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IL DECLINO ITALIANO E SAN DRAGHI di Leonardo Mazzei

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Le cifre del declino italiano sono tante e tutte convergenti. La caduta del Pil nel 2020 (-8,9%) non ha precedenti nel dopoguerra. Un vero tracollo, che non è stato però un fulmine a ciel sereno, bensì il picco negativo di una decadenza iniziata vent’anni fa. Ce lo ricorda un pezzo del Sole 24 Ore del 25 febbraio.

L’articolo di Gianni Trovati – Il gelo italiano lungo 20 anni – si basa su un’elaborazione dei dati ufficiali della Commissione europea. Il fine è quello di mettere a confronto l’andamento dell’economia italiana con quello dell’intera Eurozona. Il risultato è impressionante. Dal 2001 al 2020 l’Italia ha perso oltre il 18% rispetto all’insieme dell’area euro. Una vera catastrofe, ma ovviamente il quotidiano di Confindustria si guarda bene dal chiedersi cosa sia successo di particolare 20 anni fa.

I numeri del Sole non lasciano comunque spazio a troppe discussioni sulla drammatica decadenza del nostro Paese. Leggiamo:

«La lunga stagnazione italiana ha ridotto del 18,4% il peso del nostro Paese sul complesso della produzione cumulata dall’Eurozona nei suoi confini attuali. Oggi il Pil italiano vale il 14,5% di quello dell’area euro, contro il 17,7% coperto nel 2001, all’interno di un quadro che negli anni a cavallo del 2000 era piuttosto stabile».

Quale la conseguenza sul reddito medio degli italiani è presto detto:

«Nel 2001 a ogni italiano toccava in media un reddito esattamente in linea con i livelli europei, e pari all’85,9% di quelli tedeschi. Oggi il Pil pro capite da noi è fermo all’82,8% della media dell’Eurozona, e arriva al 67,6% dei valori registrati in Germania».

Tradotto in cifre, se in Italia nel 2001 il reddito medio per abitante era di 22.888 euro, praticamente identico ai 22.884 euro della media dell’Eurozona; nel 2020 il reddito italiano (29.636 euro) è stato del 17,8% più basso rispetto a quello dell’intera area della moneta unica (35.809 euro).

Attenzione! Quando si parla di reddito medio non scordiamoci mai il pollo di Trilussa. E’ chiaro infatti come l’impoverimento abbia colpito essenzialmente le fasce medio-basse della popolazione. Del resto, quarant’anni di neoliberismo hanno lasciato un segno pesante. La disuguaglianza è in crescita costante dagli anni ’80 del secolo scorso, ma essa è aumentata a dismisura proprio con il Covid. L’indice Gini, che ne dà una misurazione necessariamente approssimativa ma sostanzialmente corretta, è salito dallo 0,348 del 2019 allo 0,411 del 2020. Un +18,1% in un anno! Una cifra che dovrebbe essere sempre ricordata a chi nell’epidemia vede solo il virus…

Detto questo, è chiaro come il crollo del reddito medio segnali comunque l’inarrestabile decadenza dell’Italia. Un declino costante, così descritto da Gianni Trovati:

«L’ultimo significativo balzo in avanti della nostra performance, che ha visto il Paese correre in misura percettibilmente più veloce della media europea, risale al 1995-1996, quando la quota italiana nel prodotto dell’attuale eurozona è salita di un punto e mezzo. Poi più nulla: per la regola della crisi, che da noi attenua i rimbalzi e accentua le cadute. Da allora i numeri compongono una litania: che vede l’Italia sfondare al ribasso quota 17% nel 2008, 16% nel 2014 e 15% nel 2019. Sempre più ai margini».

Strano, bizzarro, davvero stravagante! Pensate un po’, nel 1995-96 c’era ancora la provinciale e bistrattata “liretta”, quella che faceva inorridire gli economistoni ultraliberisti! Dopo arriverà invece il grande, mitico e straordinario “eurone”, e guarda caso è da lì che inizierà prima la decadenza, poi l’autentico tracollo dell’economia italiana. I 20 anni di gelo del titolo del Sole coincidono infatti esattamente con il ventennio dell’euro. Che sia un caso? Come no!

Per semplicità abbiamo parlato fin qui solo di Pil, assoluto e pro-capite, ma a nessuno deve sfuggire come questi numeri siano strettamente legati alla vita delle persone in termini di reddito, potere d’acquisto, occupazione e sicurezza sociale. La cosa è talmente ovvia che non occorre insistervi.

