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ANTISOCIALI, NARCISISTI, BORDERLINE di Alessia Vignali

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Psicopatologia della contemporaneità nella cosiddetta “era delle pandemie”

«L’ideologia edonista radicale ed egotista assoluta del turbocapitalismo, quella del life is now e della comunità assente, ci aveva depauperati nel profondo, ci aveva resi infelici perché orbati di una matrice, di un’appartenenza, di una capacità di investimento sano nel futuro e nel bene dell’umanità. L’appartenenza che ci sostiene in un’identità valorizzata danno senso al nostro esserci e al nostro essere proprio qui, in questo momento della storia, uniti e pieni di capacità creative e costruttive di futuro».

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Da un’angolatura psicoanalitica, abbiamo in precedenza sostenuto la tesi secondo cui la società in cui viviamo ha prodotto il tipo d’uomo più funzionale a realizzare i suoi obiettivi: un soggetto alienato rispetto al suo stesso Sé, oggigiorno talmente alienato da non averlo quasi più, un Sé… e nemmeno un’identità. D’altronde, una società profondamente malata non può che indurre nei suoi membri dosi sempre più massicce d’infelicità e psicopatologia, in quanto sottrae ad essi le modalità esistenziali consone al loro pieno sviluppo e al dispiegamento delle loro facoltà “umane”. Non solo: attraverso continue operazioni di censura e cancellazione, la nostra “open society” sottrae ad essi persino il ricordo, di modalità più vicine alle istanze pulsionali profonde della vita.

Per dirla con una categoria di Erich Fromm, la civiltà cybercapitalista sta sottraendo ai suoi membri una dimensione ad essi essenziale, quella dell’ “essere”.

Per chi voglia cambiare questo mondo diventa allora essenziale comprendere quali tipologie personologiche stiano andando per la maggiore, maturando per esse contemporaneamente la sana “pietas” di chi comprenda e allo stesso tempo gli anticorpi per difendersene.

Tra le strutture personologiche più afferenti agli studi degli psicoanalisti troviamo due soggetti prevalenti: il soggetto con problematiche narcisistiche e quello appartenente alla galassia delle organizzazioni “marginali” di personalità, tra cui spicca il “borderline” conclamato. Sono tipologie che con varie sfaccettature e vari livelli di gravità colorano buona parte del modo di essere delle persone di oggi.

Una sensibilità vicina a quella del narcisista è stata vigente e patrocinata socialmente fin quasi a oggi, ma essa viene ora man mano scalzata dal prevalere di una sensibilità vicina al borderline. Il motivo è nuovamente la maggior funzionalità della seconda sensibilità alla nuova società, che si vale delle agenzie educative, televisione e media in generale, investendovi massicciamente al fine di produrla. Basti pensare agli anni di conduzione televisiva di Maria De Filippi e dei suoi epigoni inclusivi delle varie versioni del Grande Fratello, che puntano tutto sull’emozione momentanea, sull’istinto, sull’impossibilità del differimento del soddisfacimento degli impulsi come fossero valori, mentre di fatto disabituano la mente a sublimare, inabilitandola al pensare tout court. Lo vedremo meglio insieme più avanti.

Il disturbo narcisistico di personalità lo conosciamo tutti, è talmente diffuso che il comitato di redazione scientifico del DSM 5, l’ultima edizione del principale manuale di riferimento delle categorie diagnostiche di tutta la comunità “psico” mondiale, la voleva espungere dal novero delle categorie nosologiche poiché tanto diffusa da costituire una “nuova normalità”. Chi ha una struttura narcisistica non ne è spesso consapevole, ma è altamente patologico: il suo universo mentale è radicalmente altro da quello dei “comuni mortali”. Il mondo interno di un narcisista è distante dalla realtà psichica di ognuno di noi comuni nevrotici quanto lo è un dipinto di Picasso dal dipinto di un paesaggio. Pensando al narciso, tutti richiamiamo a memoria il classico pallone gonfiato impersonato da Vittorio Gassmann nei suoi film: superficiale, aderente ai valori vigenti, all’immagine e alle apparenze sino a sporcarsi le mani pur di avere un titolo e una posizione, vuoto “come una cucuzza”…  ma così pieno di sé da essere un missile proiettato verso il successo. Un’immagine piuttosto attendibile.

