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A PASSEGGIO CON IL MORTO (CHE È IN NOI) di Alessia Vignali

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Segnaliamo, della stessa autrice, l’articolo precedente: FAR FINTA DI ESSERE SANI

SHOCK ECONOMY 2.0, PSICOPATOLOGIA DELLA MENTE COLLETTIVA ESPOSTA AL TRAUMA

Da due anni e mezzo a questa parte la storia ci ha travolti e, come abbiamo già asserito in precedenza, è sotto gli occhi di tutti quanto sia stato facile passare per tutta risposta da una “mente democratica” al “pensiero unico” tipico del totalitarismo. Vige cioè un pensiero dominante talmente ossessivo da ricusare ogni ragionevole dubbio e originare di fatto un pensiero ad esso antagonista altrettanto totalitario. Entrambi sono manichei e diventano la matrice di improvvidi comportamenti, ai limiti della violenza, nei confronti dell’”out group”. La mia tesi è che, se questi fenomeni paradossali altamente regressivi sono potuti accadere, è per via di una debolezza delle facoltà critiche di molti di noi. Come già ribadito, ipotizzo cioè l’ampia diffusione di psicopatologie severe, sebbene “non cliniche”, che predispongono i soggetti della contemporaneità di quest’occidente avanzato all’impiego di processi mentali primitivi. Con Erich Fromm, postulo all’origine di questo l’esistenza di una società talmente malata da dover produrre, per autoalimentarsi e funzionare, soggettività altrettanto malate.

Tra le metodiche impiegate per il controllo di massa figura quella che potremmo denominare, con la giornalista Naomi Klein (2007), “Shock economy”.

Secondo l’autrice, tutte le riforme neoliberiste più dure sono state introdotte senza il consenso popolare e grazie a shock accaduti per caso o provocati, come guerre, catastrofi naturali, ora la pandemia. Come possiamo ben vedere, anche un “regime change” può valersene a meraviglia.

Cosa accade nella mente del traumatizzato? Propongo ora un modello estremo, quello che dipingerà come funzioni la mente del traumatizzato, cioè di un soggetto che abbia subito direttamente sulla sua pelle un trauma, e che dunque sia in quella situazione patologica denominata “Sindrome post-traumatica da stress”; questo caso estremo può servirci per capire come reagiamo noi tutti a una notizia traumatica come l’arrivo di una grave pandemia o l’attacco dell’Ucraina da parte della Russia.

Partirò dall’ultimo esempio, la guerra in Ucraina.  Un mio paziente ha riferito che, nel guardare una foto dalla guerra su un giornale, ha iniziato a piangere senza potersi fermare, un’emorragia inarrestabile di pianto della durata di un paio d’ore. Dopo, più nulla. L’indifferenza, il tornare “alla vita di prima”.

Questi due passaggi, l’angoscia incurabile manifestata nel pianto cui subentra la difesa dell’indifferenza, forse li abbiamo vissuti tutti noi. Siamo rimasti attoniti, spiazzati, senza parole davanti alla notizia della guerra. E’ vero, i migliori fra noi, quelli più attrezzati, sono usciti dallo sconcerto, dallo spiazzamento e dall’apatia ricorrendo a un’altra difesa che noi psicoanalisti definiremmo “di livello più evoluto”, la razionalizzazione o l’intellettualizzazione: si tratta della ricerca delle cause, dell’indagine cognitiva, persino dell’abbozzo di un qualche progetto pratico. Però… lo vediamo tutti: torniamo presto alla “vita di prima”, ai doveri…conservando una certa apatia.  Lasciamo cioè che le immagini delle esplosioni deflagrino sui nostri cellulari ma non nella nostra mente. “E’ il trauma, bellezza”, potremmo dire, parafrasando il film “Quarto potere”.

L’alessitimia (incapacità di provare emozioni), l’apatia, il “numbing” (annebbiamento o obnubilamento mentale) sono le prime difese della mente del traumatizzato. Si tratta, cioè, di non poter letteralmente “pensare” un qualcosa che sembra essere più grande delle nostre capacità di elaborazione.

Davanti a un “impensabile” la mente prova un’angoscia senza nome. Subito dopo, tenta di allontanarla da sé con tutte le forze. Come a un funerale, quando dinanzi all’assurdo alcuni di noi non riescono nemmeno a piangere, impotenti nel conferire alla sequela d’immagini che gli scorre davanti un qualunque significato.

E’ vero, ma non può esserlo. Vediamo, ma non sentiamo. Perché di fronte alla morte non c’è più niente da dire, niente da pensare.

“Non sentire il male” diventa imperativo: ricorriamo alla difesa della dissociazione, un modo per esserci con parte delle facoltà percettive e per non esserci con quelle emotive. Siamo lì, ma la nostra mente è altrove; e ci sentiamo “zombiezzati”, “hollow men in a waste land”, ebbe a poetare Thomas Eliot. Siamo quei cittadini dalle fattezze tal quali a quelle consuete, che nottetempo sono stati invasi e sostituiti da alieni, come nel B movie anni Ottanta “Essi vivono”, per la regia di John Carpenter.

Il fatto è che andiamo letteralmente a passeggio con il morto e quel morto è la parte migliore di noi: quella capace di sentimento, di pietà, di preoccupazione, di empatia.

La difesa della dissociazione è piuttosto inquietante, perché è la madre di ogni indifferenza: non ci importa più di nulla, “facciamo finta di niente” pur di aver salva che il filosofo Giorgio Agamben ha denominato “la nuda vita”.

