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OLTRE CARTESIO di Diego Fusaro

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Possiamo fare a meno dei miti e dell’inconcettuale? La fallacia cartesiana

Si parla spesso di primato incondizionato della ragione rispetto al mito, alla metafora e in generale all’inconcettuale. Blumenberg [Uscite dalla caverna] ha battezzato questa specifica sindrome della ragione con il nome di “fallacia cartesiana”. Il riferimento, ça va sans dire, è alla vocazione di Descartes alla ricerca di idee chiare e distinte, sciolte da ogni possibile nesso con tutto ciò che sfugge all’immediata autoevidenza e all’onniavvolgente presa della ragione calcolante.

In estrema sintesi, la fallacia cartesiana consiste nel rigetto irriflesso e, paradossalmente, poco consono con le pretese di una ragione che si pretenderebbe riflessiva, di tutto ciò che non è chiaro e distinto, aprioricamente ritenuto indegno e, dunque, tale da dover essere espunto. L’inconcettualità dei miti, delle allegorie e delle metafore rientra appieno, quasi per antonomasia, nella dimensione che, ad avviso di Descartes e della modernità da lui tenuta a battesimo, più deve essere esorcizzata, di modo che ovunque splendano i raggi di una ragione incontrastata.

Le regole del metodo ad directionem ingenii figurano esse stesse come una raffinata via che la ragione traccia a se stessa, al fine di evitare quegli inciampi e quei fuorviamenti che potrebbero, in certo modo, dirottarla verso l’erramento e l’inconcettualità, non di rado intesi come in connessione reciproca. L’Illuminismo e il positivismo, il razionalismo e la scienza, e, più in generale, tutte le principali prestazioni di senso del moderno hanno variamente riproposto, sia pure con formulazioni di volta in volta differenti, il tema della fallacia cartesiana. Quand’anche non lo esplicitassero sotto forma di teorema, lo condividevano silenziosamente, sotto traccia.

Il presupposto, che invero resta infondato da Descartes a oggi, è quello in forza del quale l’aspetto chiaro e distinto del concetto risulterebbe differente, incompatibile e ab intrinseco superiore rispetto all’eterogenea sfera dell’inconcettuale in ogni sua determinazione. Quest’ultimo dovrebbe, allora, essere inteso alla stregua di un temporaneo erramento della raison, rea di aver abbandonato l’aurea via del suo metodo e l’ideale orientativo della “chiarezza” e della “distinzione”, per consegnarsi improvvidamente alla periclitante dimensione di ciò che concettuale e razionale non è.

L’Illuminismo ha, a sua volta, ereditato e, insieme, storicizzato questa prospettiva. L’ha incastonata in una filosofia della storia stadiale e progressiva: in accordo con la quale l’umanità, nelle sue iniziali fasi di giovinezza e di immaturità, ancora ricorreva al supporto dell’inconcettuale (mitologemi e metafore, fiabe e grandi narrazioni irrazionali), da cui poi, crescendo e formandosi, avrebbe sempre più preso congedo. Fino a culminare, naturalmente, nell’Illuminismo stesso, teleologicamente concepito come momento supremo della ragione conforme a sé e alle proprie prerogative, ormai giunta alla maggiore età e affrancata dalle scorie dell’inconcettualità.

Con l’avvento della raison illuministica, l’inconcettuale, che pure svolse una sua funzione specifica in tempi di ragione assente o, comunque, non pienamente operativa, avrebbe definitivamente smarrito ogni legittimità nel quadro di un’epoca storica contraddistinta dal rischiaramento razionale e dall’abbandono senza riserve di ogni “superstizione”. Va da sé che nello spazio concettuale schiuso dalla nozione squisitamente illuministica di superstition rientrerebbe appieno l’inconcettuale in quanto tale. Succube della fallacia cartesiana è ancora, tra l’altro, l’antropologia di Lévy-Bruhlv e Lévi-Strauss, che, sia pure in maniere del tutto diverse, pone in connessione il pensiero mitico con la mentalità “primitiva”.

Contro questa tendenza, ancora oggi obliquamente egemonica, è forse opportuno, sulla scia di Blumenberg, mostrare i paradossi della fallacia cartesiana e del suo tenace campo operativo. Tale paradossalità potrebbe, con diritto, cristallizzarsi in una duplice domanda: a) può realmente intendersi l’inconcettuale come incompatibile e, di più, come conflittuale rispetto alle regioni del concetto razionale?; b) può davvero quest’ultimo affrancarsi completamente dall’inconcettuale e operare solo secondo i propri canoni, siano essi quelli delle regulae di Descartes o quelli del metodo scientifico post-cartesiano?

Per prospettare una pur impressionistica risposta a questi quesiti, può giovare un richiamo al fatto che il concetto, con la sua strenua difesa delle idee chiare e distinte, è – non v’è dubbio – il trionfo della ragione. Della quale, però, contrariamente a ciò che usualmente si è indotti a ritenere, non esaurisce il campo di applicazione di sviluppo. In antitesi con il portato della fallacia cartesiana, l’inconcettuale, ossia il regno dell’inquestionabile, non può essere inteso come una dimensione pre-razionale, quando non direttamente irrazionale, quasi si trattasse, secondo la concezione illuministica, della visione dell’essente coerente con gli stadi dello sviluppo umano nei quali la ragione ancora non aveva affermato appieno se stessa.

In maniera diametralmente opposta, la ragione si rivela costitutivamente più ospitale e meno esclusiva di quanto non si potrebbe a tutta prima pensare e a quanto durevolmente hanno creduto i moderni. Da un diverso angolo prospettico, l’operato della ragione non si risolve interamente nel pensiero concettuale, nella concettualizzazione chiara e distinta dell’essente, che pure ne è un’espressione niente affatto secondaria. Il pensare per concetti è incontrovertibilmente una forma della ragione, la quale, tuttavia, non si lascia univocamente risolvere in essa. È quanto, tra gli altri, ha intuito Hegel, mostrando come, accanto al procedimento del concetto razionale, il vero possa essere disvelato anche mediante la “rappresentazione” religiosa e l’opera d’arte: le quali, sia pure con forme differenti, attingono ugualmente l’Assoluto e sono, per ciò stesso (pur nella loro inconcettualità), espressioni di verità. Certo, è ancora radicata in Hegel – come ultimo, inconfessabile retaggio della fallacia cartesiana – la convinzione che, al netto dell’identità contenutistica, la forma del Begriff, della “concettualità” razionale resti la più adeguata, nonché la più potente.

* Fonte: 21 AVIG

Un pensiero su “OLTRE CARTESIO di Diego Fusaro”

  1. Nicola dice:

    Ma forse la fallacia non sta solo nel rifiuto di ciò che non è chiaro e distinto, ma nella riduzione dell’Io al solo pensiero. Infatti, se l’io fosse solo pensiero, non sarebbe consapevole di stare pensando. C’è dunque un Io superiore, l’Io che ha consapevolezza della sua capacità di pensare.

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