Essa ci dà perfettamente conto di tre caratteristiche macroscopiche di questa tipologia: la grandiosità, lo spasmodico bisogno di crearsi un’immagine e il dipendere da quell’immagine di superficie, “eccellente” secondo parametri socialmente riconosciuti, per il proprio equilibrio mentale. I narcisisti sono disposti a tutto, a volte anche al crimine, pur di non perdere la faccia… o meglio, la “facciata” cui affidano il loro fragile senso di sé.

In questo, i narcisisti sono parenti di un’altra psicopatologia che però non arriva quasi mai nello studio dello psicologo: l’antisociale, o psicopatico secondo una vecchia definizione, che troviamo diffuso anche tra i “colletti bianchi” o uomini di potere. Ma mentre l’antisociale impernia il suo senso di sé sul potere come unica forma di legame con gli altri in grado di appagarlo – la sottomissione dell’altro, la crudeltà e il suo danneggiamento diventano per l’antisociale importanti quanto per il sano lo è l’amore – il narciso impernia il suo senso di sé sull’immagine, pertanto necessita continue conferme dall’esterno.

Altrettanto attendibile dei personaggi interpretati da Vittorio Gassmann, e ancor più drammaticamente vicino alla personalità con disturbi narcisistici, è l’affresco umano spesso rappresentato nei film del regista Sorrentino, in cui quasi tutti sono narcisisti, personaggi principali e comparse. Indimenticabile il papa protagonista di The Young Pope, impersonato dal bellissimo Jude Law, che assurge al ruolo di pontefice benché non abbia mai avuto una salda fede in Dio. Egli non sa se crede in Dio, così come è in preda a costanti crolli di fiducia in se stesso, un fenomeno che accade costantemente al narcisista, costretto a chiedere al mondo: “valgo? quanto valgo? Son bello? Quanto son bello? Sono intelligente? E quanto?” Se vi vengono in mente i vari coach e motivatori di scuola statunitense, non sarete lontani dalla correttezza nell’averli inscritti in questa categoria nosologica; fan quasi tenerezza, tanto si affannano a “migliorarsi” facendo sforzi apocalittici … per chi e per che cosa non si sa, non lo sanno nemmeno loro. Se glielo chiederete, risponderanno con la tautologica affermazione “Bisogna migliorarsi, no?” , che fa appello, ancora una volta, non a qualcosa che essi sentano o abbiano capito in prima persona della vita, ma all’ideologia del capitalismo. “Migliorarsi” è un principio che si trova inscritto nei “testi sacri” del capitalismo, gli slogan pubblicitari.  Per ottenere che cosa vien da sé: la vendita di quel prodotto che ti renderà migliore, anzi: ti farà apparire migliore con il minimo sforzo (non devi diventarlo, basta che tu lo sembri). Questo esempio è sufficiente a farci capire quanto venga sponsorizzato il raggiungimento di questo tipo di identità o carattere sociale dalla società consumistica.

