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SESSO E POSTMODERNITÀ: “SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO”? di Alessia Vignali  

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Provoca e merita una riflessione il bell’articolo su nuova sessualità e potere di Angelica Dionigi che abbiamo qui pubblicato. Anch’io sono convinta che sia essenziale ripensare il nostro rapporto con la sessualità: l’immaginario contemporaneo al riguardo appare logoro, mentre le nuove “teorie” che intenderebbero dirimere la sessualità – vedi, tra le altre, la gender theory o quella, meno ambiziosa, del “nuovo disordine poliamoroso” – ne mortificano mistero e sacralità.

Nella loro veste di motori simbolici ideologici, dunque di veri responsabili del modo che noi tutti abbiamo di conferire un senso alla nostra vita, essi sono, come segnala l’Autrice, modalità di concettualizzazione della realtà al servizio di un potere che sa bene che se domini il sesso avrai in pugno una civiltà. E avrai in pugno una civiltà non soltanto poiché ti poni a cavallo della potenza deflagrante di Eros, ma perché conferisci alle strutture arcaiche profonde della psiche umana, il Femminile e il Maschile, la Madre e il Padre, il Figlio, una configurazione e un ruolo tanto precisi da determinare la vita dei singoli, che da tali archetipi vengono guidati come se si trattasse d’invisibili copioni sulla cui trama recitare a soggetto… e dalla cui adesione dipende la loro autostima, oggi come ieri.

Se dirimi il sesso come fa ogni sistema di potere e ogni cultura, qualunque sia la tua soluzione non avrai mai la soddisfazione dell’Homo Sapiens, scisso al riguardo per sua difficile natura. L’uomo vuole la passione ma anche la sicurezza, l’evasione ma l’esclusività di un amore assoluto.

Lo abbiamo già detto, ma vale la pena ripeterlo: riferendosi alla morale sessuale civile dell’epoca nella celebre e spesso travisata frase tratta dal “Disagio della civiltà”, Freud asserì “l’uomo civilizzato ha barattato un poco della sua possibilità di essere felice per un po’ di sicurezza”. Con questo, egli criticava la rinuncia pulsionale – il cui prezzo erano le tante nevrosi da lui studiate -, ma allo stesso tempo la difendeva, poiché la poneva alla base delle più alte conquiste dell’uomo per via della sublimazione degli istinti che gli imponeva.

Parlando con amici indiani mi son ritrovata a dover giustificare la “nostra” teoria dell’amore “romantico”, prescrivente la libera scelta del coniuge e pienamente introdotta da noi a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso (norma forse da sempre praticata dagli umili, ma relativamente recente per la borghesia).

Ebbene, gli amici indiani sostenevano che tale concetto di “amore romantico” fosse fallimentare, dato l’alto tasso di divorzi riscontrato in occidente, e che i loro “matrimoni combinati” avessero miglior esito. Detto così sembra miope, ma se pensiamo alle sue basi culturali, un’idea d’amore che non punti tutto sulla passione, ma sia fortemente sbilanciata nel valorizzare la lenta dedizione dell’attaccamento – che pure, come comprovato dagli studi sull’attaccamento da Bowlby in poi, è da annoverarsi tra le grandi forze motivazionali dell’uomo – presenta i suoi vantaggi, tra cui un forte investimento affettivo e ideale nella tenuta del matrimonio, visto ancora da loro come patto di solidarietà, “porto sicuro” nelle tempeste della vita e ponte tra le generazioni. Parecchi di noi inorridiranno, considerando questo modello ben lungi dall’aspetto di “gabbia dorata” che assume agli occhi di chi me ne parlava.

Nella loro versione attuale, però, le norme “post – postmoderne” patrocinate in occidente dagli spin doctor del nuovo ordine mondiale generano confusione e infelicità anziché l’atteso liberatorio senso d’emancipazione, come noto dal mio osservatorio di psicoanalista. Grande è il caos sotto il cielo, quando il semplice atto di guardare alle grazie femminili viene tacciato di “stupro visivo” in un empito di neopuritanesimo “woke”, oppure quando si prescrive che le ragazze devano essere talmente libere dal giogo della dipendenza dal maschio da non dover nulla all’innamorato, nemmeno una vacanza con lui: è più “cool”, “fa emancipazione” anteporgli il gruppo delle amiche. Nessun obbligo nasce nel rapporto con l’altro, nessun dovere, solo piacere.

