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PICCOLA ARCHEOLOGIA DELLA CATASTROFE di Guido Cappelli

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Postille a Di Remigo e Di Biase

Ho letto con una certa intima soddisfazione l’articolo Il sapere, ugualitarismo, differenza, uscito su questo sito lo scorso 15 dicembre, a firma di Di Remigio e Di Biase e come replica a un mio precedente intervento, in cui criticavo in modo piuttosto acceso la soppressione della prova scritta dall’esame di maturità. L’ho letto con piacere non solo per i toni civili di un franco dibattito (la qual cosa, checché se ne dica, resta rara avis, in tempi di social rabbiosi e decibel fuori controllo), ma anche perché, lungi dal percepirlo come una critica, mi è parso un’integrazione, un arricchimento, un approfondimento di quanto proponevo nel mio contributo: si tratta infatti di una densa, documentata “archeologia del disastro” della scuola italiana, che chiama in causa gli errori della sinistra e in particolare del Pci a partire dagli anni settanta, una vera e propria resa ideologica che gli autori sintetizzano graficamente: “Proprio nel momento in cui lasciavano i lavoratori esposti alla pressione neoliberale, gli ex-comunisti lenivano i propri sensi di colpa restando fedeli a sé stessi nell’unico campo in cui era loro consentito. Le buone intenzioni di fare della scuola non più una caserma autoritaria e oppressiva, ma il nido in cui gli insegnanti, scesi dalla cattedra, facessero da animatori della spontaneità già matura di ogni alunno, sono state la pelle d’agnello sotto la quale i lupi dell’ugualitarismo hanno espulso il rigore della conoscenza critica”. Ex bono malum, come spesso è accaduto nella storia d’Occidente: talmente spesso che sembra un tic inerente alla nostra civiltà.

Il concetto di uguaglianza, che è al centro del pezzo, è in effetti declinabile in modi vari e finanche opposti. Basterà chiarirsi sul senso del richiamo all’uguaglianza promossa dal Liceo classico cui faccio riferimento nel mio testo. In effetti, come scrivono Di Remigio e Di Biase, “È facile mostrare l’incompatibilità tra conoscenza critica e ideale dell’uguaglianza assoluta: la conoscenza prende sul serio ciò che esiste; ma ciò che esiste è sempre determinato, cioè differente, dunque la conoscenza deve per sua natura valorizzare la differenza; invece l’esigenza di uguaglianza assoluta nasce dall’insoddisfazione per ciò che esiste, proprio perché esso è determinato, differente; essa è dunque incompatibile con il presente, in fuga volontaristica verso il futuro”.

Non si potrebbe dir meglio. Dal canto mio (e forse l’ho dato troppo per scontato) avevo in mente una uguaglianza in entrata, il fatto cioè che le possibilità di accesso al Liceo fossero, tendenzialmente, le stesse per tutti, a prescindere dalle differenze sociali o economiche, diciamo di punto di partenza (se “di classe” è troppo filosoficamente connotato …). Quella “scuola gentiliana” che, come pure si dice in un passo di citazione obbligata, “avendo ereditato il rigore dal padre, da Gentile, ne temperava l’esclusivismo con l’eredità per parte di madre, ossia della Costituzione democratica”. L’espressione più alta di ciò fu (sì, al passato, perché ora non ne resta che l’ologramma) il Liceo classico, che ha significato mobilità sociale e acquisizione di coscienza per generazioni di italiani. Non certo appiattimento verso il basso, banalizzazione dei contenuti e altri aspetti distopici giustamente denunciati nella risposta al mio articolo – aspetti che peraltro (ed è questo forse il motivo di fondo del mio interesse per il collasso del sistema scuola) hanno reso possibile, più che favorito, quell’omologazione dei comportamenti e delle mentalità che ha poi finito per risultare la base necessaria per l’attuale svolta neo-totalitaria.

Come spesso accade nella storia, si diceva, non sempre i risultati rispecchiano le intenzioni. Ex bono malum: la colpa del Pci è spiegabile storicamente con l’intento, in sé nobile, di “umanizzare” la didattica e i rapporti stessi intergenerazionali. Del resto, ancora risuonavano gli echi di una rivoluzione culturale cinese che in Europa aveva le tinte della leggenda eroica, e i nostri padri si dilettavano con le presunte spiagge che avrebbero dovuto comparire come per magia una volta strappati i sampietrini delle nostre strade. Sappiamo che non era così e non è andata così, e i sampietrini li abbiamo tolti, ma solo per tappezzare i nostri centri storici di chilometri di asfalto liscio, nero, poroso e brutto come il futuro che ci stanno ammannendo. Il risultato si può riassumere in una formula: fine dell’autorità, cioè fine della trasmissione del sapere, fine della memoria condivisa, fine della fiducia nella parola che spiega, che insegna, che argomenta, che ragiona. Ma quando l’autorità prossima del professore scompare, quello che resta non è la libera creatività del discente, ma il deserto conoscitivo, la fragilità epistemica e finanche psicologica, l’esposizione, in definitiva, a ben altre autorità, né prossime né umane: tecnocrazie, “esperti”, comitati ministeriali, stakeholder, coi quali non c’è più nulla da discutere, da ragionare o da argomentare, ma a cui c’è solo da obbedire, pena la gogna e l’esclusione sociale. Cosicché, le buone intenzioni non scagionano e non giustificano due generazioni di classi dirigenti succubi, infingarde e fallimentari.

