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DEL MARTIRIO PER LA GIUSTIZIA di David Monticelli*

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Riflessioni sullo sciopero della fame come strumento di lotta politica

Il 5 maggio 1981 nei famigerati H blocks (Blocchi H) del carcere di Maze a Long Kesh, moriva dopo 66 giorni di sciopero della fame Bobby Sands, il primo dei 10 hunger strikers che portarono fino alle estreme conseguenze la loro protesta contro il regime carcerario inglese a cui erano sottoposti i prigionieri politici indipendentisti dell’Irlanda del Nord.

Quasi 42 anni dopo, il 2 maggio 2023 (in un altro infausto anniversario, quello della strage di Odessa del 2 maggio 2014) nella prigione israeliana di Rasle muore Khader Adnan Mohammad Musa, prigioniero politico palestinese anche lui in sciopero della fame da 87 giorni contro il regime carcerario della “detenzione amministrativa”, cioè un imprigionamento arbitrario senza accusa né processo, la cui durata può essere rinnovata all’infinito: quindi di fatto un’inaccettabile violazione dei diritti umani e del Diritto in generale.

Un filo diretto lega questi due tragici episodi, al di là della quasi coincidenza delle due date di morte: è la forma di lotta politica dello sciopero della fame.

Ghandi la annoverava tra i principali strumenti della non-violenza, mentre in Irlanda essa risale addirittura alla tradizione celtica in cui veniva usata come strumento di risoluzione delle controversie. Con il Troscad (digiunare per o contro una persona) o Cealachan (ottenere giustizia attraverso il lasciarsi morire di fame) se una persona pensava di aver subito un torto da qualcuno, si metteva davanti a casa di quest’ultimo ed iniziava uno sciopero della fame fino a quando l’altro non avesse riparato il torto. Era tuttavia facoltà dell’altro iniziare un contro-sciopero della fame: chi dei due avesse resistito più a lungo “evidentemente” era dalla parte della verità e dunque vinceva la disputa.

Proprio a motivo di queste radici culturali antichissime, il lungo cammino per l’indipendenza dell’Irlanda dall’occupazione inglese annovera hunger strikers in tutte le diverse stagioni di lotta politica succedutesi, anche se per il numero dei partecipanti e le conseguenze storiche lo sciopero del 1981 è quello tragicamente più famoso. Sono in molti infatti ad essere convinti che il raggiungimento degli accordi di pace del Venerdì Santo siglati a Belfast il 10 aprile 1998 furono resi possibili soprattutto dal sacrificio di Bobby Sands e degli altri hunger strikers più che dai quasi 30 anni di troubles, cioè il periodo di guerra civile informale in Irlanda del Nord tra repubblicani da una parte e unionisti ed esercito inglese dall’altra.

La rabbia dei repubblicani cattolici per i continui e storici soprusi subiti da parte degli inglesi e dai protestanti leali alla corona britannica, si era riaccesa in maniera latente alla fine degli anni Sessanta ed esplose in pieno dopo la strage della Domenica di Sangue (Bloody Sunday) perpetrata dai paracadutisti inglesi il 30 gennaio 1972 contro cittadini pacifici e disarmati che sfilavano a Derry in una manifestazione organizzata dal NICRA (Northern Ireland Civil Right Association). L’esercito inglese uccise 14 manifestanti e ne ferì molti altri: il tutto fu documentato dal giornalista italiano Fulvio Grimaldi, presente quel giorno a quei tragici eventi, che poté così smentire la falsa versione ufficiale ordita dagli inglesi. L’IRA e altre formazioni paramilitari irlandesi che rappresentavano il braccio armato delle rivendicazioni repubblicane, videro ingrossare le loro fila proprio a seguito di questo evento, ovviamente pianificato ed attuato dagli inglesi proprio per provocare un escalation del conflitto.

L’acutizzarsi dello scontro portò nel 1976 alla cosiddetta criminalization, cioè il disconoscimento da parte del governo britannico dello status di prigionieri politici ai combattenti repubblicani. Ne seguì una lunga stagione di lotte all’interno delle carceri inglesi e soprattutto a Long Kesh, costruita appositamente proprio nel 1976 sul sito di un vecchio campo di aviazione della RAF per reprimere brutalmente il dissenso degli indipendentisti.

