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SULLE PROSPETTIVE DELLA LOTTA CONTRO IL GRANDE RESET di Enrico Levoni*

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Stiamo affrontando l’ingresso in un’epoca nuova, una fase nuova dello sviluppo dell’umanità.

Spinti dal tentativo, terribile e al tempo stesso patetico, di tenere in piedi a tutti i costi questo marcio sistema, le classi dominanti stanno perfezionando un meccanismo di controllo che già da anni hanno messo in campo. Lo scopo non è, come pensano alcuni, di distruggere l’umanità ma più “semplicemente” di garantire il funzionamento della macchina produttrice di profitto a vantaggio di una élite sempre più ristretta di individui, organismi e società. Il nemico dei popoli, della gente comune, dei lavoratori non è un mostro orribile ma un insieme sociale che ha interesse a che qualcosa continui a funzionare. Non mira alla totale distruzione, ma solo all’eliminazione di ciò che ostacola i suoi specifici interessi.

Questo nostro nemico ha quindi dei limiti importanti: ha bisogno anche di noi, di una buona parte di noi; certo: accondiscendenti, soggiogati, prevedibili, mansueti, succubi, ignoranti, abbrutiti ma comunque vivi, in grado e il più possibile disponibili a fornire ciò che serve per far funzionare la macchina. Teniamo a mente questo perché è fondamentale per capire il da farsi.

La “guerra pandemica” è una delle forme concrete di controllo e oppressione messa in campo dai gruppi mondialisti con a capo gli USA: quell’insieme di individui, organismi e apparati statali e privati contro cui stiamo combattendo.

Negli ultimi due anni, noi oppositori della narrazione pandemica e dei suoi effetti, ci siamo imbarcati in un’avventura dai contorni incerti e dagli esiti ancora tutti da scoprire. Spesso abbiamo dovuto reinventare daccapo strumenti e metodi di lotta, di opposizione, di resistenza nuovi anche per i più esperti.

La guerra per l’estensione del controllo NATO verso est (che non è iniziata ora ma almeno dalla fine degli anni ’80) non è altro che un passo avanti, un salto qualitativo della stessa strategia che il nostro nemico persegue. Bisogna capire bene la dimensione della battaglia che stiamo combattendo! Se ci limitassimo a credere di trovarci in un passaggio storico di relativa importanza, le cui implicazioni si ridurranno ad un aggiustamento di tiro, ad un relativo ridimensionamento delle nostre libertà e ad un relativo peggioramento delle nostre condizioni di vita sbaglieremmo gravemente.

Non basteranno certo alcuni buoni soggetti del nostro campo eletti al parlamento, né basteranno alcune piccole per quanto utili e genuine iniziative per costruire vie alternative e “piani B”: senza una visione strategica e senza mettere in campo un progetto per condurre una guerra di lunga durata faremo una brutta fine. Ma non c’è dubbio che ogni guerra va combattuta con ogni mezzo e con ogni donna e uomo disponibile, con idee e strumenti adeguati a vincere. E vincere una guerra di lunga durata vuol dire anche saper fare a pezzi, logorare anche un po’ alla volta il nemico; conquistare pezzi di “territorio” (nel senso fisico e ideologico, culturale, di influenza) e imparare a difenderli nel tempo. Ingrandire le nostre forze con intelligenza e perseveranza.

Molti di noi si sono lanciati nella battaglia contro la narrazione pandemica anche senza bisogno di concepire questa come un pezzo di un attacco profondo e ben più ampio a diritti e condizioni di vita. Questo è indice del fatto che l’intelligenza del popolo spesso arriva anche dove l’”intellighentia” non arriva. Ma ciò non toglie che senza una visione d’insieme non andremo da nessuna parte e prima o poi anche i più ostinati di noi cederanno. Infatti molti di coloro che si sono ribellati ad obblighi e imposizioni e che prima di due anni fa non avevamo mai preso parte a manifestazioni, contestazioni, riunioni, dibattiti, ecc. ora si trovano con una visione più ampia, più organica, più generale della situazione dell’intera umanità. In fondo è pur sempre vero che quando il nemico ti colpisce deve per forza mostrarti anche le sue armi e quindi si scopre.

Fatta questa premessa voglio entrare nel merito di due questioni contenuto del dibattito attuale interno al  movimento noGP e noNATO (semplifico così i due grandi temi motore della lotta in corso). La prima questione è quella dell’unità delle varie componenti il movimento stesso.

