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CON LA MELONI SI TORNA ALL’EURO-AUSTERITÀ di Leonardo Mazzei

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«Altro che sovranismo! Il governo Meloni, già servile verso la politica guerrafondaia degli U.S.A., ubbidisce supinamente anche alle spietate direttive dell’Unione Europea. Con il “nuovo” Patto di Stabilità (leggi austerità) l’Italia entrerà in recessione: più disoccupazione, più precarizzazione, salari sempre più bassi».

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Detto in lucchese, “si torna ai santi vecchi”. Vi eravate scordati dell’Europa, o meglio dell’Ue, dei suoi eccitanti numerini e dei suoi simpatici tecnocrati? Tranquilli, sono di nuovo tra noi. Dopo tre anni di purgatorio si torna adesso all’inferno dell’austerità. Alla faccia di quelli che… “stavolta l’Europa ha capito la lezione”. Come no, ci mancherebbe!

A nome della Commissione europea, il nuovo “Patto di stabilità”, versione 2023, è stato presentato nei giorni scorsi dal duo Gentiloni-Dombrovskis, una vera garanzia di cambiamento. Nella loro proposta c’è una certezza ed una minaccia. La certezza è che il volto del mostro eurista non cambia, né ha intenzione di farlo, essendo l’austerità nel suo Dna al pari della sua natura antipopolare. La minaccia è che senza un nuovo accordo entro il 2023, dall’inizio del nuovo anno tornerebbe addirittura in vigore il folle meccanismo del Fiscal compact. Un’ipotesi, quest’ultima, che non dispiacerebbe troppo alla Germania.

A Bruxelles, tuttavia, sono criminali ma non folli. Il Fiscal compact non ha mai funzionato davvero, e non ha funzionato per nulla sulla regola della riduzione di un 5% all’anno della quota di debito eccedente il 60% nel rapporto col Pil. Questa norma non ha funzionato per una ragione molto semplice: perché non poteva funzionare. E pensare che nel luglio 2012, tutti intenti a sbavare dietro ai prodigi del Salvatore Monti, i parlamentari italiani votarono con maggioranza bulgara proprio quella norma che poi cominciarono a dire impossibile da applicarsi.

Ora di acqua ne è passata sotto i ponti, e neppure un vicepresidente lettone ed un commissario che ha fatto carriera con Renzi, possono fare finta di non saperlo. Dunque, visto che il vecchio “Patto di stabilità” non è più presentabile, meglio mettere un abito nuovo alla politica di sempre. Gentiloni lo ha candidamente ammesso, dicendo di voler rendere “più credibile il percorso di riduzione del debito”. Insomma, inutile sparare troppo in alto per poi pasticciare di continuo, meglio abbassare le pretese per essere però più intransigenti. Ancora più chiaro è stato Dombrovskis: “Non si potrà fare melina, non si potrà rimandare, gli Stati membri non potranno posporre gli aggiustamenti fiscali ad un secondo momento”.

La nuova forma della vecchia gabbia eurista

Nelle trattative dei prossimi mesi, la proposta della Commissione verrà certamente limata qua e là, ma i nuovi dispositivi della vecchia gabbia eurista sembrano ormai delineati con sufficiente chiarezza. Innanzitutto, resteranno i paletti del 3% per il deficit e quello del 60% per il debito. Ma se la musica è sempre la stessa da Maastricht in poi, come sarà possibile ottenere la riduzione del debito prevista?

Ecco, qui bisogna essere prudenti, perché l’europeese è la lingua più truffaldina del mondo, mentre i meccanismi che escono dagli uffici dell’Ue sono sempre complicati ed immediatamente intelligibili solo alla ristretta cerchia che li partorisce. Su input della Commissione, la stampa insiste sul concetto della titolarità dei singoli Paesi nell’impegno alla riduzione del debito. Dunque, ogni singolo Stato dovrà predisporre dei piani strutturali a medio termine (4 o 7 anni), in cui definire i propri obiettivi di bilancio. Ma se questa sarebbe la “titolarità”, ecco che subito dopo arriva la trattativa (Stato per Stato) con la Commissione, mentre l’approvazione spetterà al Consiglio europeo.