Dopo interminabili indecisioni prima di presentare il suo discorso d’insediamento in qualità di pontefice, il nostro Giovane Papa decide di non mostrarsi al suo pubblico. Sarà per sempre invisibile ai fedeli, benché sia uno splendido uomo; e sceglierà di esserlo perché solo l’invisibilità gli garantisce un perenne inappagamento del desiderio del prossimo, inappagamento che genererà nel pubblico inesausto e divorante desiderio. Verrà amato alla follia, proprio perché non si farà possedere dallo sguardo degli altri. Una scelta intelligente, dato che il nostro ha capito la psiche umana e sa che se, come Dio, si offrirà senza volto, ogni fedele gli conferirà il volto delle sue più segrete proiezioni e fantasie.  Scelta, poi, significativa per farci capire come funziona la mente del narcisista. Ha bisogno d’essere perdutamente ammirato e ha un problema con l’immagine: farsi vedere oppure no? Lo sguardo dell’Altro può metterlo in vita oppure distruggerlo. Solo se arriverà la conferma alla sua immagine, che deve aderire perfettamente ai parametri di un “Io ideale”, egli ristabilirà la stima di sé perennemente a rischio. Nel fondo del suo sentire inconscio egli sospetta di “non esser nulla”; al posto di quel vuoto che egli sente contraddistinguerlo, egli pone allora un’immagine esterna ineccepibile, a mò di “specchietto per le allodole”, volto a confondere se stesso e gli altri circa il suo inconscio disvalore. L’invisibilità del giovane papa, insomma, è perfetta metafora della sua invisibilità a se stesso.

Di fatto, come persona, egli non esiste. Non sa chi è. Più precisamente, egli non sa neppure esattamente cosa significhi essere un essere umano.

Da qui deriva la facile presa della “SINGULARITY”, in cui la sopravvivenza in rete di trascrizioni del pensiero di un soggetto viene da questi scambiata per garanzia della sua eternità … ma egli non ricorda che le cognizioni non sono vita! Un sistema di trascrizioni di ciò che pensiamo non ci renderà mai vivi in eterno. Eppure il narcisista facilmente si confonde tra ciò che è vivo e ciò che non lo è. Perché quasi “non sa” di essere vivo.

Il motivo psicodinamico è profondo: la sua storia precoce lo vede asservito ai bisogni di altri, gli accudenti della prima infanzia; lo vede mera immagine volta a soddisfare le ambizioni altrui; lo vede bambino inascoltato, le cui caratteristiche vitali non sono mai state “rispecchiate”, riflesse, amate, messe in vita da una madre o da persone davvero interessate a lui. Ciò che ossessiona il narcisista tutta la vita è, insomma, la ricerca del “luccichio negli occhi della madre” che non poté mai avere, se non per ragioni strumentali – “quanto sei bello, quanto sei bravo a scuola, quanto sei genio al tennis, così ci fai contenti”, ecc.- . Questa ricerca lo sfinisce e lo svuota, costringendolo come un maleficio a devolvere tutta la sua energia alla magnificazione di sé e depauperandolo della possibilità di guardare, godere, amare, sentire gli altri e il mondo esterno. Non essendo stato “visto” nella sua autenticità, ma solo nelle sue prestazioni, scimmia ammaestrata dalle raffinate competenze, egli non sa cosa prova né chi è; ogni sentimento lo spaventa. Diventa allora tetragono e incapace di provare sentimenti ed emozioni profonde e questo lo rende a volte pericoloso per sé e per gli altri; è vulnerabile al compromesso, può  “vendere la madre per un posto in parlamento”, insomma. Non avendo i sentimenti necessita, per darsi un’identità e un senso di sé, di porre attorno al sé la forma e la corazza di un’immagine soddisfacente, di successo, stereotipata. L’assenza della bussola delle emozioni lo lascia disorientato di fronte all’esperienza, dunque dovrà affidarsi a dogmi e stereotipi tratti dall’esterno per poter guidare le sue azioni. L’esperienza, che genererebbe emozioni, lo spaventa, dunque non può farla, deve rimanerne indenne. Il nostro giovane papa, infatti, fa pesi per tenersi in forma, ossessionato dal perseguimento della perfezione del suo corpo, e beve solo Diet Cherry, una bevanda a zero calorie che lo attraversa uscendone come ne è entrata, non lasciando traccia… così come in lui non devono né possono lasciar traccia le esperienze, che lo farebbero pericolosamente invecchiare e ne altererebbero la perfezione. Meglio “pisciarle” fuori di sé all’istante. D’altro canto, la bevanda è “cherry”, ciliegia: allude cioè all’infanzia, una dimensione in cui per certi versi è perennemente imprigionato da autoindulgenze a lui necessarie proprio perché la sua infanzia non ha potuto aver davvero corso, dunque non può avere una fine.

