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DUALISMO PROLETARIO di Moreno Pasquinelli

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Inesorabile si sta avverando la profezia degli strateghi del Grande Reset (c’è un prima e un dopo il Covid — Bc e Ac: Before Covid and After Covid): cancellare il passato, avanti verso la “nuova normalità” biopolitica.

Tra i tanti frutti amari del regime pandemico ieri non c’è stata alcuna celebrazione del 1 Maggio. Silenzio tombale. La tragedia di Chicago del 1886 dimenticata. I tanti martiri caduti nella lotta per l’emancipazione del lavoro gettati nell’oblio. Non abbiamo alcuna nostalgia per gli stanchi e consunti riti sindacali, tuttavia, proprio nella forma dell’assenza, viene ufficialmente sancita la morte del movimento operaio.

La borghesia, che del movimento operaio certo non sente alcuna mancanza, non si è lasciata sfuggire l’occasione per celebrare la dipartita. Lo ha fatto ad esempio Il Corriere della Sera di ieri con un editoriale di Dario Di Vico. Ne consigliamo la lettura.

Che ci dice De Vico? Ci dice che lo shock pandemico, con connessa e pilotata recessione economica, ha colpito duramente il mondo del lavoro salariato. Sottolinea che non si assiste solo ad uno sfascio, ad una destrutturazione. In parallelo procede spedita una riconfigurazione (o ricomposizione) della classe proletaria.

Anzitutto segnala il fenomeno della disoccupazione selettiva:

«La cittadella del lavoro manifatturiero e in qualche modo novecentesco ha tenuto, le imprese più strutturate hanno difeso la loro posizione nelle catene del valore internazionale e così la crisi si è scaricata prevalentemente sull’hinterland del lavoro, ovvero giovani, donne e partite Iva».

Questa cosiddetta disoccupazione selettiva, corrobora e consolida la polarizzazione — che era evidentemente in corso da tempo — interna al mondo del lavoro. A fronte dei “garantiti della pandemia” (dipendenti pubblici, buona parte dei pensionati, i lavoratori della cittadella manifatturiera) abbiamo il trio degli esclusi, i cittadini esterni al perimetro dell’industria (anzitutto quella orientata ai mercati globali) e del settore pubblico, ovvero i “non-garantiti”. Una polarizzazione che il capitale, nel suo cieco movimento, inesorabilmente trasformerà in una vera e propria spaccatura sociale.

De Vico descrive questa polarizzazione con una metafora efficace assai:

«La fotografia dei prossimi anni ci dice che le distanze tra i due mercati [tra inclusi ed esclusi, NdA] si allargano e l’unica possibilità di conoscersi che avranno un giovane ingegnere e un rider suo coetaneo sarà quella di aprire la porta per il ritiro del cibo».

Questo fenomeno, che potremmo chiamare “dualismo proletario” — nella “nuova normalità”, nel capitalismo After covid, gli ingegneri non saranno certo dei nababbi visto che i loro salari già ora si approssimano poco sopra la soglia a quelli degli operai specializzati che furono — non è un fenomeno sorprendente. Non c’è, a ben vedere, nulla di inedito o sbalorditivo. La “nuova normalità” appare piuttosto come un ritorno al capitalismo che fu, quando, accanto ad una massa di proletari che tiravano a campare con salari che consentivano la mera sussistenza, c’era una minoranza che veniva appunto chiamata “aristocrazia operaia”.

I veloci processi di automatizzazione e di robotizzazione non solo accresceranno la massa dei disoccupati — per cui potremmo assistere non solo ad un dualismo ma ad una vera e propria trilaterizzazione della classe proletaria — ma approfondiranno questa polarizzazione del mondo del lavoro. Nemmeno il fenomeno della proletarizzazione del ceto medio è insolito. Per quanti mutamenti il capitalismo abbia conosciuto, la pauperizzazione della piccola borghesia come risultato della depressione economica, è una costante ricorrente. Semmai c’è da segnalare come questa volta il fenomeno sia destinato a colpire duramente settori del terziario che anni addietro erano invece dipinti come i ceti in inarrestabile ascesa destinati a rimpiazzare quelli industriali.

E’ certo che una movimento rivoluzionario deve agire per evitare che questa polarizzazione diventi una spaccatura irreversibile. Immaginate come farlo, come riuscire a riunificare le disjecta membra del popolo lavoratore è compito primario di un movimento che voglia combattere non solo l’ordine di cose esistenti, ma pure di quelle che sono destinate a venire se non si ferma il mostro.

Una cosa sappiamo con certezza: giunti a questo punto delle vicenda storica, non è sul piano sindacalistico che si trova la risposta. Giunti a questo punto la soluzione del rebus è tutta politica.

3 pensieri su “DUALISMO PROLETARIO di Moreno Pasquinelli”

  1. Cittadino dice:

    “l’unica possibilità di conoscersi che avranno un giovane ingegnere e un rider suo coetaneo sarà quella di aprire la porta per il ritiro del cibo”

    Con questa affermazione però sta ancora dando per buona l’ipotesi che tutti quelli altamente formati troveranno lavoro.