Se si volesse andare indietro – e sarebbe opera “archeologica” imprescindibile per comprendere il collasso della sinistra e non solo, in Italia e non solo – si potrebbero trovare varie date, vari momenti chiave: per esempio, e per quanto mi riguarda, la soppressione del latino alle medie alla fine degli anni settanta: perché quello fu il grimaldello che aprì la strada alla destrutturazione del linguaggio, che a sua volta è il primo requisito per il collasso cognitivo che stiamo ora tragicamente sperimentando. Ma certamente andrà approfondito il momento dei Decreti delegati, proprio in quello stesso torno di tempo, con l’invasione delle famiglie nella scuola e l’inizio della fine dell’autorità del docente, in un’assurda burocratizzazione in nome dell’uguaglianza, per l’appunto, che ora, alla trecentomilionesima commissione per il trecentomilionesimo monitoraggio, ben sappiamo dove portava: al degrado della figura del docente, allo svuotamento dei contenuti nel nome delle procedure e soprattutto, consegnandosi agli umori di padri e madri anche loro assai benintenzionati, a “preparare per il mercato” le nuove generazioni di consumatori eterni adolescenti, non più cittadini, monadi avviate sulla strada della “nuda vita”.

Credo piuttosto (ma questa è una semplice glossa) che il “matriarcato tossico” in cui si è risolta la “buona scuola” non sia che lo strumento del distruttivo egualitarismo livellatore sul basso; la vera causa della distruzione della scuola “gentiliana” è epistemica, sta in due “rivoluzioni”: quella del costume, simboleggiata dal Sessantotto; e quella audiovisuale prima e poi digitale, che ha sconvolto i modi stessi di relazione tra l’uomo e la parola, tra l’uomo e la scrittura, alterando le strutture cognitivi in forme che, se sono sotto gli occhi tutti, non sono però facili da determinare in tutta la loro potenzialmente devastante portata. E poi, a un livello ancora più vasto, la Decostruzione, quel coacervo di filosofie della “destituzione del senso” che, almeno dagli ultimi cinquanta, sessant’anni, ha permesso al nichilismo transumanista e barbarico di passare a essere senso comune, impiantarsi nelle teste dei nostri giovani prima ancora che nelle istituzioni.

Ecco, per parte mia, ho inteso solo descrivere quest’ultima fase, mettendola a violento contrasto con l’origine gentiliana, con l’ispirazione di fondo, egualitaria nel senso che abbiamo chiarito e che i miei due interlocutori ancor meglio chiarificano, di quella scuola figlia di padre e madre nobilissimi. Sono forse meno duro, più indulgente di loro con l’Illuminismo, di cui vedo, certo, la deriva scientista e totalitaria, ma di cui, forse ingenuamente, da professore di letteratura, da storico della cultura, con un filo di sentimentalismo, apprezzo il kantiano sapere aude e l’invocazione al libero pensiero e all’autodeterminazione. Si, so anche che autodeterminazione non è lo stesso di libero arbitrio – nozione dalla forte impronta anche religiosa – e che se il secondo riconosce l’uomo come inserito in una rete più vasta con cui confrontarsi e di cui accettare, come naturale, il limite, la prima tende all’abolizione del limite, alla negazione della determinatezza umana, cioè al postumano, al vecchio, eterno delirio della Torre di Babele. Ma nonostante tutto, quel sapere aude continua a sembrarmi un monito utile a contrastare il pensiero unico in tempi di dogmatismo scientista e postverità politica.

Dettagli. L’importante è che è drammaticamente vero, e va rimarcato con i toni più accorati, che la scuola attuale è, prima di tutto, un ostacolo a una reale mobilità sociale, un ghetto tendenziale dove allevare caste, dove la massa è condannata ad acquisire competenze farlocche utili solo a farne carne da mercato: in sintesi, un elemento centrale del dispositivo distopico che ci stanno costruendo intorno. Per questo il dibattito sulla sua decadenza (non si sa se inesorabile) non è solo un tema accademico, ma interpella il nostro modo di stare al mondo.

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