Al di là della complicazione del meccanismo (ma se così non fosse non saremmo in Europa), il fatto è che gli Stati (in realtà i governi del momento) faranno sì i compiti a casa, ma a decidere con la penna rossa in mano saranno sempre i tecnocrati di Bruxelles.

Ma c’è di più. Mentre è chiaro che le negoziazioni più difficili saranno quelle che riguardano i Paesi con il debito più alto (Italia in primis), viene specificato che il punto di partenza per le trattative con questi Stati saranno le cosiddette “traiettorie tecniche” sull’andamento della spesa nel medio periodo (ecco un’altra novità), che la Commissione fornirà gentilmente ai propri interlocutori, o meglio ai propri sottoposti. In pratica la cupola eurista avrà così la prima e l’ultima parola sulle politiche di spesa dei singoli stati. Altro che “titolarità”…

Il modello immaginato (ed esplicitamente richiamato) è non a caso quello del Pnrr, le cui 528 condizionalità illustrano meglio di ogni altra cosa lo stato di soggezione totale a cui siamo giunti.

Da notare poi la durata prevista per i piani nazionali. Ipotizzare un arco temporale di 7 anni significa infatti che ogni governo nazionale sarà in grado di condizionare pesantemente le scelte di quello successivo, rafforzando così la teoria e la pratica del “pilota automatico”, versione draghista del famoso There is no alternative (Tina) della signora Thatcher.

La presa in giro del Pnrr

Ma come si eserciterà la vigilanza europea sui singoli bilanci nazionali? Fermi restando gli inossidabili paletti di Maastricht, viene ora introdotto un nuovo indicatore operativo da mettere sotto la lente d’ingrandimento degli occhiuti controllori della Commissione: la spesa pubblica primaria.

Come verrà contabilizzato questo nuovo indicatore? Contrariamente a quanto lascerebbe suppore il suo nome (eh, l’europeese!), ci finiranno dentro non solo le spese correnti – dunque, ad esempio, quelle per la sanità, la scuola, le pensioni e per l’ordinario funzionamento dell’apparato pubblico -, ma pure quelle relative agli investimenti, compresi quelli del mitico Pnrr!

Ovvio che qui siamo allo scandalo nazionale. Ma come, il salvifico Pnrr è debito al pari delle spese per le macchine blu? Orrore, orrore, triplo orrore da parte dei soliti benpensanti europeisti e dei loro finti ingenui governanti caduti dal pero.

Da parte nostra abbiamo sempre scritto quel che era ovvio, fin dall’ormai lontano luglio 2020: che i fondi del Recovery fund (poi tradotti a livello nazionale nel Pnrr) altro non erano che debito, soldi da restituire al 100% nella parte dei prestiti, e (con una complessa partita di giro) al 90% nella restante parte. Che poi questo grande regalo europeo sia stato perfino condito da 528 (cinquecentoventotto) condizioni da rispettare è la più grande beffa del secolo.

Lo Stato italiano avrebbe potuto benissimo finanziare un piano della stessa entità senza dover rispondere ad alcun vincolo esterno, ma solo in base alle esigenze primarie del Paese. Certo, il debito sarebbe aumentato, ma aumenterà allo stesso modo anche così. La differenza è che nel primo caso avremmo avuto un governo sovrano, nel secondo (quello che si è realizzato) abbiamo invece la subordinazione assoluta e l’umiliazione di ritrovarsi becchi e bastonati.

Ma siccome ancora non bastava, ecco che arriva la randellata del nuovo “Patto di stabilità”: gli investimenti del Pnrr andranno contabilizzati al 100% nella spesa pubblica, e così pure i 30 miliardi aggiunti col “Fondo complementare” deciso dal governo Draghi.

