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LA PREGHIERA È MEGLIO DEL PROZAC? di Alessia Vignali

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I risultati della congerie di studi scientifici sull’efficacia della preghiera per la salute psicofisica rimangono confusi. Il vero problema è che si continui a porre al vaglio di una scienza riduzionista e causalista un fenomeno complesso come la fede, nella vana ambizione di profferire parole utili a comprendere l’umano.

Nell’ottobre del 1927, poche settimane prima di dare alle stampe il saggio “L’Avvenire di un’illusione”, che costituisce il più pesante attacco che un uomo di scienza potesse all’epoca sferrare alla religione, Sigmund Freud scrisse una lettera d’avvertimento all’amico reverendo Oskar Pfister, nel timore che la sua aperta ripulsa della religione gli potesse risultare dolorosa. Il pastore di Zurigo non si scompose: “Quanto al Suo saggio contro la religione, la Sua ripulsa non mi dice niente di nuovo. L’aspetto con gioiosa impazienza. Alla religione un avversario intelligente giova più di mille seguaci incapaci”. E contrattaccherà un anno dopo con il suo saggio “L’illusione di un avvenire”, in cui risponderà con notevole spessore filosofico alle tesi del padre della psicoanalisi.

Oggi, una scienza che vorrebbe sostenere gli effetti terapeutici della fede con ricerche anche ben finanziate — è costato 2,4 milioni di dollari lo studio decennale di Herbert Benson alla Harvard University (2006) sull’efficacia della preghiera d’intercessione nel favorire la guarigione — finisce per essere un “fuoco amico”, danneggiando la fede forse più dell’“avversario intelligente” vagheggiato da Pfister nel lontano 1927. Tale scienza risulta infatti tanto inefficace nelle metodologie e tanto forte nella fiducia che ispira nei suoi adepti da creare non pochi fraintendimenti sul ruolo e sulla natura di un ambito complesso come quello della fede. E’ un fatto: il “bisturi” della ricerca scientifica in campo biomedico, costituito dal paradigma sperimentale, è raramente efficace nell’indagine dei fenomeni che alimentano e di fatto costituiscono l’umano.

Nella migliore delle ipotesi la ricerca scientifica trasforma infatti la fede in un vuoto “set di tecnichalities” volte a conseguire un vantaggio materiale. Dunque, paradossalmente quegli stessi studi scientifici che vorrebbero comprovare, per esempio, l’efficacia della preghiera perché “fa bene alle coronarie” o “combatte la depressione favorendo il rilascio di serotonina” finiscono per svuotarla da dentro, per immiserirne il significato;  consegnandola  insomma, trasformata in pozione magica e in prodotto, a un pubblico che così la tratterà: da pozione magica e da prodotto.

Non siamo lontani da un uso popolare, che oggi chiameremmo con la psicoanalisi “regressivo”, che da sempre si è fatto sia della religione che della scienza ai suoi esordi o della scienza di oggi (pensiamo ai “sieri miracolosi”), innervandole nel profondo: quello della realizzazione magica di un desiderio. Era perseguendo la realizzazione di piccoli o grandi obiettivi personali che il popolo credente si affidava per esempio ai santi, figure eccezionali capaci di miracoli che però non si limitavano a questo. I santi erano

«uomini che, per la loro fede, conquistarono regni, praticarono la giustizia, videro realizzarsi promesse, turarono la gola ai leoni, estinsero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, trionfarono sulle malattie, diventarono prodi in guerra… Altri soffrirono scherni e flagelli, catene e prigioni (…), andarono raminghi, coperti di peli di pecora o di capra, privi di tutto, angustiati, maltrattati; personaggi di cui il mondo non era degno, costretti a vagare per i deserti e per le montagne, o a rifugiarsi nelle spelonche e nelle caverne della terra». (Paolo di Tarso, Lettera agli Ebrei).

Come vedete, l’aspetto di “farmaco” del miracolo promesso dal santo è quasi marginale, a fronte dello spessore della proposta valoriale e dell’antropologia che questi dispiega al mondo.

Tornando a noi, è sin dai lontani anni Settanta che s’inaugura la filiera degli studi sulla fede come promotrice di benessere psicofisico. Capofila ne sono le ricerche del già citato Benson, fautore della cosiddetta “prayer therapy” (il nome è nel segno del classico pragmatismo made in USA). “Essere credenti non importa”, asserisce, “basta pregare. E’ come la penicillina: seguite la cura e funzionerà”. Benson si accorse che coloro che avevano fede in Dio approdavano in maniera più veloce alla guarigione da una convalescenza e dedicò a questo alcuni studi che parevano avvalorare il fenomeno, seguiti poi da oltre 180 studi sulla “prayer therapy” condotti da diversi gruppi di studio. Il più imponente di essi, quello già citato dello stesso Benson conclusosi nel 2006 dopo aver coinvolto 1802 pazienti per valutare gli effetti della preghiera d’intercessione d’altri sulla loro guarigione dopo un intervento di chirurgia coronarica, si è rivelato un nulla di fatto, non comprovando i benefici della preghiera e anzi, addirittura sfiorando un “effetto nocebo” (che non raggiunge però la significatività statistica) per il gruppo di pazienti cui era stato detto che qualcuno avrebbe pregato per loro: forse per via del fatto che il saperlo alimentava nei pazienti il sospetto che, se qualcuno pregava per loro, forse “c’era di che preoccuparsi”. Sarebbe curioso vedere se i pazienti fossero credenti, quale tipo di preghiera fosse stato adottato, se i volontari stessi che pregavano per loro fossero a loro volta credenti e “in che modo”… Quale tipo di preghiera è stato utilizzato? Chi o che cosa, è stato pregato? Chi l’ha fatto era un parroco o un semplice cittadino? Perché è senz’altro lecito chiedersi se la preghiera di un prelato o di un uomo con fede ardente sia o meno  più potente di quella di altri…

