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VERSO UN CROLLO ECONOMICO GENERALE? di M. Pasquinelli

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Può il fallimento di due medie banche americane (Silicon Valley Bank  e Signature Bank) innescare una cascata di fallimenti bancari dentro e fuori gli USA? La maggioranza degli analisti, confortati dopo il tonfo di ieri dei titoli bancari dalla ripresa odierna (martedì 14 marzo), risponde che no, che il peggio sarebbe già passato. Lo sostengono non tanto grazie al salvataggio attuato in tutta fretta dalle autorità politiche e monetarie nordamericane, ma perché, nell’Olimpo della iper-finanza, esso annuncerebbe la fine delle politiche monetarie restrittive della Fed e della Bce — è noto da tempo quanto decisiva sia diventata la droga monetaria per sorreggere, soprattutto dopo il collasso del 2008-09, un’economia iper-finanziarizzata.

Noi invece riteniamo che questo ottimismo sia ingiustificato. Certo, nessuno può stabilire, nella sfera sociale, quando la quantità si trasformerà in qualità, ovvero quando una crisi circoscritta precipita in un vero e proprio crollo globale. Questa capacità predittiva è infatti negata anche alla più potente “intelligenza” artificiale, malgrado la sua formidabile capacità di elaborare caterve di dati. Quello che si può e si deve invece decidere è stabilire la tendenza generale, se la curva macroeconomica della “crescita” tende ad invertirsi e a precipitare verso la recessione/stagnazione  globale — la quale, sia detto di passata, pur colpendo sincronicamente i diversi paesi, ha sempre effetti asimmetrici.

Una cosa è certa: ogni grande crisi economica generale, tanto più in un ambiente neoliberista e bancocratico, è anticipata e annunciata da fallimenti bancari. Che il barometro annunci burrasca in arrivo, è mostrato dal fatto che i due fallimenti negli Stati Uniti non sono un fulmine a ciel sereno. Vale ricordare almeno tre eventi topici accaduti nel 2022: il dissesto del gigante bancario Credit Suisse; la crisi di debito pubblico britannica (che ha portato alla dimissioni di Boris Johnson); il fallimento, tra gli scandali, di sei tra le maggiori società di critpovalute.

La fuga dai titoli bancari può avere due spiegazioni principali. La prima, “minimalista” e “tranquillizzante” dice che si tratta soltanto di un segnale che gli squali della finanzia speculativa lanciano ai governi e alle banche centrali affinché cessino la stretta sulla liquidità (aumento del costo del denaro) e si decidano a politiche monetarie “accomodanti”. La seconda, “massimalista” e “preoccupante” dice: la febbre che colpisce il mondo della finanza è l’epifenomeno che nasconde lo stato di malattia grave dell’economia capitalistica, che la febbre annuncia quindi il cigno nero, una profonda recessione alle porte, se non globale, certamente dell’Occidente [Vito Lops, Il Sole 24 Ore del 13 marzo]. Del resto le due spiegazioni non sono oppositive bensì complementari, possono cioè essere entrambi vere.

La corrente dei “minimalisti” è ovviamente di gran lunga la prevalente tra gli economisti e gli ideologi neoliberisti (anzitutto europei) ovvero i soli che hanno voce in capitolo, quelli che primeggiano sui media euroatlantisti. Essi se la cavano indicando quattro cause fondamentali dell’attuale crisi: 1) “Il repentino aumento dei tassi d’interesse dopo quasi 15 anni di denaro a costo quasi zero” (Massimo Gaggi), quindi le politiche monetarie restrittive di FED e BCE; 2) gli squilibri nel portafoglio finanziario delle banche fallite (troppe obbligazioni a lunga scadenza in pancia) per cui la loro crisi sarebbe “di liquidità non di insolvenza” (Francesco Giavazzi); 3) la rischiosità intrinseca del modello di business (venture capital) di banche come la Silicon Valley. A queste tre cause tecniche se ne aggiungerebbe una squisitamente politica: “ La crisi sarebbe un effetto della deregulation USA” (Patuanelli), quindi tutta colpa di Donald Trump (Federico Fubini).

