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FAR FINTA DI ESSERE SANI di Alessia Vignali

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Dalla “mente democratica” al “pensiero unico”. Psicopatologia della nostra contemporaneità tra pandemia e guerra.

PRIMA PARTE: Sé trasmissivo, non pensiero, vuoto interno e ricorso all’ideologia come contenitore.

Reputavamo irripetibili fenomeni come il razzismo nazista, che colpì l’intera Germania – con una grave metastasi nell’Italia di Mussolini –  nella Seconda Guerra mondiale. Eppure, oggi dobbiamo ricrederci: in molti di noi sembra giacere, in specifiche condizioni, l’esigenza di ricorrere a processi mentali primitivi in grado di distorcere gravemente la realtà, una volta che sia possibile per le persone appoggiarsi a un’”ideologia” che le avalli, le giustifichi e conferisca loro un forte senso di sé. Mi riferisco in particolare a meccanismi paranoici capaci di giustificare il dilagare di una cieca violenza contro il “gruppo altro”, quello che si colloca al di fuori della “fede” d’appartenenza: l’odio contro il “no vax”, ma anche, sul fronte opposto, quello contro il “vaccinista”. Quando l’ipnosi collettiva affianca l’angoscia di morte e la strumentalizza, la mente regredita delle masse preferisce trovare soluzioni immediate che non prevedano la fatica e il profondo dolore del pensiero. La mente non vuol tener dentro l’angoscia, ma espellerla nelle soluzioni più semplici, specie quella del “capro espiatorio”.

L’imperativo è non pensare, insomma; starne lontani.

Gli psicologi chiamano “agito” tutto ciò che viene espulso dall’apparato psichico sotto forma di comportamento impulsivo. Il comportamento impulsivo “agito”, come quello di dare un cazzotto a un interlocutore nerboruto alto due metri quando magari si è dei mingherlini di uno e cinquanta,  proviene da qualcuno che potremmo considerare in quel momento non più un “soggetto”, ma un mero “oggetto” della sua angoscia e del suo odio; è insomma un qualcuno che non vive, ma viene vissuto. A “viverlo” e ad “agirlo” sono pulsioni non metabolizzate che gli provengono da chissà dove: la cosiddetta “pancia” (non è un caso se la vulgata pseudoeducativa e di fatto diseducativa di oggi inneggia all’ascolto della propria pancia come fosse una panacea).

Queste pulsioni trovano frettolosamente una forma e un obiettivo socialmente approvati prendendo la scorciatoia dell’ideologia: il caos interiore assume allora la forma preconfezionata delle idee dei “soggetti supposti sapere” in un inspiegabile ritorno del fideismo, ora rinnovato nelle vesti dello Scientismo, anch’esso avente i suoi aedi e sacerdoti. L’ideologia offre cioè una comoda “razionalizzazione “ che giustifichi al soggetto quella che guardata dalla prospettiva del buon senso o della responsabilità naturale apparirerebbe una franca empietà. La fede codificata è notoriamente cieca alla ragione.

Come ha asserito lo storico Snowden in “Storia delle epidemie”, le epidemie favoriscono un profondo mutamento dei costumi e il dilagare di forme di pensiero religiose o estremismi di varia natura. Anche oggi, in tempi d’ansie millenaristiche e nella consapevolezza d’esser potenzialmente al capolinea per quanto riguarda il futuro della nostra specie, molti abdicano volentieri a tutto ciò che sanno di sé per salire sul comodo treno dell’ideologia, sia essa quella plasmata dalla classe dominante che quella creata da un contropotere. La “fuga dalla libertà”, ebbe a denunciare Fromm, è sempre dietro l’angolo in persone che non hanno mai potuto, se non in maniera incompleta, divenire “soggetti”: autonomi, critici, indipendenti, con un chiaro senso di sé. Passa allora il primo pifferaio magico di Hamelin e tutti, come torme di topolini irretiti dalla musica, son pronti a seguirlo fino al dirupo.

Questo processo del “pifferaio” l’ho visto personalmente in atto nell’osservatorio ristretto della mia esperienza clinica. Quando conducevo laboratori di narrazione in gruppo nel reparto dei ricoverati psichiatrici del CSM di Imola, regolarmente il gruppo si sceglieva un sottoleader che si metteva a capo del gruppo, e tale sottoleader  era invariabilmente il più grave dei pazienti. Il motivo? La sua follia paranoide sapeva dare un nome alle angosce di tutti e trovava per esse un’origine e una causa incontrovertibili sotto forma di ben precisi simboli. Perché? Perché il delirio del folle è una teoria che nasce per spiegare l’angoscia (e in tempi di crisi rischia di venir comodo a tutti). Tornando al laboratorio di pazienti, il più folle aveva insomma le idee chiarissime sulla fonte del malessere del gruppo. E siccome era quello con le idee più chiare, tutti lo seguivano e volevano lui: altre persone con idee diverse venivano “cassate” senza pietà.