In realtà, nessuna di queste ed altre dimensioni “qualitative” della fede potrà mai davvero venir operazionalizzata da uno studio, cioè trasformata in dato quantificabile.

Studi successivi a questo riescono invece a sostenere l’impatto positivo della preghiera sulla salute senza i marchiani errori metodologici dei primi studi, accusati via via di frode, mancanza di controlli e differenze di risultato tra gli stessi disegni sperimentali praticati in setting diversi. Per gusto di cronaca salace cito solo il primo di essi: si trattava di una ricerca pubblicato nel 2001 dal Journal of Reproductive Medicine, in cui tre ricercatori della Columbia Universty affermavano che la preghiera per donne sottoposte a fecondazione in vitro aveva portato a un tasso di gravidanza del 50%, il doppio di quelle che non hanno ricevuto la preghiera. Bruce Flamm, clinico scettico, riuscì non solo a trovare errori metodologici nello studio, ma anche a smascherare uno degli autori, non medico, ma parapsicologo accusato peraltro di frode e furto.

Studi ineccepibili riescono comunque a validare l’efficacia degli “atti di fede” in campo medico.

Per esempio, nel 2013 ancora Benson dimostra, in un articolo pubblicato su Plos One,  che la preghiera induce il cambiamento dei profili genetici delle persone, anche qualora atee, ma sottoposte a un training composto da preghiera, meditazione e rilassamento. Ricercatori dell’Università di Pavia (Bernardi et al., 2001) avvalorano l’efficacia della recitazione del rosario per un miglioramento della pressione arteriosa.

Il NIH statunitense scopre che chi prega regolarmente ha il 50% in meno di sviluppare un tumore. Per finire, Andrew Newberg, iniziatore della cosiddetta “neuroteologia”, sviluppa per oltre un ventennio studi di neuroimaging in cui scopre che le aree cerebrali più coinvolte nelle preghiera sono quelle limbiche e frontali. Le prime sono più deputate alle emozioni, le seconde ad attività lavorative come la concentrazione e l’attenzione.Si spegnerebbero inoltre le aree cerebrali parietali, necessarie all’orientamento nel tempo  e nello spazio, dunque la dimensione di benessere psicofisico della preghiera sarebbe associata a questo (Newberg, 2014). Last but not least, l’aumento di serotonina, neurotrasmettitore fondamentale nella regolazione dell’umore, registrato nel cervello in preghiera, consentirebbe di “contrastare efficacemente le depressione, l’ansia, l’insonnia, l’impulsività, lo stress e tutte le patologie psicologiche correlate” (Teasdale et al., 2013). Attivando il sistema parasimpatico, la preghiera indurrebbe un profondo relax così come la meditazione, ecco perché sarebbe un toccasana, sostiene ancora Benson.

Se la preghiera “funziona”, dunque, è perché coinvolge certe aree cerebrali, che sono però le stesse implicate in migliaia di altre attività, perché induce la secrezione di serotonina, secreta in altrettante attività. Cavalcando il riduzionismo biomedico, questo alterato principio di causalità che ascrive processi mentali a fenomeni organico-biochimici, non stiamo in realtà dicendo nulla di distintivo o dirimente sulla genesi dell’atto di fede: è come dicessimo che la profondità di Dante è originata dalla sua conoscenza dell’alfabeto italiano, che è poi lo stesso alfabeto impiegato da Bombolo, il comico della commedia sexy all’italiana degli anni Settanta… con ben altri risultati!

Purtroppo non sembra ancora vero che il paradigma dell’odierna biomedicina, come scienziati di buona volontà propongono e asseriscono (Bottaccioli, 2014) abbia già superato il riduzionismo all’insegna delle scoperte della psico-neuro-endocrono-immunologia. Lo dimostra, peraltro, il funzionamento dell’intero apparato economico-tecno-biopolitico che abbiamo potuto tutti vedere all’opera negli ultimi tre anni.