Per riassumere, il narcisista vive la condanna a incarnare la perfezione di un’immagine stereotipata, che si ponga al posto del vuoto che sente avere al centro di se stesso. Sente di essere nessuno, e pone rimedio a questa misera condizione con la grandiosità, la magnifica illusione di essere speciale. Alexander Lowen, un “narcisista guarito” che ha scritto un notevole saggio proprio sul narcisismo che consiglio, così si espresse circa il pericolo che i modelli narcisistici rappresentano per l’umanità.

«I tratti distintivi di una società narcisistica sono in breve riassumibili come una massiccia perdita di valori umani: viene a mancare l’interesse per la qualità della vita, per i propri simili. Una società che sacrifica l’ambiente naturale al profitto e al potere rivela la sua insensibilità per le esigenze umane. La proliferazione delle cose materiali diventa la misura del progresso di vivere (…). Quando la ricchezza occupa una posizione più alta della saggezza, quando la notorietà è più ammirata della dignità e quando il successo è più importante del rispetto di sé vuol dire che la cultura stessa sopravvaluta l”immagine”, e dev’essere ritenuta narcisistica». 

La dimensione culturale e quella intrapsichica s’intrecciano, dunque, nel dar vita a una personalità “bidimensionale” che, appiattendosi sull’”immagine”, finisce per misconoscere e rinnegare l’interiorità, i sentimenti, l’affettività, distorcendo così anche la percezione della realtà di sé e del mondo in cui vive.

Il narcisista riesce comunque a vivere, grazie alla “pelle fittizia” di un’immagine che tutto sommato lo tiene faticosamente insieme e alla forza di un Io che lo costringe a sforzi per l’autoaffermazione che possono anche esser coronati da successo. Egli pone cioè un ingegnoso rimedio al suo vuoto interno.

Va peggio alla filiera delle organizzazioni marginali di personalità come il soggetto borderline, in cui la mancanza di un senso di se stesso e la diffusione dell’identità rendono difficilissimo anche solo trovare un posto nel mondo. Il borderline, per capirci, somiglia agli “sdraiati” di Michele Serra, cioè a quei soggetti che sciabordano nella vita, ma burrascosamente; sono perenni adolescenti indifferenziati, rabbiosi, arresi, pieni di nemici immaginari, ideali impossibili e cause perse. Essi oscillano tra grandi imprese fallimentari e rovinose cadute depressive; sono coloro che hanno relazioni burrascose e instabili, problemi con le dipendenze da sostanze o da alcol, disordini nel controllo degli impulsi. “Vivere, e sperare di star meglio” è quanto spesso gli tocca fare, anche se “vogliono una vita spericolata”. I borderline non possono avvicinarsi né allontanarsi a persone amate, hanno troppa paura di rimanerne invischiati o di venire da essi abbandonati. Per questo spesso aderiscono a ideologie come i “poliamori”, che consentono loro di non scegliere mai uno ed un solo partner, ma di dissolversi nel pulviscolo di mille relazioni spesso disconfermanti e svalorizzanti”. Lo sciabordio delle identità è comodo, perché nel momento in cui si prende posizione si può esser preda dei cecchini, che dai tetti delle case individuano la nostra posizione e possono ucciderci. Ed è comoda anche l’indeterminatezza sessuale, il bivaccare nell’indecisione fino ai trent’anni come vorrebbe il sistema tecnocratico che governa i corpi di oggi, consentendo all’adolescente dalla sessualità indecisa di fermare la sua crescita con ormoni concessi dal Servizio Sanitario nazionale.

Meglio non esser nessuno, per scampare l’avventura della vita. Non si può davvero essere “uno” poiché si vorrebbe esser centomila; e si rimane fermi al non essere nessuno, nell’impossibilità di compiere una qualunque scelta.