La spinta verso l’unità non è nata come frutto maturato a seguito di un primo timido approccio nelle piazze di contestatori coraggiosi ma isolati. In piazza siamo scesi quasi fin da subito in tanti ovunque. Quindi l’unità era condizione naturale del movimento. Solo quando sono iniziati ad emergere problemi di tenuta del livello di partecipazione e di coordinamento di piazze che andavano riducendosi, abbiamo iniziato a misurare con mano l’indebolimento e a tentare di farvi fronte.

Nessuno all’inizio invocava l’unità. Per certi aspetti, con il crescere della mobilitazione, era certamente sano il processo di generazione spontanea di tanti gruppi e organismi ognuno col la propria specificità che però erano in grado – con un minimo di coordinamento e di direzione – di riempire le piazze ogni settimana per tanti mesi. Poi nel corso della lotta sono subentrati altri elementi.

Da una parte il regime ha allentato alcune misure repressive, a partire dal marzo 2022. Questo ha permesso ad alcuni di tornare al lavoro dopo mesi di ristrettezze, al altri di occuparsi di attività fino al momento sospese, ad altri di rilassarsi. In una certa misura le manifestazioni di piazza hanno avuto il loro peso sulle scelte del regime, ma bisogna ammettere che i tempi dell’allentamento non hanno coinciso con quelli della massima mobilitazione, ma sono invece subentrati dopo. Le piazze hanno iniziato a svuotarsi già a gennaio: un nemico serio (come è il nostro) non fa passi indietro mentre li fa anche il suo avversario!

Questo per dire che il processo di unità che tanti hanno promosso (genuinamente o meno è questione da trattare) è un tentativo giusto di far fronte ad un problema, non un’operazione per far fare un salto qualitativo ad un movimento in crescita che si sentiva imbrigliato. Capire – e ammettere – questo ci permetterà di riconoscere la natura del processo di unificazione e di tener conto dei tranelli che in esso si celano.

Una guerra è fatta di battaglie. Ogni battaglia può essere vinta o persa. L’esito complessivo della guerra dipende anche da quante battaglie si vincono, ma dipende soprattutto da quanto si è in grado di imparare da ogni battaglia combattuta, vinta o persa che sia. Oggi siamo un esercito in fase difensiva, più sulla ritirata che all’attacco. Per non disperdere l’esercito trasformando la ritirata in rotta bisogna riunire le forze che hanno perso momentaneamente il collante. Qual era il collante che ci faceva riempire le piazze?

Bisogna innanzitutto riconoscere che essere scesi in piazza, aver fatto incontri, assemblee, dibattiti, picnic, feste ecc. ecc. ha permesso a ciascuno di noi di non sentirsi solo. Tante volte ci siamo detti che questo attacco condotto dal regime con la narrazione pandemica è una forza trasversale che spacca in due famiglie, coppie, amicizie, gruppi, ecc. In questo contesto ognuno di noi preso singolarmente, senza una coesione esercitata, senza una manifesta dichiarazione di tanti che non volevano cedere al ricatto vaccinale, avrebbe dovuto resistere isolato. Forse senza le piazze molti di noi si sarebbero anche vaccinati! Quindi abbiamo tutti fatto una cosa grandiosa: ci siamo dati reciproco sostegno nella lotta senza stare a guardare chi ognuno di noi fosse, da dove venisse, quali idee ruotassero nella sua testa: avevamo un nemico comune e quello era da combattere. Questo risultato non ce lo toglierà più nessuno!

In definitiva ogni processo di unificazione e ogni sua componente (ogni “partitino” e ogni gruppo) per avere successo, per essere riconosciuto come valido strumento di lotta, deve tenere conto di questa analisi e deve includere nel suo dna il secondo aspetto che vado di seguito illustrando.

Ora abbiamo di fronte compiti nuovi, diversi, anche più grandi.

Il nemico, quello che ha dato avvio al Grande Reset, ha esteso le sue operazioni di attacco su più larga scala. Non c’è più solo la cosiddetta “pandemia” come strumento oppressivo e di controllo, come mezzo per cambiare i rapporti di forza a nostro svantaggio. Oggi c’è una guerra in corso, quella in Ukraina. A sentire la narrazione mainstream sembrerebbe l’unica in corso, ma sappiamo bene che non è così. Però questa ha un ruolo particolare: serve a formare uno schieramento più deciso, più coeso a sostegno del processo di sviluppo del Grande Reset e ad indebolire tutti quei paesi e quei gruppi che hanno un peso a livello internazionale ma che non si sottomettono volentieri al nuovo ordine mondiale che gli imperialisti (USA in testa) vorrebbero imporre. Un salto di qualità nei legami e vincoli del campo nemico.