Si verifica anche l’altro fenomeno tipico del traumatizzato, l’amnesia. Esperimenti neuroscientifici hanno mostrato che il cervello del traumatizzato non collega le aree del ricordo, il lobo limbico, con la corteccia cerebrale: dunque, l’evento traumatico viene stoccato in memoria, ma spesso non torna alla mente. E non torna alla mente neppure il passato del soggetto, che si isola da esso presentificandosi, scindendosi dalle sue radici, fonte di senso di sé e della propria identità. Anche in uno schock di massa come la pandemia si tenderà all’amnesia, “scordandosi” di tutto ciò che si era e pensava fino a ieri. Alcuni rinunciano con facilità alle cose cui tenevano di più sino al giorno prima… ma non vi può essere soggetto, men che meno soggetto libero e capace di scelta, che non sappia da dove provenga e che non conosca la propria storia, asserisce la psicoanalisi.

Il traumatizzato grave dimentica di sé nell’amnesia, sperimenta “depersonalizzazione”, cioè non si sente dentro al suo corpo, e “derealizzazione”, cioè sente che la realtà è fittizia come un Truman show. Anche noi, quando tocchiamo dimensioni traumatiche in maniera indiretta, sentiamo che un po’ ci “depersonalizziamo”, perdiamo personalità nello svuotamento interiore di cui vi ho appena parlato. Subiamo inoltre una proto-derealizzazione, avvertendo il mondo come irreale. Un conoscente mi ha detto: “ Ce la faccio, per me è come vivere in un videogame”. In questo contesto è facile percepire il reale come virtuale e viceversa.

Senza l’accesso ai sentimenti perdiamo la bussola delle nostre scelte e della nostra identità, tanto da aver bisogno di trovare chi ci guidi all’esterno: ecco aprirsi il facile varco alla ricerca dell’autorità esterna, spesso nelle vesti di un sapere o di un potere costituito, acriticamente e dogmaticamente assunti per aggrapparvisi. E’ il tempo delle ideologie, come l’attuale scientismo o il neofeticismo per una forma inedita di stato etico.

Privi di identità come siamo, abbiamo poi bisogno di darcene una fittizia, quella raccolta perseguendo gli ideali e le mete indicate come di valore dal potere costituito, ce ne faremo acriticamente i primi paladini. Questo perché l’identità è un bene talmente importante per il soggetto che, pur di ottenerne una anche posticcia, è disposto a uccidere o a morire. Per esemplificare questo fatto vengono a mente i tragicomici esperimenti di psicologia sociale di Allport, Sherif, Tajfel sin dai primi del Novecento nei quali, per esempio, i membri di ciascuno di due gruppi di scolari artificialmente suddivisi in base a un interesse condiviso – gradire l’arte di un pittore o quella di un altro- cominciarono letteralmente a sabotare e disprezzare i membri dell’out group e a idealizzare quelli dell’in group. Se ne concluse che l’identità data dall’appartenenza è qualcosa di cruciale, per l’uomo. Leggendone rimaniamo atterriti da come si sia disposti a conformarsi pur di “apparire come aventi un’identità”… quando si senta in cuor proprio di essere vuoti. Il paradossale legame tra conformismo e senso dell’identità nasce qui, come osserviamo nei gruppi di adolescenti, che vestono tutti uguali … per sentirsi “qualcuno”.

Il trauma riaffiora poi, come nel celebre film Rambo sul veterano del Vietnam, sotto forma di flash back che tormentano il soggetto e genera in esso attacchi di rabbia incontrollata. Tale rabbia è anche una forma di “identificazione con l’aggressore”, qualcosa di analogo, per intenderci, alla sindrome di Stoccolma in cui chi viene rapito e maltrattato si innamora dell’aggressore. Qui, però, ci si identifica con l’aggressore cominciando a propria volta ad aggredire gli altri.

D’altronde non potrebbe andare altrimenti: persa la propria identità e assunta quella voluta dall’aggressore, non può che rimanere in noi qualcosa di vivo e rabbiosamente insofferente, qualcosa come una sete di giustizia pronta, però, ad avventarsi su primo capro espiatorio concesso dal potere anziché sul potere stesso.

Aggredire il capro espiatorio è fondamentale per il soggetto dall’identità fragile e asservita, perché gli recherà le medaglie di cui ha bisogno per coprire i suoi buchi.

Perveniamo dunque a comprendere come la “sindrome dell’impotenza acquisita” in seguito a molteplici traumi invalidi il senso di sé, la vitalità, la speranza e l’iniziativa delle persone.

“Ma il trauma indiretto”, mi si obietterà, “non ha gli stessi effetti di quello reale!” Certo, a patto che chi venga colpito dal trauma indiretto abbia buoni strumenti. Non è il caso di gran parte delle persone che abitano il mondo di oggi.

E qui veniamo all’intervento delle principali agenzie di formazione del pensiero di massa di oggi, i social media, aventi un potere incontrastato. Esse hanno accuratamente plasmato una soggettività abituata all’evasione dalla realtà per mezzo di quella vita parallela che è quella virtuale, evasioni che ci preparano anche a reagire ai traumi mediante la difesa della dissociazione. Il meccanismo dissociativo diverrà poi presto ancor più massiccio, ancor più dirompente quando verrà introdotto tra un decennio il Metaverso, che ci darà la possibilità di simulare ambienti e interazioni virtuali inesistenti, ma di percepirli come “più veri del vero”. C’è da temere che ci si riduca, a quel punto, come i personaggi del film “Matrix”, convinti di vivere davvero ma, di fatto, addormentati e indotti a “sognarle”, le loro vite.

BIBLIOGRAFIA

Bion, W. R. (1948) Esperienze nei gruppi, tr. it. Armando, Roma, 1971

Bollas, C. (2018) L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, Raffaello Cortina, Milano

Girard, R., La violenza e il sacro (1972), Milano, Adelphi, 1980
Van der Kolk B. A. (2014) Il corpo accusa il colpo, Milano, Raffaello Cortina

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