Il signor Mario Draghi non viene da Marte

Il signor Mario Draghi, questo freddo calcolatore dall’eloquio imbarazzante, ha la sua (grande) parte di responsabilità nel disastro italiano degli ultimi decenni. Responsabilità di tutti i tipi. Prima, in veste di Direttore generale del Tesoro, è stato il liquidatore fallimentare delle grandi aziende di Stato. Poi, come presidente entrante della Bce, è stato colui che ha dettato (nella famosa lettera del 5 agosto 2011, insieme all’uscente Trichet) le regole della cura austeritaria cui veniva condannata l’Italia. Infine, come numero 1 della banca di Francoforte, è stato l’estremo difensore della gabbia che stritola il nostro Paese, quella dell’euro appunto. Una ferrea volontà, politicamente criminale, confermata non a caso e con gran vanto nel discorso di insediamento al Senato. «L’euro è irreversibile», ha ribadito. Un’insistenza che si potrebbe commentare in vario modo, ma che a me a fatto venire in mente il detto popolare che ci dice che “la lingua batte dove il dente duole”…

Il signor Mario Draghi non viene certo da Marte, bensì dai più importanti palazzi del potere. Egli (si scusi l’ovvietà) è dunque tutt’altro che estraneo alla condizione in cui è stata gettata l’Italia. L’articolo del Sole da cui siamo partiti parla non a caso di “crollo italo-greco”. La Grecia è infatti l’unico Paese che, sempre negli ultimi vent’anni, ha visto una caduta dell’economia (-28,9% rispetto all’Eurozona) superiore a quella del nostro Paese. Ma in questo periodo Italia e Grecia hanno avuto in comune principalmente una cosa: le tremende politiche di austerità imposte proprio per tenere in piedi il feticcio dell’euro. Politiche che, guarda caso, hanno prodotto un disastro sia al di là che al di qua del Mar Ionio.

Alcuni dati del disastro italiano

Quelle politiche di austerità – datate soprattutto dall’arrivo, nel novembre 2011, dell’altro Salvatore nazionale Mario Monti – saranno la causa principale di quell’approfondimento del gelo ventennale che ci ha portato fino alla crisi del Covid. Se fino al 2011 gli investimenti (pubblici e privati) erano rimasti allineati a quelli dell’Eurozona, da allora inizierà la discesa italiana. Oggi gli investimenti nel nostro Paese rappresentano solo il 18% del Pil (e di un Pil che nel frattempo è calato), contro il 21% dell’Eurozona. Tre punti percentuali possono sembrare pochi, ma tradotti in euro essi significano più di 50 miliardi all’anno che dal 2012 sono venuti a mancare all’economia italiana.

Questo ha portato con sé un altro disallineamento: quello del tasso di disoccupazione, che dal 2013 ha visto sprofondare l’Italia ad un livello assai più alto di quello dell’insieme dell’Eurozona. Qui le statistiche ufficiali ci parlano di uno scostamento di due punti (10% circa l’Italia, contro l’8% dell’Eurozona), ma con il Covid questi dati sono diventati del tutto aleatori. Il boom della disoccupazione nel nostro Paese è infatti oggi mascherato dal ricorso al blocco dei licenziamenti e della cassa integrazione in deroga. E non è difficile comprendere come i numeri veri della disoccupazione siano nettamente superiori a quelli che Istat, governo e mezzi di informazione vorrebbero farci credere.

Tra i tanti grafici che potremmo produrre per evidenziare il rapporto diretto tra la crisi italiana e l’entrata nell’euro, questo sulla produzione industriale è uno dei più chiari e definitivi.

Fonte: Dipe (Dipartimento Programmazione Economica – Presidenza del Consiglio dei ministri)

Ma non c’è solo l’economia. Il suo gelo ventennale ha prodotto in parallelo un altro disastro, quello demografico.

Fonte: Dipe 

Come si vede, qui l’anno chiave è il 2008, quello dell’inizio della grande crisi sistemica globale. Il calo della natalità ha certamente anche altre motivazioni, sulle quali adesso non entriamo, ma il rapporto con la crisi economica, dunque con l’incertezza esistenziale che ha prodotto nella vita delle persone, non potrebbe essere più evidente. Questo legame è sempre esistito, ma esso diviene grave e socialmente patologico nel momento in cui la crisi diventa infinita e senza soluzione, proprio come avvenuto in Italia a partire da quell’ormai lontano 2008.