Ancor più grande è la confusione nell’adolescenza. Dagli anni Settanta in poi, quella era la fase di “moratoria sessuale” in cui il giovane uomo o la giovane donna venivano lasciati liberi di sperimentarsi, giocando e soffrendo, provando e riprovando… per farsi un’ identità nella relazione e attraverso di essa. Qui mi piace introdurre un inciso su quanto siano desueti i termini “giovane uomo” e “giovane donna”. Oggi siamo tutti “ragazzi” fino ai sessant’anni, felici di mutuare per noi stessi il termine dall’epiteto usato dal “mister“ per i membri della sua squadra calcistica: un esempio del nuovo ideale dell’“indeterminatezza”, di una fobia per la definizione dell’identità, quasi che gli appellativi “uomo” o “donna”, nel loro sancire l’avvenuto completamento del percorso biopsichico di crescita, indicassero qualcosa di definitivo e irreparabile che ci consegna alla morte. Preferiamo allora essere un po’ “fluidi” tutti quanti, anche rispetto all’età. Ma cosa perdiamo in questo passaggio? Altro tema dovuto a significazione culturale su cui ci sarebbe parecchio da discettare, visto che un tempo la canizie aveva ben altro status.

Per tornare alla “moratoria sessuale giovanile”, essa è piuttosto “sana”, diremmo noi psicologi: e dobbiamo dire grazie a quei “nonni scostumati” che furono giovani negli anni Sessanta e Settanta se ci è stato possibile sperimentarla e se oggi ci è possibile anche solo ragionare, decostruire o tentar di ricreare qualcosa attorno ai temi della sessualità e dell’amore. Lunga vita a chi ha “liberato” il nostro concetto di sessualità, dunque. Ma nel frattempo troppe cose sono cambiate.

Prima fra tutte, lo scollamento della sessualità dalla procreazione avvenuto grazie alla contraccezione. In questo, la scienza ha potuto di più di qualunque ideologia nel conferire un significato del tutto nuovo alla sessualità. Secondo, l’intervento della tecnologia nella procreazione stessa tramite dapprima le tecniche di procreazione assistita, poi la genesi di embrioni sintetici senza la necessità di ovulo o spermatozoo, eventi che sanciscono una tappa gravida d’implicazioni bioetiche e di potentissimi impatti psicologici che vanno alla radice stessa della formazione della nostra mente. Che senso sta assumendo ora il sesso, fortunatamente liberato dai gravami della biologia e del rischio, ma inserito nelle manipolazioni della tecnica?

Il problema della significazione culturale è oggi grande e affonda le sue radici proprio in questo, nel cambio di paradigma sulla sua funzione biologica ed esistenziale dettato dalla tecnica. Potremmo quasi invocare il concetto di “pseudospeciazione”: la cultura, che conferiva all’uomo una guida vicariando l’assenza degli istinti nell’uomo, è ora in forte dubbio poiché non sa più quali parametri fornire a causa di un suo oggettivo spiazzamento, mai verificatosi prima nella storia. Quando la cultura vacilla, i think tank del potere si mettono al lavoro.

Ai ragazzi di oggi si dice che devono essere liberi di sentirsi un giorno maschio e un giorno femmina, poiché il genere non ha rapporto alcuno con il sesso biologico; più si è fluidi, più si è cool (e torna la fobia dell’assunzione di un’identità), dunque occorre annoverare tra i tanti dilemmi da dipanare in adolescenza anche quello dell’appartenenza a un genere, così che la moratoria non abbia idealmente mai fine (è un fatto: oggi gli specialisti parlano di adolescenza fino ai trent’anni). Questo li abitua poi a sentirsi signori e padroni assoluti del loro corpo, da cui sentirsi totalmente svincolati (con un certo danno all’esame di realtà), anche grazie al potere di una tecnica pronta a intervenire nelle tappe cruciali della vita dietro lauto compenso: si prevedono nascite in laboratorio in sacche extracorporee, i già citati embrioni sintetici, innesti neurotecnologici… abituandoci sin da subito a essere biopoliticamente gestiti e geneticamente modificati. Prima che ce ne accorgiamo avremo tutti il bollino della Monsanto.

Riandando al tema adolescenza, si propone poi ai ragazzi il modello del “poliamore”, dove si ha il diritto di coltivare relazioni amorose non “in serie”, com’era nella sperimentazione “profonda” di un tempo (che si può anche chiamare “cammino di conoscenza di se stessi e dell’altro”), ma in parallelo: però è bene dirsi tutto e raccontarsi le reciproche avventure. Così, si fa del partner la riedizione di “mammina” o “papino”, con ovvia dipendenza ben più forte che nella sana assunzione su di sé della colpa che in tempi passati ogni “fedifrago” doveva compiere dimostrando, almeno in questo, di essere “adulto e autonomo”. Persino la vituperata “doppia morale” puritana e cattocomunista, in parte legata alla storica scissione della donna in “Madonna” e “Puttana” (e dell’uomo in “Padre di famiglia” e “Mascalzone”) era preferibile a un modello che fa credere al singolo di non aver nemmeno il diritto di essere amato in maniera “assoluta” e “totalizzante” da qualcuno; diritto che, come chiunque si sia innamorato ben sa, è inscritto nella danza stessa degli ormoni della vicinanza. I “poliamori” sanciranno dunque la fine dell’amore per come lo conosciamo?