    Cosa che è falsa perché è anche fra le persone altamente formate che avviene ormai da anni l’esclusione, l’unica soluzione proposta è il reinventarsi. A tal uopo vengono confezionati articoli propagandistici come questo qui: “Da stilista a rider per combattere crisi e lockdown: Portiamo nelle case spesa e sorrisi”. Vomitevole.

    Ed anche nel pubblico impiego il costo della crisi in questi anni è stato pagato dai precari, il cui contratto non è stato più rinnovato e sono finiti fra le fila della disoccupazione. Hanno fatto lo stesso lavoro dei loro colleghi di ruolo ma in condizioni contrattuali prive di qualsiasi tutela. Nel mio contratto di assegnista hanno sempre pure scritto che non costituisce rapporto di lavoro.

    Giovanni

  2. FaBer dice:

    La soluzione politica è che il mostro non si può fermare, perchè non è esterno a noi e nemmeno a Moreno. Siamo stati tutti formattati a pensare in seno al mostro capitalista usando categorie come lavoro, classi, stato, salario etc. che gli appartengono. Bisogna riconoscerlo e abbandonare i vecchi atrezzi della politica uscendo dal paradigma capitalista. Io lo sto facendo leggendo gli autori della critica del valore. La soluzione operativa è ben rappresentata dal movimento delle comunità di base dell’America del sud.

  3. Graziano+PRIOTTO dice:

    Dov’è finito il movimento operaio ?

    L’attuale stadio di sviluppo (ma direi piuttosto di “mutazione” del capitalismo , che camaleonticamente si trasforma per superare le crisi inevitabili che esso stesso produce) grossolanamente vede una esportazione dei lavori meno redditizi e/o più logoranti, pericolosi, malsani e precari dalle aree più avanzate in questa mutazione (Europa, Nordamerica) ai Paesi del Terzo Mondo (ad es. industria tessile in India, Bangladesh, America Latina e parzialmente Africa). Poiché in questa fase di transizione (non quella “ecologica” spacciata dal guru Grillo ai suoi gri/grullini) anche nei Paesi più sviluppati continuano a servire strati di manodopera sottocosto il sistema capitalista ha provveduto in tempo a creare con il flusso dei rifugiati un serbatoio inesauribile di manodopera a basso costo, disposta ad accettare qualunque condizione pur di fuggire dai luoghi d’origine colpiti da aggressioni militari o destabilizzati ad arte con interventi di mercenari e /o con sanziani economiche (Afganistan, Irak, Siria, Libia, Venezuela e dintorni).
    Per tenere sotto controllo gli inevitabili conflitti nei Paesi di immigrazione serviva il vecchio e sempre attuale “divide ed impera”, ma non bastava da solo e quindi il distanziamento sociale e l’impossibilità di riunioni e di organizzare manifestazioni popolari (salvo che si tratti di celebrazioni sportive apolitiche) hanno fornito grazie al Covid uno utilissimo strumento in più per implementare questa strategia. Difficilmente le cose cambieranno nel “dopo Covid”, ch eprobabilmente mai più ci sarà poiché non a caso la scelta è caduta su di un virus influenzale che notoriamente ha le stesse caratteristiche del capitalismo, cioè muta in continuazione. E non c’era bisogno nemmeno di crearlo questo virus, bastava focalizzare la paura su uno dei virus influenzali più aggressivo di altri e scatenare su di esso la campagna di una pandemia/ panfobia inarrestabile.
    Per il momento i giovani – che sono sempre il fattore più pericoloso per il potere – sono stati irretiti nello pseudo-problema del cambiamento climatico (che certo è un problema a lungo e in certa misura a medio termine) ma che non si può certo affrontare con i trattati internazionali che servono unicamente a spostare il problema ai Paesi del terzo mondo, col commercio dei certificati C02) ed a bloccare l’approfondimento dal quale si evincerebbe che il problema vero è il sistema capitalistico di rapina delle risorse naturali e di sfruttamento della manodopera.
    Se penso che per la mia generazione dei nati alla fine della 2a Guerra Mondiale i riferimenti erano Che Guevara ed Ho Chi Min, Franz Fanon e nel Movimento Studentesco Rudy Dutschke, ed ora i giovani sfilano con le immagini della simpatica/patetica Greta, alla quale già vengono eretti monumenti in vita (University of Winchester, Gran Bretagna) non posso negare un certo sconforto.
    Ma come sempre c’ è nella storia una dinamica che sfugge fortunatamente a qualunque pianificazione del potere.
    Non è detto che l’attuale generazione, che rispetto a quelle precedenti dal dopoguerra in poi è la prima a vedere crollare una dopo l’altra tutte le sicurezze promesse, non si risvegli nel momento meno atteso e sconvolga i piani del potere. In questo senso occorre lavorare e nell’ora attuale la controinformazione torna ad assumere un ruolo decisivo.

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