Tutto questo comporta, come stiamo vedendo, conseguenze gravi da molti punti di vista. Nel nostro paese si tratta non solo di restrizioni e obblighi, ma anche di aumento dei prezzi di beni di prima necessità e maggiori tasse. Il tutto condito da una asfissiante propaganda a sostegno del un regime nazista di Zelensky che si spaccia (e ancor più viene spacciato) per la nuova gloriosa Resistenza. Regime che in realtà non è altro che uno dei tanti che si sono prestati a far sopportare al proprio popolo una guerra per procura (lì iniziata prima del 2014) contro la Russia: uno dei paesi presi di mira, insieme alla Cina, nel piano del Grande Reset.

Chiaramente il ruolo del movimento contro l’obbligo vaccinale e contro il green pass ha di fronte due strade: limitarsi a un battaglia di posizione sul terreno di questi obblighi oppure prendere atto che quelle imposizioni non solo altro che un pezzo di puzzle più ampio e più grave e che il terreno di scontro non è solo quello sanitario ma riguarda ogni aspetto della nostra vita e di quella di miliardi di persone nel mondo.

La seconda opzione comporta un salto di qualità che non tutti sono disposti a fare. Comporta maggiori difficoltà, maggiori rischi e maggior impegno. E in effetti l’inserimento della componente noNATO (per tornare alle due categorie iniziali) sta dando al movimento tutto una spinta nuova, ma con radici storiche. Una spinta nuova ma anche una serie di complicazioni in più; prima tra tutte quella della difficoltà a trovare un filo conduttore unitario valido per tutto il movimento, in grado di contrastare la divisione e l’arretramento.

Non è un caso che una parte del movimento noGP veda con diffidenza chi cerca di porre all’ordine del giorno la “questione guerra” e il “salto politico”. Da una parte c’è una sana diffidenza verso i soggetti “politicizzati” che nel campo della lotta contro la NATO e l’imperialismo in generale hanno un passato di esperienza e di conoscenza da rivendicare ma anche una zavorra fatta di vecchi dissidi e conti in sospeso di cui faticano a liberarsi. Dall’altra è diffusa una certa ingenuità che spinge il movimento noGP a mandare tutti i litiganti delle piazze (i cosiddetti “partitini”) a quel paese e a cercare soluzioni alternative, mondi paralleli in cui sarebbe possibile vivere senza avere a che fare più di tanto con il sistema che ci opprime e con i suoi succubi e indottrinati sudditi.

Che fare allora? Come evitare la diaspora, dato che il nemico è forte e c’è bisogno di ogni risorsa?

Una cosa appare sempre più chiara: la scarsa efficacia attuale di quanto abbiamo fatto fino ad ora. Le manifestazioni non producono effetti significativi nemmeno dal punto di vista mediatico. Già quando erano partecipate i media più diffusi le ignoravano. Ora che sono scarsamente partecipate solo sui nostri canali è possibile averne notizia. Possiamo certamente rendere queste mobilitazioni più attraenti e particolari lavorando di fantasia, ma il risultato resta pressoché identico.

Per quanto riguarda la nostra presenza sui canali social bisogna constatare che questa ha avuto un grande sviluppo rispetto a due anni fa, ma il limite è che nella maggior parte dei casi ce la raccontiamo tra di noi. Non c’è dubbio che attraverso facebook, ad esempio, riusciamo a raggiungere anche soggetti esterni al movimento; è giusto quindi continuare con l’utilizzo di questi canali. Ma ai fini del cambiamento dei rapporti di forza tutto questo non conta quasi nulla.

Come detto all’inizio, una parte del movimento sta sviluppando attività “alternative” che in molti casi non sono da considerare una soluzione ma solo una fuga (ad effetto temporaneo) dal campo di battaglia. Ma nell’analisi di questo fenomeno dobbiamo essere concreti.