Per tornare ai fenomeni di massa cui abbiamo assistito negli ultimi due anni e mezzo, come accadde ai pensatori della Scuola di Francoforte ci troviamo costretti a chiederci, di nuovo e incredibilmente: com’è potuto accadere tutto questo? Come si è passati alla velocità della luce da una (apparente) mente democratica al pensiero unico?

La mia risposta non è originale, poiché è la stessa che dette Erich Fromm: la nostra è una società profondamente malata, che ha prodotto i soggetti utili al suo funzionamento che, però, non possono che essere altrettanto malati. Quando si vive lontano dalle leggi scritte nel libro della natura e in quello dell’umanità, non si può che soffrirne profondissimamente. Oggi se ne soffre ancora di più: queste leggi, un tempo culturalmente trasmesse, sono cancellate e uscite persino dalla memoria collettiva.

A suo uso e consumo oppure per eterogenesi dei fini, la società contemporanea ha finito per modellare soggetti estremamente fragili.

Ovviamente, la soggettività occidentale di questo inizio del ventiduesimo secolo è diversa da quella osservata da Fromm, così come differente è la genesi del suo malessere “attuale, troppo attuale”. Per il “nuovo carattere” resta valida la definizione che sul fronte sociologico dette Zygmut Bauman di “soggetto liquido” funzionale a vivere in una “società liquida”, definizione efficacemente aggiornata dallo scrittore Emanuele Montagna quando parla di una “soggettività gassosa” o polverizzata.  Una soggettività, cioè, non solo multipla, cangiante, evanescente come quella in preda a crisi d’identità (ma incapace di soffrirne) delineata da Bauman, ma -nei casi più gravi- del tutto priva di una mente che possa guidarne gli impeti momentanei. Una soggettività, dunque, decisamente gassosa, ancor più incorporea dell’Alexa con cui qualcuno  di noi quotidianamente dialoga
Benché sintetica, schiava e senza corpo, Alexa almeno una voce ce l’ha. Il soggetto gassoso di oggi è costretto a inseguire, per darsi una forma e una direzione momentanei, spezzoni di voci altrui sparse nell’infosfera dei social.

Lo psicoanalista Christopher Bollas ha coniato nel 2017 la definizione di “Sé trasmissivo”, un Sé che trae la spinta per agire – una spinta inerziale, mi verrebbe da dire- non dalla sua capacità di dare al suo esserci e alla sua vita in generale un senso, ma dall’identificazione con il ruolo e con la posizione di snodo della grande rete, deputato a trasmettere costantemente contenuti, spesso nemmeno modificati rispetto a fonti altre che nemmeno sa quali siano in origine. Riceve statuto d’esistenza dai like che lo confermano e per i quali si emoziona (portano la vita dentro di lui). Si sente parte di un tutto (“connesso”) che lo contiene, cui costantemente “risponde”, cui “reagisce” e con cui interagisce, ma non è mai lui all’origine delle comunicazioni, non è mai lui ad avere l’iniziativa dell’azione (se non per postare la foto delle sue estremità inferiori mentre si rilassa in spiaggia). Sa copiaincollare e lievemente modificare, ma non dare un senso a ciò che gli passa tra le mani. Il motivo è che non può accedere a un pensiero proprio.

Per pensare occorrerebbe dar valore al mondo interno, al pensiero stesso, esser capaci di inquietarsi e preoccuparsi senza farsi travolgere dall’angoscia… poi avviare un’indagine dentro di sé. Tutte funzioni ampiamente scoraggiate sia dalla nostra istruzione che da ciò che ci dicono dobbiamo saper fare: rispondere velocemente a una società in vorticoso cambiamento richiede di saper agire per schemi stimolo-risposta, dunque non lascia tempo per pensare, ci dicono. Peccato che questi schemi abbiano come modello il  riflesso patellare, quello che, per intenderci, evoca il medico colpendo la nostra rotula con un martelletto; oppure, peccato che siano quelli che solo un mollusco semplice come l’Aplysia, beniamina dei neuroscienziati caratterizzata da un sistema nervoso elementare, ancora adotta. Già i rettili nella scala evolutiva e poi soprattutto i mammiferi reagiscono all’ambiente in maniera più complessa, mettendo tra lo stimolo ambientale e la risposta comportamentale qualcosa come un pensiero, mediato dalla corteccia cerebrale. I vari Cingolani vorrebbero privare l’uomo della consapevolezza della sua storia per ridurlo alle sue capacità pratico-operative,  e dato lo stato della nostra istruzione e complice la DAD, saremmo già parecchio in là nel progetto per lo sfacelo della capacità critica, della consapevolezza di sé e del pensiero ipotetico; l’uomo flessibile, operatorio da essi voluto utile alla società di oggi dovrebbe rinunciare a un’eredità evolutiva risalente a circa 300 milioni d’anni fa. Sembra impossibile, eppure fenomeni come quello attuale di ipnosi collettiva, e prassi consolidate  come la sistematica distruzione della dimensione sociale dell’uomo e della sua matrice, che è la famiglia, possono riuscire perfettamente in una meta come questa. Dicevano i gesuiti: “Datemi un uomo prima dei suoi tre anni e ne farò ciò che voglio”. Tesi oramai comprovata da tutte le psicologie e le neuroscienze. La nostra società pare averlo “detto e fatto”.