Sul punto protesta Giorgetti – “avevamo chiesto di escludere le spese del Pnrr” –, ma pure l’ineffabile Crosetto che si lamenta di dover contabilizzare anche il costo delle armi gentilmente trasferite ai nazistoidi di Kiev. Ma chi l’avrebbe mai detto che anche quel costo andasse ad incrementare il debito!?

Costoro vorrebbero la quadratura del cerchio, ma che ciò sia impossibile viene così sintetizzato dal solitamente ben informato Federico Fubini:

«In base ad esse (le nuove norme – ndr) la spesa pubblica potrà crescere percentualmente negli anni a venire, in sostanza, meno di quanto sia cresciuta l’intera economia negli anni passati; e poiché l’Italia quasi non è cresciuta nell’ultimo decennio la spesa dovrebbe restare molto compressa e servirebbero tagli su altre voci se si volessero fare investimenti». (sottolineatura nostra)

Da qui le ammissioni di Giorgetti, secondo cui:

«Il nuovo Patto di stabilità impone una rigorosa revisione della spesa, di tutta la spesa pubblica, compresi gli investimenti del Pnrr».

Insomma, il Pnrr non è più sacro ed alcuni investimenti potranno essere tagliati. Oppure, se si vorranno mantenere, bisognerà tagliare altre spese. Ed è inutile che vi dica quali…

I tagli per l’Italia

Ma qual è l’entità dei tagli previsti? Ovviamente le fonti ufficiali non ce lo dicono. Prima bisogna arrivare all’accordo, poi alla definizione delle “traiettorie tecniche” per ciascun Paese. Ma pensate, forse, che certi calcoli non siano già stati fatti?

Nella capitale belga le voci già circolano, ed hanno il crisma della semi-ufficialità, spesso più credibile (perché anonima) dell’ufficialità stessa. E per l’Italia, che tra i Paesi da colpire è ovviamente il primo della lista, il taglio annuo dovrebbe essere pari allo 0,85% del Pil, in soldoni 16 miliardi all’anno da tagliare su pensioni, sanità, scuola, investimenti, eccetera.

Attenzione! Anzi, duplice attenzione!

In primo luogo, questo taglio – una specie di Fiscal Compact in versione ridotta nella forma, ma più ferreo ed efficace nella sostanza – viene a valle della stabilità dei conti di cui abbiamo parlato finora a proposito della contabilizzazione dei debiti nella spesa primaria. I 16 miliardi previsti sono in realtà un di più con il quale l’Italia, andando ben oltre la stabilità dei conti, dovrebbe abbattere il debito complessivo esattamente per quell’importo, sempre in vista dell’obiettivo di un rapporto debito/Pil al 60%.

In secondo luogo, per sua natura questo taglio non potrà essere una tantum. Esso sarà invece annualizzato, mettendo così nelle mani della Commissione europea, uno strumento micidiale per scrivere da remoto le regole austeritarie da imporre anno dopo anno nella Legge di Bilancio del nostro Paese.

Gli effetti e gli scopi della nuova mazzata

Quale sarà l’effetto di questo “ritorno dell’Europa” è facile a capirsi. Specie per l’Italia la nuova stagione di sacrifici che si annuncia significherà come minimo il proseguimento di una stagnazione (con picchi recessivi) ormai in corso da un quindicennio.

Sosteniamo da anni che l’Unione europea è semplicemente irriformabile. Nata per costruire l’Eden liberista, sviluppatasi in concreto in base ai dogmi della visione ordoliberista cara al blocco germano-centrico, essa non può cambiare senza perire. Da qui la sua acclarata irriformabilità, della quale la proposta del nuovo “Patto” è la dimostrazione più lampante.

A Bruxelles dicono che le emergenze – dal Covid alla guerra – sono ormai alle nostre spalle, che bisogna appunto “tornare ai santi vecchi”. Ora, che la guerra sia alle nostre spalle ci pare quantomeno azzardato ma, dopo essersi integrati totalmente nel blocco guerrafondaio Usa-Nato, è così che ragionano da quelle parti.