Ma poi si sta molto male, a non esser mai. E allora occorre immaginare qualcosa di grandioso, un alto volo nel rischio, un’impresa magari impossibile come la sfida alle forze dell’ordine in stato d’ebbrezza, e la denuncia alle stesse in veste di novella vittima sacrificale, antieroi un po’ alla Enzo Cucchi. Ma il volo basso, rasente i muri, appena osa uno slancio è destinato a uno schianto. La mancanza di senso del limite e, anzi, il rifiuto rabbioso dello stesso, uniti all’intensa sofferenza di un perenne vuoto interno di persone buone e costanti internalizzate impedisce al soggetto borderline la costruttività di un impegno, di un investimento duraturo in un amato, in una passione, in una idea. Spesso il borderline può cambiar pelle affidandosi, addirittura, a ideologie estreme e opposte l’una rispetto all’altra, dall’islam dal cattolicesimo tradizionalista o viceversa. Cerca delle identità in prestito, dunque, che gli diano una struttura vicaria.

Un giorno ama moltissimo, il successivo odia moltissimo…  se stesso e gli altri, senza soluzione di continuità e senza memoria. La presentificazione, d’altronde, è uno dei suoi meccanismi di difesa, oppure un tratto strutturale di funzionamento. La fatica diventa allora, per il clinico, quella di radunare tutti questi “pezzettini sparsi in cerca di unione”, di porli in connessione, di tentare di compattare in un Io che al momento non c’è qualcosa che è senza forma. Occorre, insomma, tentare di dare una mente a chi, disperatamente, lotta per non averla.

Della filiera delle personalità “marginali” fanno parte anche coloro che hanno disturbi dell’alimentazione o autolesionismo.

Tutte queste categorie, il narcisista, l’antisociale, il borderline, il marginale,  hanno in comune un divorante vuoto interiore che è vuoto di sé, di consapevolezza dei propri desideri, incapacità di far sedimentare i fatti della vita in una esperienza di sé da teorizzare, che renda possibile l’identità. Essi non riescono, per dirla con Maria Luisa Algini, a “emergere dalla spirale delle ripetizioni, dai punti ciechi, dalle incapacità e dalle autodistruttiviutà. Non entrano in possesso di quella cifra segreta che ci fa sentire unici, capaci di fare della nostra vita qualcosa che è un inconfondibile segno solo nostro”.

Quel vuoto, e qui mi aggancio al tema della genesi sociale della patologia, è indiscutibilmente per gli psicologi “vuoto in primis di madre” poi di genitore. Il neonato conosce se stesso nello specchio del volto della madre. La madre chiarisce cioè alla persona chi essa sia decodificandone e realizzandone i desideri, dando ad essi un nome e, così facendo, mettendoli in vita e dando una forma al carattere del neonato. Quando anziché essere a disposizione del bambino, lo specchio che è il volto della madre è opaco perché la madre non c’è, è assente, depressa o in stato di bisogno essa stessa, il bambino non ha più decodifica disponibile. Egli dovrà adattarsi a non sapere chi sia e porsi a disposizione dei voleri, dei vincoli e delle necessità di un ambiente che non è lì per lui.

La psicologia ha scoperto che l’attaccamento, basato sul fenomeno dell’amore, è ancor più importante delle famose pulsioni erotica e aggressiva indicate da Freud  per dar forma alla mente delle persone. Nasciamo incompleti e necessitiamo di una lunga fase di dipendenza dall’altro – la famosa neotenia dei mammiferi- per completare i nostri circuiti cerebrali. In particolare occorrono i primi tre anni di vita per formare una mente. Se una società incapace di valorizzare la maternità e di assisterla fa sì che le madri debbano collocare i loro bambini al nido, avrete già capito che fine faranno i  neuroni deputati a produrre in seno all’abbraccio materno il senso di sé e dell’identità del bambino tesso. Si produrrà un bambino la cui mente è affidata al caso: la bravura o meno delle maestre dell’asilo nido. Inoltre, si avrà un bambino che si sentirà sempre in balìa, abbandonato dalla madre, dunque dipendente da lei a oltranza appena torna, o rifiutante poiché arrabbiato… perché di fatto non l’ha mai posseduta, la madre. L’autostima di quel bambino sarà, per essere onesti, “sotto i piedi” in partenza.