Ecco quindi i “minimalisti” nostrani assicurarci che noi europei possiamo dormire sonni tranquilli. Grazie alle regole di Basilea 3 e alla famigerata Unione Bancaria, in virtù dell’attenta vigilanza della BCE, le nostre banche, avendo più di 3mila miliardi di liquidità, assorbiranno facilmente “lo scossone d’oltreatlantico”. “In Italia e in Europa il sistema è stabile” (Giancarlo Giorgetti).

Non ci sono tuttavia solo gli economisti che giustificano il loro ottimismo presumendo di compiere analisi “oggettive”, “imparziali”, “scientifiche” — posto che essi considerano “scientifiche” le analisi che “fanno paralare” i dati empirici. Ci sono anche gli ideologi, l’aristocrazia degli intellettuali combattenti, gli addetti alla difesa della fede (nel capitalismo). Ogni paese ha il suo Sant’uffizio, preposto ad aggiornare la narrazione nonché ad emettere sentenze di scomunica per eresia verso chiunque ne contesti i precetti dogmatici. Ne prendiamo due, tra i più blasonati.

Chi non conosce Federico Rampini? Scrive editoriali e libri a gogò, trova il modo di saltare da una tv all’altra per eseguire sempre lo stesso spartito a tre note: il capitalismo è senza alternative, il capitalismo è bello, il capitalismo è imbattibile. Con stridente squillo di trombetta il nostro, affetto da russofobia acutissima, scriveva sul Corriere della Sera di martedì 7 marzo un editoriale che vale la pena citare: «L’apocalisse della crisi economica era un’allucinazione … Le profezie sulla recessione in arrivo erano tutte sbagliate… Se i danni paventati non si sono verificati, lo dobbiamo a due ingredienti del modello occidentale: l’economia di mercato e la democrazia».

Le ultime parole famose: il 10 marzo, tre giorni dopo, falliva la Silicon Valley Bank producendo il panico nei mercati mondiali.

Un’altra blasonata testa d’uovo risponde al nome del bocconiano turboliberista Francesco Giavazzi. Davanti al fallimento di una banca strettamente legata al settore digitale e ciberbentico, con sicumera, esclude [editoriale del Corriere della Sera del 14 marzo] che esso sia il segnale della fine del dominio incontrastato dell’imperialismo High Thech a stelle e strisce — la regola aurea del capitalismo è infatti “piatto ricco mi ci ficco”, evidentemente nella celeberrima Silicon Valley il piatto piange quindi i capitali fuggono. In ossequio al discorso della distruzione creativa, il nostro pensa di cavarsela rifilando ai poveri lettori il sacro dogma liberista: «La volatilità è una caratteristica dei mercati finanziari … tentare di cancellarne la volatilità significherebbe porsi l’obbiettivo di azzerare il rischio che è un aspetto essenziale dell’innovazione»; per cui Dio ce ne scampi dall’eccesso di regolamentazione pubblica poiché la «volatilità dei mercati finanziari” sarebbe il motore della…innovazione». Quindi la disarmante supercazzola ideologica finale: «Molti vaccini mRNA, che ci hanno salvato dall’epidemia del Covid, sono stati inventati nelle start-up di Boston, non in Cina, dove vaccini efficaci non esistono».