Adesso è arrivato il Covid. Peggio, è arrivata la sua gestione terroristica. Ed i suoi effetti sugli indicatori demografici non sono difficili da prevedere. Non si tratta solo dell’aumento della mortalità, sulla quale bisognerebbe comunque distinguere tra le vittime del virus, quelle dei mali di una sanità devastata dai tagli imposti dall’austerità targata euro (sempre lì inevitabilmente si torna) e quelle per così dire “indirette”, causate cioè dalla integrale covidizzazione di una sanità dove si è smesso di curare le altre malattie. Si tratta anche e soprattutto dell’ulteriore crollo della natalità.

Secondo i dati evidenziati dal presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, lo scorso 1 febbraio, il vero gelo demografico deve ancora arrivare. E non è difficile comprendere come questa sia una facile previsione. E’ molto probabile che il dato finale delle nascite del 2020 sfondi verso il basso la soglia dei 400mila nati. Ancora mancano i dati nazionali di novembre e dicembre, ed è chiaro che saranno proprio quelli dell’ultimo mese dell’anno, che si colloca a 9 mesi dall’inizio della crisi del Covid, a darci un’indicazione più precisa soprattutto per quanto ci si si può aspettare nel 2021.

Sul 2020 ci sono invece i dati completi di 15 grandi città, un campione piuttosto rappresentativo e sicuramente indicativo della tendenza generale. Sentiamo cosa ci dice in proposito Blangiardo:

«Nell’ambito di tale insieme, che aggrega circa 6 milioni di residenti e ha dato luogo nel 2019 al 10,6% dei nati in Italia, la frequenza di eventi nel corso del 2020 è diminuita mediamente del 5,21%. Un valore che è tuttavia la risultante di dinamiche ben distinte in corso d’anno: si ha infatti un calo medio del 3,25% nel complesso dei primi dieci mesi, che poi sale all’8,21% in corrispondenza del mese di novembre e raggiunge il 21,63% in quello di dicembre».

E’ a quel -21,6% che bisogna guardare per capire la gravità della situazione. Perché gli aridi numeri dell’economia non possono dirci tutto sul dramma sociale in corso. Ma essi, uniti alla narrazione terroristica dell’epidemia, impattano violentemente sulla vita degli esseri umani in carne ed ossa. Impattano da sempre sul lavoro e sulla sua sicurezza, sul reddito e sulle aspettative ad esso legate. Ma con il panico da Covid, così alimentato da media e potere, l’impatto è ancora più profondo e radicale, come dimostra l’inarrestabile aumento dei disturbi psichici, vera punta dell’iceberg di un malessere ancora più profondo.

Conclusioni

Potrà San Draghi – Santo subito!, Santo subito!, Santo subito! – fare il miracolo della fuoriuscita da una tale situazione? La mia risposta è no. No, non perché non vi sia via d’uscita, ma perché quella via è proprio quella che il Santo di Goldman Sachs non può intraprendere: la via dell’uscita dal neoliberismo e da quella gabbia eurista che ne è la sua concreta realizzazione.

Certo – ricordiamoci l’Helicopter Money di Milton Friedman – anche i liberisti sanno bene che non è questo il momento dell’austerità. Ma la politica espansiva oggi proposta da Draghi, peraltro non difforme da quella ipotizzata dal precedente governo, ha il solo fine di parare la botta, salvare il sistema ristrutturandolo, favorire quella “distruzione creativa” che per milioni di persone significherà solo perdita del lavoro e del reddito.

Dopo un anno come quello passato, ad un certo punto vi sarà ovviamente un rimbalzo. Ma di che tipo? Per avere l’ennesimo, quanto probabilissimo rimbalzo del gatto morto, non c’era bisogno di scomodare la scienza di San Draghi. A tale scopo bastava pure un Conte qualsiasi, pure quello dell’Inter.

E’ naturalmente troppo presto per emettere una sentenza di questo tipo. Ma il fatto che già si parli di un ritorno ad avanzi primari attorno all’1,5% del Pil ci dice già quanto sarà asfittica e puramente emergenziale la politica espansiva di Draghi.