L’individuazione delle aree cerebrali coinvolte nel verificarsi della preghiera non è cioè che una “tautologia scientifica”, un giro di parole che non spiega nulla. Semmai esso chiarisce, questo sì, “come” avvenga un fenomeno. Dunque, l’uso dall’avallo della scienza può semmai rassicurare chi ricorra alla fede, e lo si può capire, visto che da sempre la fede è incappata nella “tentazione” di cercare nella ragione una sua validazione. Ricordiamo l’esempio di parecchia filosofia, a partire dal 1076, quando Anselmo d’Aosta accolse la richiesta dei monaci dell’abbazia benedettina di Bec di poter esporre tutte le verità relative all’essenza divina seguendo non l’Autorità della Scrittura, ma la necessità della ragione”, trasgredendo al veto del papa Gregorio Magno secondo il qual “l’agire divino, se è compreso dalla ragione, non è ammirabile, né la fede ha merito, quando la ragione umana offre la prova.”

Difficile, per la ragione, “comprendere” le ragioni divine e l’essenza stessa, della divinità, così come impossibile, per la scienza di oggi, comprendere come mai la fede possa “funzionare” promuovendo la guarigione: il metodo della scienza sperimentale può spesso chiarire, raramente comprendere i fenomeni umani, ebbe ad asserire Karl Jaspers: è dunque possibile spiegare qualcosa senza comprenderlo”. Non comprendendo il fenomeno nel profondo, la scienza può dunque far strame della fede favorendone l’accezione di oggetto sganciato da ogni significato più complesso, riducendola poi a mera “tecnica”, alla stregua della meditazione buddista trasformata in mindfulness a uso di clienti. In questa operazione da “supermarket della fede” nata sulla scia della new age, non a caso di matrice pragmatico-consumistica americana, ciò che si oblia e di fatto si distrugge è il cuore stesso di ogni possibile guarigione della psiche e del corpo: l’uomo guarisce non perché recita una preghiera o un mantra, ma per ciò cui quella preghiera o mantra lo riconnettono. Vale a dire, un compresso sistema di pensiero umanistico che lo colloca nel mondo, dando un senso e un orientamento alla sue esistenza e indicandogli stelle polari valoriali.

Lo psicoanalista Erich Fromm, che pur stimolava l’uomo a ricusare gli ipse dixit e a cercarsi le sue verità, asserì a ragione che l’uomo non può fare a meno di un sistema d’orientamento e devozione e di un senso profondo al suo agire. L’uomo necessita di trascendersi, se non lo fa implode nella patologia.

Leggendo le povere interpretazioni della preghiera proposte dei ricercatori e intendendo l’immiserimento cui essi sottopongono l’uomo e la sua fede, fagocitata dalla tecnica e da essa strumentalizzata, non possiamo che proporre, a mò di contraltare, lo spessore che la fede ha nella storia personale e nel vissuto della nostra tradizione cristiani. In quanto atea credo di esser quasi affidabile, mentre asserisco che sia tutta da recuperare la complessità e la ricchezza umanistica di tale credo: ogni epoca necessita dei suoi miti, delle sue narrazioni, persino delle sue favole in una lunga mitopoiesi, che per il cristianesimo dura oramai da 2000 anni, per poter elaborare e digerire la traumaticità caotica in cui è immersa senza impazzirne.

Mi rifaccio, qui, a un grande psicoanalista italiano che il mondo ci invidia, il postbioniano fautore della nuova teoria del campo Antonino Ferro, quando dice che la mente è il meglio ma anche il peggio della nostra specie, un dono dell’evoluzione ma anche un lascito per l’evoluzione stessa gravoso e rischioso. Fatica necessaria della mente è la continua creazione di miti, questi precipitati di un sogno gruppale che mettono ordine in un punto nodale della nostra esistenza emotiva collettiva. Abbiamo bisogno di nuovi miti, o di riscoprire e risignificare quelli antichi, poiché la vecchia narrazione corre il rischio di divenire una palude, un freno rispetto ad altri imprevisti cammini che quel mito non contiene (Ferro, 2008).

Il mito attuale è quello scientista, ça va sans dire.

In chiusura vi propongo, a mò di contro-narrazione rispetto a quella che della preghiera fa la scienza sperimentale, la narrazione teologica, valendomi delle epifaniche parole che il teologo Xabier Picaza ci offre in Concetti fondamentali del cristianesimo:

«La preghiera scopre e realizza la sua vita alla luce della vita e della grazia divina. Tramite la preghiera l’essere finito si colloca davanti all’essere dell’infinito, in modo tale che i due si incontrano e dialogano. Da questo punto di vista la preghiera è un “gesto umano”: è l’apertura creativa e libera di una persona finita che osa, che si mette a dialogare con il mistero. Al tempo stesso però è anche un “gesto divino”: si presenta come spazio di manifestazione di Dio nella nostra storia. Logicamente, in questo modo, la preghiera può e deve situarsi in una prospettiva filosofica. Essa si inserisce nello spazio più profondo del processo dialogico dell’uomo, laddove la mente umana, concentrata sul suo profondo “io”, si apre o può aprirsi al “tutto” della vita fondante o al “tu” già personale del divino. Senza questa capacità di “dialogo interiore”, quell’apertura dell’essere personale verso il livello di quello che lo fonda, lo trascende e lo arricchisce, non si può avere preghiera».

Un pensiero su “LA PREGHIERA È MEGLIO DEL PROZAC? di Alessia Vignali”

  1. Marcella dice:

    Siiiii
    Evviva Picaza !!
    Grazie di cuore Dottssa Vignali

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