Al di là dello scarso realismo della premessa di cui sopra, da questa impostazione emergono chiaramente tre scopi. In primo luogo, l’obiettivo fondamentale dell’Ue è quello di tenere i salari bassi. E se questo richiede una nuova recessione, che ben venga, che a lorsignori va bene così. In secondo luogo, l’Italia va ulteriormente impoverita al fine (scopo numero tre) di depredarla meglio delle sue ricchezze.

Il governo Meloni perfettamente allineato con la cupola eurista

Fin qui l’evidente disegno dell’oligarchia eurista. Ma in Italia questa linea è già stata fatta propria dal governo Meloni. Altro che sovranismo! Fin dal suo insediamento, con l’attacco forsennato al Reddito di cittadinanza, si è capito subito quale fosse l’obiettivo centrale dell’attuale governo. La pesante riduzione del salario reale, peraltro apertamente rivendicata dall’esecutivo nel Def (Documento di economia e finanza) come grande merito della sua azione, viene ora rilanciata con le nuove norme tese a favorire ed allargare l’area del lavoro precario.

Dall’estensione dei voucher e dell’apprendistato, alla facilitazione delle proroghe dei contratti a termine, tutto va in quella direzione. Che queste misure siano state varate proprio il Primo Maggio, in assoluto spregio del significato storico di questa giornata, è la ciliegina sulla velenosa torta confezionata dal gruppo di reazionari che si riunisce a Palazzo Chigi.

Ma c’è dell’altro. Senza neppure attendere il nuovo “Patto di stabilità”, il Def appena varato incorpora già la linea austeritaria richiesta dall’Ue. Basti pensare che nel quadro programmatico di finanza pubblica è previsto un rovesciamento del saldo primario, cioè dei conti pubblici al netto degli interessi sul debito, che dovrebbe passare dal -3,6% del 2022 al +2,0% previsto per il 2026. Tradotto in euri questo significherebbe, a regime, la sottrazione di 100 miliardi all’anno all’economia italiana! E’ necessario aggiungere altro sulla politica antipopolare, recessiva ed asservita ai diktat euristi del governo Meloni?

Brevi conclusioni

Da quanto fin qui scritto emergono almeno tre cose.

La prima è che è necessario cominciare a far emergere una nuova opposizione che sia tutt’altra cosa rispetto a quella finta esistente in parlamento. Fra l’altro, neanche a dirlo, sui rapporti con l’Ue maggioranza e finta opposizione parlamentare fanno a gara a chi è più servile. Ed è davvero una gran bella gara…

La seconda è che non può esservi opposizione credibile all’attuale governo, senza una radicale contestazione dell’Unione europea e del sistema dell’euro. La nuova opposizione dovrà dunque schierarsi in maniera radicale e decisa per l’uscita dell’Italia dalla gabbia europea.

La terza questione rimanda al grande assente del momento: il conflitto sociale. Se oggi la passività domina, non è pensabile che ciò possa durare all’infinito. Ma solo un’opposizione con le caratteristiche di cui sopra potrà candidarsi ad incontrare proficuamente quelli che saranno i protagonisti di una nuova stagione di lotte.

Insieme alla battaglia per tirare fuori l’Italia dalla guerra Usa-Nato, prepariamoci allora ad una nuova fase di lotta contro l’Unione europea e i suoi vincoli criminali. E’ su questi due fronti, peraltro collegati tra loro, che si gioca oggi il futuro del nostro Paese!

3 pensieri su “CON LA MELONI SI TORNA ALL’EURO-AUSTERITÀ di Leonardo Mazzei”

  1. lorenzo dice:

    Cosa c’era da aspettarsi da un politico che votò il pareggio di bilancio durante il governo Monti? In Italia si continua con la politica dell’alternanza, ma occorrono scelte radicali,sull’esempio della Brexit.

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