Quando il tuo medico di famiglia, succube del regime e dei suoi protocolli ministeriali, abdica al suo compito e non ti visita, avere il contatto di un medico “alternativo” (cioè non così succube) è una risorsa importantissima. Questa risorsa spesso è frutto del lavoro di quei gruppi che si sono dati da fare per trovare questi medici.

Quando non puoi mandare tuo figlio a scuola perché non è vaccinato (e giustamente non lo vuoi sottoporre all’obbligo), avere una scuola parentale disponibile nella tua città è una risorsa importantissima. Anche questa risorsa è frutto della mobilitazione di gruppi noVax.

Sono solo due esempi, chiunque può trovarne altri dello stesso tipo. Di fatto si tratta di soluzioni pratiche qui ed ora ai problemi che le imposizioni di regime provocavano. Non si tratta di soluzioni strategiche contro il regime, ma di forme di lotta che rispondono a più bisogni.

Innanzitutto risolvono problemi contingenti che diversamente non sarebbero risolvibili. In secondo luogo ci permettono di allargare il cerchio dei rapporti del nostro campo. In terzo luogo sono una forma elementare, un’esperienza in piccolo di come dovremmo costruire e far funzionare il mondo che vorremmo.

Alcuni obbiettano, in parte a ragione, che anziché costruire nuove forme di organizzazione bisogna riappropriarci di quelle che ci hanno tolto con le privatizzazioni, con gli smantellamenti del welfare, con le esternalizzazioni, con la messa a profitto di ogni aspetto del sociale. Vero. Ma una cosa non esclude l’altra. Se la lotta avanza e si fa più audace sarebbe una gran cosa prendere in mano la direzione di strutture che ci spettano di diritto e gratuitamente (scuole, ospedali, trasporti, ecc.). Ma per fare questo c’è bisogno di gente che abbia le conoscenze necessarie a far funzionare queste strutture e questa esperienza o esiste già in mano ad alcuni di noi o può essere costruita strada facendo.

Se vogliamo confrontare questo aspetto con un precedente storico suggerisco di analizzare la costruzione delle “basi rosse” durante la rivoluzione cinese. In quel contesto (ovviamente del tutto diverso da quello attuale, ma ci serve per capire la logica) il popolo cinese si trovava a combattere un nemico interno, il Kuomintang (che fingeva di combattere i giapponesi), e uno esterno, l’esercito giapponese invasore. Il compito principale dell’esercito popolare cinese era naturalmente quello di contrastare questi due avversari sul piano militare, ma la lotta di lunga durata in corso comportava una grande e profonda trasformazione della vita sociale e per far fronte a questa trasformazione il popolo iniziò ad occuparsi direttamente di ogni aspetto della propria esistenza a partire dalle zone liberate dal controllo del Kuomintang e/o dei giapponesi. L’attività produttiva, la sanità, l’istruzione, i trasporti, le relazioni sociali: tutto era gestito in forme nuove e con concezioni diametralmente opposte a quelle dominanti sotto il controllo del governo del Kuomintang. Questo sarebbe bastato a fare uscire il popolo cinese dalla miseria e dall’abbrutimento a cui era stato sottoposto fino a quel momento? Certo che no! Senza una vittoria definitiva sul piano militare anche le basi rosse sarebbero sparite sotto l’ondata controrivoluzionaria. Ma quell’esperienza servì come base concreta di formazione e di sperimentazione per la società futura e contribuì in modo fondamentale a dare sostegno concreto (logistico, di risorse, ecc.) alla lotta in tutto il paese.

Nel prossimo futuro dovremo molto probabilmente far fronte a obblighi, restrizioni e vincoli anche peggiori di quelli che abbiamo subito fino ad ora. Dovremo inventare forme nuove e più efficaci di lotta. Dovremo organizzarci meglio. Avere al nostro “interno” risorse meno vincolate alle regole del regime ci sarà di aiuto. Bisogna che quelle esperienze che già si stanno costruendo – quelle effettive, non le dichiarazioni di intenti che ancora non hanno portato a nulla di concreto – siano una risorsa funzionante e collegata al resto del movimento.

Lo sviluppo della lotta deve articolarsi quindi su più fronti: mediatico, di mobilitazione nelle piazze, di organizzazione delle risorse indipendenti dal regime e nel coordinamento di tutti questi elementi per farne una forza che conquista progressivamente il terreno oggi occupato dal nemico.

Questa, a mio avviso, è la strada da percorrere.

* Membro del Comitato Esecutivo del Fronte del Dissenso

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