*   *   *

Non vogliamo qui soffermarci sugli specifici fattori sistemici dell’attuale crisi, fattori che, figli della teoria marginalista, gli economisti neoliberisti non possono e non vogliono vedere. Per capire e individuare le grandi crisi non solo sarebbe necessario riscoprire gli insegnamenti degli economisti classici (tra cui Marx) o quantomeno Keynes. Sarebbe doveroso andare oltre, cambiare paradigma, sfuggendo alle semplificazioni economicistiche e riduzionisti fondate sulla divisione piramidale e gerarchica tra  base economica e sovrastruttura statuale e politico-ideologica. Il sistema capitalistico, pur distinguendosi dai sistemi che l’hanno preceduto per la centralità della sfera economica, è un complesso organismo sociale nel quale tutte le diverse sfere sono tra loro correlate da una fitta trama di connessioni per cui, mentre il tutto è superiore ad ogni sua parte, la potenza e la salute del tutto non solo dipende da quelle delle sue parti, dipende dalla loro consonanza, quindi dalla funzionalità delle reti e dei canali di trasmissione delle molteplici sollecitazioni sociali. La forza e la vita stessa del capitalismo dipendono dalla abilità delle classi dominanti di governare la complicata macchina che comandano, dalla intelligenza con cui fan credere alle classi subalterne di agire in nome del tutto e non della (loro) parte, quindi dalla capacità di guidare e assecondare gli incessanti mutamenti dell’organismo sociale.

Certo il crack bancario californiano ha cause peculiari, ma te lo spieghi solo se tieni conto del contesto generale, tenendo conto dell’Operazione Covid-19, del tramonto dell’ordine monopolare a stelle e strisce, dell’avanzata economica della Cina, del contrattacco russo in Ucraina, delle insormontabili difficoltà dell’Unione europea, del declino dell’egemonia del pensiero neoliberista, della straripante avanzata tecnologica, della trasformazione delle democrazie liberali in tecnocrazie. In ultima istanza non ti spieghi più niente, a questo punto della storia, se non nel quadro del Grande Reset e della epocale svolta verso il cybercapitalismo.

5 pensieri su “VERSO UN CROLLO ECONOMICO GENERALE? di M. Pasquinelli”

  1. Giuseppe Trancone dice:

    Tutto condivisibile, però dopo aver giustamente mostrato il ridicolo delle opinioni dominanti, la cosa più importante è relegata nelle due ultime righe senza spiegarle ed approfondirle. In che modo questa crisi è legata al grande reset, in che modo ne è funzionale, o in che modo l’incipiente reset la provoca.

  2. Graziano+PRIOTTO dice:

    Una novità rispetto al passato c’è …
    nel secolo scorso venivano primam le crisi economiche e poi le guerre. Ora abbiamo sì sempre guerre in continuazione da qualche parte, ma la crisi vera e irreversibile segue la guerra attuale, che è sistemica poiché rappresenta lo scontro fra i massimi sistemi USA e Russia (appoggiata idealmente almeno da gran parte del resto del mondo (con gli USA sono rimasti i vassalli europei e pochi altri ).
    Non è un caso che ad es. in Germania sia iniziata ufficialmente la trasformazione industriale in “economia di guerra” e che a questa “Zeitenwende” (cambio epocale come l’ha chiamata il cancelliere senza rendersi conto dell’ironia di cui è vittima lui e la popolazione tedesca), venga gradualmente sacrificato tutto il resto (chiusura ospedali, risparmi su scuola, infrastrutture, scadimento di trasporti pubblici e rete autostradale, ecc. ecc.). Certo non sarà solo la Germania a pagare a caro prezzo la vile sudditanza agli USA, anche se essa sarà certamente il Paese più devastato dal crollo dell’economia e dalla deindustriallizzazione per difetto di energia a prezzi concorrenziali. Tutta l’ UE sarà colpita dal disastro.
    Più in generale si delinea la fine dell’illusione digitale e finanziaria: i settori produttivi reali torneranno ad essere la base dell’economia, ma questo processo lascerà dietro di sè un gran numero di vittime e il debito accumulato in modo dissennato si mangerà i risparmi e il patrimonio di tanti cittadini in tutta Europa. Era prevedibile ? Sì, ma non solo : era anche previsto, a Davos non si raccontavano favole per bambini ma si presentavano i progetti chre ora si stanno realizzando.

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