L’uomo d’oggi è cambiato, così come son cambiate le sue psicopatologie.

Il paziente che noi psicologi vediamo nel nostro studio è oggi molto diverso non già dalle isteriche freudiane d’inizio novecento, ma anche soltanto dal nevrotico alla “Woody Allen” che vi si recava fino a trent’anni fa. Le persone che vediamo oggi nei nostri studi sono, invece, molto più sofferenti. La nuova civiltà genera nuovi tipi di uomini, “in salute ed in malattia”. Uomini che Recalcati definì qualche anno fa “senza inconscio”, e che il clinico d’oggi potrebbe in maniera politically uncorrect definire privi di uno spazio interiore per ospitare i pensieri e farli dialogare dentro di sé. Non c’è interiorità, insomma. Siamo tutti nell’agito, nel vivere letteralmente “fuori di sé”. Più precisamente, non esiste un sé: le patologie gravi di oggi hanno tutte a che fare con una cronica carenza di senso di sé e con una identità impossibile.

Per darvi qualche dato di quanto diffusa sia la psicopatologia severa nell’Italia di oggi, nel 2021 un italiano su quattro si è rivolto allo psicologo e uno su cinque allo psichiatra. Potremmo imputare al panico da Covid il fenomeno, ma non saremmo sulla retta via: solo gli edifici dalle fondamenta fragili crollano. Gli altri, magari con difficoltà, magari con qualche danno, parano i colpi. L’angoscia di morte è ubiquitaria, ci accompagna sin dalla nascita, com’ebbe a dire Giacomo Leopardi (è a rischio di morte il nascimento), ed è attraverso quella che la tragedia del Covid è entrata come tarlo che ha fatto deflagrare la tenuta psichica di molti. Ma chi non ha retto era presumibilmente a rischio  da molto tempo prima. Nei prossimi articoli indagheremo circa le metodiche adottate  e le vere e propie psicoaptolgie indotte adottati dal nostro “sistema” per denervarci a tal punto.

7 pensieri su “FAR FINTA DI ESSERE SANI di Alessia Vignali”

  1. FaBer dice:

    La follia fascista è connaturata alla modernità. Ciò che riemerge oggi, destando stupore nelle menti “democratiche”, è implicito nel modo di pensare, produrre e riprodursi capitalista e più in generale, moderno. La paranoia dei “più gravi”, che domina il gruppo sociale, è la paranoia del sistema, solo mascherata dalle dichiarazioni tanto solenni quanto faalse dei diritti, dei valori e delle Carte.
    Serve una critica radicale della modernita, più che un’esplicitazione dei meccanismi di controllo della massa.
    Sono psichiatra e psicoterapeuta. Il mostro è dentro ciascuno di noi: installato tramite la cosiddetta “educazione”. Non è un’aberrazione, bensì un esito.

    1. Alessia Vignali dice:

      Gentilissimo,
      Condivido le Sue puntuali osservazioni, che stimolano parecchio il pensiero e meriterebbero lunghi approfondimenti . Circa l’utilità di una indagine fenomenologica e causale di matrice psicologica, nello specifico psicodinamica come la mia, dissento. Le scienze “psico” , che come Lei pratico da professionista, offrono chiavi d’accesso privilegiate alla mente umana che possono aiutare parecchio chi si occupi di politica. Un cordiale saluto.

  2. 88 dice:

    Questo studio è veramente interessante anche per i sorprendenti dati empirici, non capisco però il riferimento iniziale se è neoreichiano o politologico.

    1. Alessia Vignali dice:

      Gentilissimo,
      L’accezione in cui utilizzo l’espressione “razzismo nazista” e quella del senso comune e dell’uomo comune , che ha assistito negli ultimi due anni a un processo che può ben descrivere la celeberrima frase di Peimo Levi , che qui riporto:
      “Prima vennero a prendere gli zingari,
      e fui contento, perché rubacchiavano.
      Poi vennero a prendere gli ebrei,
      e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
      Poi vennero a prendere gli omosessuali,
      e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
      Poi vennero a prendere i comunisti,
      e io non dissi niente, perché non ero comunista.
      Un giorno vennero a prendere me,
      e non c’era rimasto nessuno a protestare.”
      Un cordiale saluto.

  3. Stefano dice:

    Il senso comune, Alessia, è sempre più relativo è piegato a esigenze geopolitiche.
    Vedi proprio il nazismo cattivo ora diventato moderato e pure buono in certi frangenti per Gramellini e Minzolini e altri di sinistra o destra

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