Le nuove norme sembrano insomma allontanare i due sessi o gli omosessuali gli un gli altri, anziché avvicinarli e aiutarli nel conquistare la tanto ambita dimensione dell’intimità; al suo posto viene sancito un regime del “desiderio momentaneo” che alla sua improrogabilità immola ogni altro valore. Già la tesi secondo la quale la realizzazione di un desiderio sia di per sé cosa buona e giusta è perdente almeno da due punti di vista, quello della soddisfazione libidica personale e quello, generale, del bene per l’uomo. Sappiamo che il pensiero nasce solo nello spazio “vuoto di cose, ma pieno di fantasia” della lontananza dall’oggetto. Dunque, solo un desiderio che incontri sulla sua via qualche ostacolo renderà possibile l’arricchimento dell’esperienza nella nostra mente, … così che il desiderio si faccia più intenso e raggiunga diverse dimensioni della personalità attivando tutto l’uomo, non solo il suo organo sessuale. Dal sesso si passa allora all’erotismo, che è un fatto mentale, e dall’erotismo all’immaginario amoroso, che magari coimplica l’altro in un progetto di conoscenza ed esplorazione, oppure in una intera vita.

In secondo luogo, contrariamente alla tesi di Marcuse che trovava nella semplice esistenza di un desiderio nell’uomo l’indicazione per una sua realizzazione -tanto da non considerare illecito nemmeno il sadismo-, sappiamo che la semplice esistenza di un desiderio in noi non legittima il buon esito, per lui e per gli altri, di una sua realizzazione. Nella nostra mente ci sono desideri contrastanti in conflitto, l’orrido e il sublime: è cifra dell’umano la messa in dialogo degli stessi e la scelta in vista del suo progetto di sé complessivo e lungimirante.

Ci sono due tipi di stimoli, asserisce Erich Fromm: quelli semplici, di cui sono esempio il mero fatto di mangiare o l’atto sessuale, e quelli “attivanti”, che risvegliano nell’uomo molteplici dimensioni di sé e lo rendono vivo e attivo. I primi cessano dopo la loro “soddisfazione” e non richiedono l’attivazione dell’uomo, ma anzi una sua passiva esecuzione. I secondi non finiscono mai di produrre il loro effetto perché inducono l’uomo a un’espansione teoricamente infinita, alla creatività e alla produttività. “Si può leggere un dramma greco, o una poesia di Goethe, o un romanzo di Kafka, o un sermone di Maestro Eckhart, o un trattato di Paracelso, o frammenti dei filosofi pre-socratici, o gli scritti di Spinoza o di Marx, senza annoiarsi mai”, spiega Fromm. La differenza tra i due è cruciale, perché solo i secondi permettono non solo la realizzazione del concetto più alto di “umanità”, ma anche il raggiungimento della gioia, che nulla ha a che fare con la soddisfazione immediata. La gioia è un diesel, un concetto a lunga gittata da riscoprire. Le società egotiste ed edoniste della storia, tra cui quella della Roma in decadenza e la nostra, non brillano per la felicità dei  loro cittadini. I grandi del pensiero, tra cui Gesù, il Buddha, Gandhi, i profeti ebraici e lo stesso Fromm, si sono sempre contrapposti alle logiche del piacere immediato e dell’avere per proporre il modello dell’essere. E’ a questo che vorremmo s’ispirasse un codice amoroso che celebri la bellezza del proprio corpo sessuato e della propria mente in fiamme nell’amore, ma anche nell’avventura e nel gioco, purché sia gioco poetico di creazione di sé e dell’altro. Non vorremmo dimenticare, come rischiamo per via della sua mercificazione e oggettificazione, che il sesso è pur sempre l’occasione d’incontro con le scaturigini della vita e il mistero dell’incontro con un altro che può farci vivere con uno sguardo d’amore o morire con una parola di disprezzo.

2 pensieri su “SESSO E POSTMODERNITÀ: “SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO”? di Alessia Vignali  ”

  1. Sardonicus dice:

    ”I grandi del pensiero, tra cui Gesù, il Buddha, Gandhi, i profeti ebraici e lo stesso Fromm”

    Ah, scopro che Gesù Cristo non è IL Pensiero (o Verbo) di Dio, ossia Dio stesso, ma solo un Severino, un Cacciari qualsiasi, o simili. Che delusione, ci avevo creduto davvero.

  2. Edoardo Pascarella dice:

    Bene discutere di queste cose. È necessario però fare uscire la discussione da piccoli circoli culturali elitari (nel senso nobile del termine) e dare ad essa una dimensione più vasta e popolare.
    Facile a dirsi…

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