Per iniziare a portare l’Italia fuori dal gelo ventennale, di cui pure il Sole ci parla, occorre ben altro. Diciamo che servirebbe una shock economy al contrario. Al posto di quella teorizzata dai guru neoliberisti e poi realizzata dalla cupola mondialista – sfruttare le grandi crisi per arricchirsi, privatizzare e liberalizzare tutto in nome di un’emergenza alla fine della quale nulla tornerà come prima (esattamente il modello Covid, per chi non lo avesse ancora capito) – servirebbe l’esatto contrario: un’economia guidata da uno Stato deciso a debellare disoccupazione e povertà, risoluto nel riprendere in mano i settori strategici dell’industria e della finanza, determinato a riconquistare una piena sovranità a partire da quella monetaria.

Solo in questo modo avremmo l’inizio della svolta necessaria, soltanto così non solo l’economia ma pure la società comincerebbe a risollevarsi anche spiritualmente.

Ma questa strada è esattamente quella che il banchiere Mario Draghi non potrà mai intraprendere. Con buona pace di quelli che credono che dopo il Draghi 1, distruttore dell’Italia, avremo adesso per qualche strana magia il Draghi 2, il Salvatore. E con grande delusione per tutti coloro che, disperati e in buona fede, continuano a credere alla leggenda dell’uomo del destino.

Con Draghi il declino italiano non si arresterà. Del resto, non è questa la sua vera missione. Lo scopo principale della sua venuta in Terra è un altro: quello di legare definitivamente il nostro Paese (che, come si è capito al Senato, egli non considera invece il suo) alle insostenibili regole dell’oligarchia eurista ed agli interessi più generali della cupola globalista di cui fa parte. Da qui l’altro obiettivo di San Draghi, quello di fare dell’Italia un luogo privilegiato della trasformazione del Great Reset.

Costruire l’opposizione a tutto ciò è dunque il compito dell’oggi. L’unico modo di preparare concretamente la strada dell’alternativa politica e sociale. All’inizio non saremo in tanti, ma non ci vorrà molto a dissipare la nebbia in cui è adesso avvolta l’ennesima grande illusione messa in campo dai dominanti. A quel punto aver giocato la carta Draghi potrebbe rivelarsi un boomerang per lorsignori. A quel punto ne vedremo delle belle. Non facciamoci trovare impreparati.

3 pensieri su “IL DECLINO ITALIANO E SAN DRAGHI di Leonardo Mazzei”

  1. Francesco dice:

    …E ora Grillo medita di “graziare” i parlamentari che hanno votato CONTRO il governo della “grande ammucchiata” e per questo sono stati espulsi dal Movimento. (“…quanto è umano lei…”)
    Che QUALCUNO, IN ALTO, si sia reso conto che quei parlamentari potrebbero diventare “pericolosi” e abbia ordinato di reintegrarli nel Movimento per evitare che vadano a ingrossare le fila di una potenziale VERA opposizione al Sistema?

    Francesco F.
    Manduria (Ta)

  2. Cittadino dice:

    “non ci vorrà molto a dissipare la nebbia in cui è adesso avvolta l’ennesima grande illusione messa in campo dai dominanti”

    Questo dipende da cosa effettivamente farà Draghi. Se porterà davvero a fondo l’attacco o se invece fine non resterà paralizzato anche lui e, in questa eventualità, cosa causerebbe questo fra i suoi “mandanti” stranieri.

    Intanto oggi si vocifera di proseguimento della cassa integrazione e rinnovo del blocco dei licenziamenti fino a giugno. Ovvero un altro rinvio, un altro calcio al barattolo. E mentre tirano un temporaneo sospiro di sollievo i cassintegrati ma certo non disoccupati e lockdownizzati (come sempre del resto) resta da capire cosa avverrà dopo, ammesso che davvero avvenga qualcosa.

    Giovanni

    1. Cittadino dice:

      E aggiungo perché lo vedo solo adesso. Pare che il patto di stabilità non sarà riattivato neppure nel 2022, se ne riparla nel 2023. La crisi continua strisciante, i singoli e le categorie colpite sono sempre più soli ma nulla di più si smuove.

      Come per la brexit: deal, no deal, deal, no deal ed alla fine un accordicchio che rinviando i punti su cui non riescono a mettersi d’accordo consente loro di andare avanti mentre lo scontro interno imperversa.

      Le aziende continueranno ad usufruire della cassa integrazione e logorarsi lentamente, i licenziabili saranno licenziati gli altri continueranno con “io speriamo che me la cavo”.

      Certo continuo a sperare di sbagliarmi, che qualche grosso scossone che arrivi finalmente, ma lo spero da ormai troppi anni.

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