Per crescere sani occorre aver potuto fare il pieno di coccole, carezze, mamma… e farne il pieno così tanto, di questa buona dipendenza, da non poterne più e da uscirne felici oer andare nel mondo. Perché il successo di un genitore da questo si misura, dall’autonomia raggiunta nei figli.

Ma anche qui, anche sul lasciare andare il bambino e sul sostenerne l’autonomia, l’esplorazione e la libera scoperta troveremo nelle madri di oggi problemi: madri deprivate, spesso single per via della fragilità delle famiglie di oggi , anch’essa un fatto culturalmente voluto, molto malvolentieri sosterranno l’andare nel mondo del loro bambino. Saranno loro, ad aver bisogno di lui per sentirsi amate, per darsi un ruolo e un’identità. A volte  si produrrà quella particolare, spesso invisibile ma tangibilissima inversione di ruoli per via della quale il bisogno d’amore del bambino verrà deprivato, perché sarà la madre a chiedere al bambino di soddisfare il suo, bisogno d’amore e d’identità. Il bambino sarà allora senza uno specchio che gli dica chi è, anzi sarà lui a doversi mettere al servizio dei bisogni della madre rinunciando alle sue istanze autentiche, non viste né valorizzate, per diventare come la madre lo vuole.

In buona sostanza, madri deprivate, sole, senza un compagno che le sostenga nella maternità; madri che lavorano nei primi tre anni di vita del bambino non possono, per definizione, entrare nella dimensione essenziale che garantisce una maternità sufficientemente buona: uno stato altamente specializzato di semi-simbiosi con il bambino che permetta quasi telepaticamente di intuire ciò di cui esso necessiti. Per potersi permettere questo stato, la madre ha bisogno come minimo della mente del compagno ad assisterla, poi, come accadeva un tempo, di una comunità. Entrambe le cose sono spesso carenti, nella nostra organizzazione di vita, e i danni psicologici sono sotto gli occhi di noi tutti.

I narcisisti mendicheranno a vita il luccichio d’amore, non di mera approvazione, negli occhi della madre e li cercheranno sparsi nel mondo; i borderline saranno soggetti sempre in cerca d’autore, tra attacchi e fughe alla società, al lavoro e ai partner, incapaci tanto di amare, quanto di lavorare. Gli antisociali sottometteranno e vesseranno al semplice scopo di sentirsi vivi, nell’incapacità d’emozionarsi e sentire la vita nel profondo; tutti saranno prede della prima ideologia, capace di contenerne tra pareti forti le identità fragili, di farli sentire valorizzati, protetti, aventi una dimensione e un valore.

Sarà il tempo di nuove religioni e ideologie totalitarie.

In tutto ciò, il tempo che stiamo vivendo offre però a noi tutti una nuova emozione: ci fa scoprire la dimensione d’appartenenza a un gruppo, la dimensione politica dell’uomo che  è nella sua natura più profonda, ma molti di noi non conoscevano neppure, poiché era stata cancellata da nuovi mores.

L’ideologia edonista radicale ed egotista assoluta del turbocapitalismo, quella del “life is now” e della comunità assente, ci aveva depauperati nel profondo, ci aveva resi infelici perché orbati di una matrice, di un’appartenenza, di una capacità di investimento sano nel futuro e nel bene dell’umanità. L’appartenenza che ci sostiene in un’identità valorizzata danno senso al nostro esserci e al nostro essere proprio qui, in questo momento della storia, uniti e pieni di capacità creative e costruttive di futuro.

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