INCHIESTA SUL LAVORO POST-COVID
Ecco come vanno le cose e come cresceranno ingiustizia e rabbia sociale.
Ieri, 20 settembre, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’Istat, l’Inps, l’Inail e l’Anpal, hanno pubblicato la “Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione” nel secondo trimestre 2021.
Ne emerge uno spaccato terribile sull’evoluzione del mercato dei lavori. La precaria “ripresa” in corso dopo crisi pandemica indotta, vede accentuarsi la tendenza liberista: più sfruttamento dei lavoratori e zero diritti. Si consolida il modello della Gig economy, basato su lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, finti lavoratori autonomi a partita Iva, nessun vincolo per le aziende, quando va bene lavoratori non assunti dalle aziende, ma prestati da altre aziende (capolarato legalizzato). Lavori sottopagati, salari quindi sempre più bassi.
A indicare quale sia la tendenza che si va affermando c’è un dato fondamentale: viene smentita una “legge” sacra agli economisti liberisti, quella per cui più i salari scendono più aumentano i posti di lavoro. *
Riportiamo alcuni passaggi della “Nota trimestrale”.
«L’occupazione sale alla velocità del Pil. Ma volano i contratti a tempo. Nel secondo trimestre il 35% di questi ha una durata inferiore ai 30 giorni, il 37% tra 2 e 6 mesi, solo lo 0,6% supera l’anno.
Si scopre così che tra aprile e giugno i contrattini con durate brevi sono già tornati al pre-pandemia, gli occupati no.
Ad assumere sono soprattutto le piccole imprese tra zero e 9 dipendenti: la metà dei 677 mila contratti del trimestre avviene qui (ad un lavoratore può corrispondere più di un contratto…)
Crescono del 38% i disoccupati over 50 – dato non confortante – e quelli che vivono nelle Regioni centrali (+43%).
Se gli inattivi calano di oltre 1,2 milioni, lievitano di 523 mila unità gli occupati e di 514 mila i disoccupati. Il fermento c’è, dopo la stasi tra lockdown e coprifuoco. Ma la stabilità no, visto che i lavoratori in somministrazione avanzano del 39% e quelli a chiamata o intermittenti del 64%, con in media solo 10,6 giornate lavorate al mese.
Nel frattempo la giungla dei contratti collettivi nazionali di lavoro esistenti in Italia – ben 985 registrati a giugno dal Cnel, l’80% in più nell’arco di un decennio – riflettono un mercato del lavoro frammentato e dove proliferano accordi pirata firmati da sindacati o associazioni di impresa sconosciuti.
E il dumping salariale è la molla che nutre la bolla dei contratti pirata, soprattutto in territori del Paese meno produttivi, con alta disoccupazione o nelle imprese più fragili: si offre un contratto, ma si impone un livello di salari più basso (l’8% in media) del minimo applicato nel settore, sapendo che sarà accettato pur di lavorare.
* [“Uno studio di Garnero e di Claudio Lucifora, docente all’università Cattolica di Milano, dimostra che la scontata correlazione inversa tra minimi salariali e occupazione è in realtà modesta. In altri termini, è vero che all’aumentare dei minimi l’occupazione scende. Ma, al contrario, un aumento del 10% di lavoratori sottopagati produce un aumento dell’occupazione di appena il 2%. E anzi, se la percentuale di sottopagati è ampia, l’occupazione non solo non sale, ma scende: quindi la relazione cambia di segno”].