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TU APRI, IO ESCO! di Sandokan

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«A volte tutta la vita si riduce ad un unico, folle gesto» Jake Sully nel film Avatar

 Un anno. E’ un anno che siamo sottoposti ad un soffocante Stato d’emergenza. In questi dodici mesi numerose proteste pubbliche ci sono state, ma hanno visto mobilitarsi piccole minoranze coraggiose — su tutte ha spiccato la Marcia della Liberazione del 10 ottobre, quindi la grande manifestazione svoltasi a Milano il 9 gennaio. Sembrava che esse fossero condannate a cadere nel vuoto, visto che la stragrande maggioranza dei cittadini ha voluto credere alle autorità. Sembrava un’adesione blindata, che niente e nessuno poteva scalfire. “Italiani più disciplinati che i tedeschi”, suonava il refrain dei media per la gioia del governo. Sembrava…

Ad un anno di distanza il vento sta cambiando, una luce si intravvede in fondo al tunnel della pandemenza.

Primo. Ieri, 13 gennaio, un gruppo di ristoratori napoletani, sfidando apertamente i divieti repressivi, hanno prima rallentato e poi bloccato l’Autostrada del Sole [vedi foto sopra] contro le scellerate disposizioni governative che di fatto condannano a morte certa, assieme alla grande maggioranza degli esercenti, i lavoratori del settore e l’enorme indotto che gira attorno al settore. Si è trattato della più spettacolare azione collettiva di DISOBBEDIENZA CIVILE da un anno a questa parte. Una bella vittoria visto che essi hanno ottenuto che una delegazione fosse ricevuta in mattinata a Roma dalla Presidenza del Consiglio.

Secondo. Migliaia di studenti medi, stanchi della follia chiamata “didattica a distanza”, hanno inscenato vivaci proteste in tutto il Paese. Dalla loro anche insegnanti e presidi. Universitari non pervenuti, e non per caso. Mentre le università sono frequentate dai figli di ceti abbienti (dove è più forte la presa del pensiero globalista, europeista) le medie superiori sono ancora luoghi in cui si ammassano giovani di umili condizioni sociali, ovvero gli strati sociali che sono più penalizzati dalle scellerate politiche di regime. Il sintomo, insomma, di un risveglio della nostra gioventù.

Terzo. “#IO APRO!”. Sta diventando virale la proposta, lanciata da un gruppo di ristoratori, di violare le inaccettabili e insensate disposizioni di chiusura del governo, aprendo agli avventori domani 15 gennaio. A tre giorni dal lancio già 50mila adesioni. E stanno crescendo. Si tratta della prima clamorosa azione di DISOBBEDIENZA CIVILE di massa contro la “dittatura sanitaria” dall’inizio dell’incubo. Lassù non nascondono di essere fortemente preoccupati. Hanno ragione ad esserlo.

Io, domani sera sarò tra i disobbedienti che si recheranno al ristorante. Non avrei mai pensato che mangiare una pizza o un piatto di pastasciutta sarebbe stato un gesto sovversivo! Ci sarà chi farà spallucce e parlerà di follia. Rispondo come Jake Sully in Avatar: “A volte tutta la vita si riduce ad un unico, folle gesto”.

3 pensieri su “TU APRI, IO ESCO! di Sandokan”

  1. Cittadino dice:

    Ben vengano queste proteste, ma il punto è se avranno la possibilità di uscire dalla dimensione della occasionale rivolta di categoria o no.

    Ricordiamoci ancora dei forconi, movimento ben più grosso ed organizzato. Quando rientra la protesta dei trasportatori si comincia ad indebolire, va avanti ancora un po’ finché la sua inconsistenza interna lo porta alla disgregazione e scomparsa. E ripeto, i forconi erano ben più organizzati di questi protestatori.

    Sono solo commercianti che vogliono, pur giustamente, riaprire? Oppure hanno compreso la reale portata dell’attacco e la necessità della costruzione di organizzazione ben più solida che difenda i bisogni delle classi popolari proponendo una diversa visione del mondo? Gli spazi per l’ottimismo mi sembrano ben pochi, ma spero di sbagliare.

    Giovanni

  2. Cittadino dice:

    “Universitari non pervenuti, e non per caso.”

