mondiale della speculazione finanziaria, ove il capitale prende la scorciatoia parassitaria della valorizzazione,  nella forma  D-D’ (denaro-plus-denaro) senza la mediazione di M, cioè del lavoro. E’ un caso che all’ultimo incontro di Davos dei potenti del pianeta, la Cina si è eretta a guardiano della globalizzazione e del libero scambio mondiale dei capitali? E non è  forse il Trumpismo, con la sua politica protezionistica, il ruggito del leone ferito, l’inevitabile reazione di una grande potenza imperialista, che si vede sfilare sotto il naso, dal piu’ scaltro dei concorrenti,  potere e denaro, insieme alla leadership planetaria?

[continua]

NOTE

(4) Giorgio Agamben, www.quodlibet.it/giorgio-agamben-capitalismo-comunista

(5)  Branco Milanovic, capitalismo contro capitalismo, editori Laterza 2020

(6) K. Marx il capitale vol 1, tratto da Bruno Rizzi il collettivismo burocratico, Sugarco edizioni pag 69

(7) F. Engels, opere complete, vol 25, pag 274, antidhuring. Editori riuniti 1974.

(8) K. Marx, il Capitale, Einaudi 1975 volume 1 pag 880-881

(9) James Burnham, la rivoluzione dei tecnici, Mondadori 1947

(10) Gennaro San Giuliano, il nuovo Mao, Xi Jinping e l’ascesa al potere nella Cina di oggi, mondadori 2019, pag 254

(11) Michelangelo Cocco, Una Cina “perfetta”, la nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale.

2 pensieri su “LA CINA E’ SOCIALISTA? (2) di Mauro Pasquinelli”

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