    Mi era sfuggita questa. Sì, dalle università non mi aspetto nulla, da sempre sono organi del conformismo ma la spiegazione che dai è troppo semplicistica. Anche molti figli della famiglie in umili condizioni sociali frequentano l’università (io sono stato fra questi). Specialmente negli ultimi decenni, col proliferare di corsi di laurea di tutti i tipi come funghi, dove era necessario arginare temporaneamente il crescente numero di giovani che chiedevano lavoro. Poi sono spuntate specializzazioni e specializzazioncine (*) coi baronotti-managerotti che si scannavano tra loro per mettersi in capo alla gestione di qualcosa rosi dal desiderio folle, fanatico, sconclusionato di sentirsi dei piccoli dominanti anche loro. Il tutto mentre i giovani, spesso anche figli di classi umili, cercavano disperatamente la loro via di sopravvivenza dentro questo sistema. Ci sarebbe davvero molto da dire al riguardo, ma certamente la cosa non si può ridurre alla spiegazione dual-manichea di Sandokan.

    Giovanni

    (*) Un pensiero particolare al riguardo va alla inutilissima specializzazione all’insegnamento, come se un laureato in lettere, matematica, ingegneria non avesse già le conoscenze necessarie ad insegnare. Gli manca solo l’esperienza ma quella si fa sul campo, non con un ulteriore diplomino di certificazione. I miei insegnanti di scuola non non hanno avuto nessuna specializzazione e non avevano nulla di meno rispetto e quelli di adesso.

  3. Graziano+PRIOTTO dice:

    Universitari restii a protestare ? Anche un motivo tecnico -organizzativo, ma non solo purtroppo.

    Quando nel 1968 -69 partecipavo alle occupazioni delle università lo facevo da studente lavoratore ma anche come sindacalista e in unione ai movimenti che allora (Torino: es. Lega studenti-operai, movimenti studenteschi e sindacali).
    Era possibile organizzarsi, incontrarsi e i contatti fra studenti erano incomparabilmente più facili che non attualmente.
    In quegli anni e fino alla fine degli anni ‘ 70, era impossibile entrare in un’università italiana o francese anche tedesca (dove studiavo per una seconda laurea, sempre da studente lavoratore) senza ricevere almeno un paio di volantini di una delle tante iniziative, gruppi e movimenti vari che pullulavano in quel periodo.
    Ho visto lentamente sparire questa atmosfera quando poi insegnavo in un’ università tedesca dal 1980 in poi. Alla svolta del secolo credo che meno dell’1 % degli studenti fosse attivo politicamente. Per non dire nei corsi, che con la riforma “Bologna” hanno gradualmente trasformato le università europee in luoghi dove si assorbono contenuti e la discussione o la critica è inesistente. Peggio credo che nelle scule superiori, dove gli studenti trascorrono la giornata sempre insieme e quindi già anche soltanto per questo motivo si possono meglio organizzare.
    Per unmomento avevo creduto che l’assurda chiusura delle università fosse dovuta al timore di veder nascere rivolte, anche perché
    dal punto di vista del contenimento dell’infezione da Covid le università sono il luogo dove meno c’era e c’è rischio: se non si è in grado di superare senza sintomi o quasi un’influenza sia pur grave a 20 anni, bisogna avere patologie gravi. Anche i docenti tutto sommato e salvo una fascia vicino al pensionamento non avrebbero molto da temere e non sarebe difficile organizzare insegnamenti in presenza mantenendo distanze di tutta sicurezza.
    Ma ora mi rendo sempre più conto che se sono state chiuse si è trattato di un timore ingiustificato da parte dei governi, infatti nessuno ne chiede l’apertura, ed il motivo credo sia purtroppo quello che è stato detto: manca l’interesse e la voglia di lottare. Ma non solo da parte dei figli di papà delle classi abbienti: anche gli studenti delle famiglie meno abbienti o gli studenti lavoratori non hanno stimolo a lottare, né per un’università migliore, né semplicemente per farle riaprire. In Italia la laurea è un passaporto per la disoccupazione o sottoccupazione , e chi studia e si laurea con l’obiettivo di un lavoro giustamente retribuito sa che per ottenerlo deve emigrare: per costoro corsi online o in presenza diventano un aspetto secondario e trascurabile.
    Le ultime proteste e manifestazioni politiche nelle università le ho viste ,sempre più sporadiche e fiacche, verso la fine degli anni ‘ 70.
    Poi soltanto conformismo e accettanza di ogni imposizione pur di arrivare al titolo, anche in Germania, dove ancora le lauree non sono certificati di disoccupazione perché il lavoro per gli accademici non manca.

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