Essere trattati come criminali comuni prevedeva una serie di regole, tra cui indossare la divisa carceraria, (cosa invece non prevista per i prigionieri politici) che fece reagire i prigionieri irlandesi con una serie di proteste estremamente dure dal forte carattere simbolico. La prima fu la blanket protest (la protesta delle coperte): essi si rifiutavano di indossare la divisa carceraria e quindi si vestivano con le sole coperte messe a loro disposizione nelle celle. Poi fu la volta della dirty protest, (la protesta della sporcizia) in risposta alla brutalità dei secondini che picchiavano i detenuti quando andavano in bagno: i prigionieri decisero di non lavarsi e di cospargere i propri escrementi sui muri delle loro celle che si ridussero in breve tempo in uno stato terribile (come non è difficile immaginare).

Nel frattempo, nel 1979 Margaret Thatcher era diventata il nuovo primo ministro inglese e l’intransigente arroganza della sua politica sociale ed economica riassunta nell’infausta frase da lei pronunciata “There is no alternative” (“Non c’è alternativa”, passata alla storia con il suo acronimo T.I.N.A.) non poteva che incendiare ancora di più il già infuocato conflitto in atto dentro e fuori le carceri nordirlandesi.

Così nel 1980 i detenuti repubblicani decisero di passare allo sciopero della fame per vedere riconosciuto il loro status di prigionieri politici. Il Primo Sciopero si risolse con delle generiche rassicurazioni sull’accoglimento delle richieste degli scioperanti da parte delle autorità inglesi che però tradirono gli impegni presi, cosicché il 1° marzo 1981 prese via il Secondo Sciopero della fame. Esso seguiva una tabella di marcia ferrea: al primo scioperante si sarebbero dovuti aggiungere il secondo, il terzo e così via con una cadenza di 15 giorni di distanza l’uno dall’altro. In questo modo, generando un effetto cumulativo, la protesta avrebbe creato sempre più pressione sul governo inglese. Ma l’irremovibilità della Thatcher portò lo sciopero al suo tragico esito finale: la morte dei 10 hunger strikers di cui riportiamo di seguito una tabella coi loro nomi e i loro volti.

Se oggi il campo di battaglia della guerra che vede contrapposti oppressi ed oppressori è sempre più la mente stessa degli oppressi, obiettivo dei continui tentativi del Potere di impossessarsene e colonizzarla (attraverso la cosiddetta “fabbrica del consenso”) allo scopo di impedire sul nascere qualsiasi pensiero critico dissenziente dal pensiero unico dominante, (figurarsi poi sviluppare un’autocoscienza politica dell’oppresso), al contrario il campo di battaglia di questi combattenti estremamente coscienti e consapevoli è stato il corpo: il loro corpo.

Come descrive con una potente crudezza documentaristica il film del 2008 Hunger del regista Steve Mc Queen, (di cui si consiglia la visione), l’incrollabile determinazione e lo spirito di sacrificio di questi prigionieri vinsero sulla violenza e l’efferatezza delle guardie carcerarie, e più in generale sul sistema oppressivo e repressivo degli occupanti britannici. Alle ferite delle torture inflitte dagli aguzzini, seguirono le ferite e le piaghe autoinflitte con lo sciopero della fame, “evidenze carnali” di uno spirito indomito che ha dimostrato di non poter essere piegato, né sconfitto.

Riflettendo sul significato e le conseguenze profonde di queste vicende, (quando esse hanno esiti mortali), emerge a ben pensarci tutta la fragilità e l’impotenza del Potere: esso infatti crolla rovinosamente al cospetto dello spirito di libertà e giustizia dei suoi oppositori. Questo avviene proprio nel momento in cui il Potere, ebbro di se stesso, si illude di poter imporre la propria autorità arroccandosi nella sua intransigenza autolegittimante, illudendosi di poter imprigionare, bloccare, controllare e di fatto possedere i corpi di coloro che – avendo invece deciso di intraprendere la forma estrema di lotta costituita dallo sciopero della fame e dunque usando quei loro stessi corpi come strumenti di lotta – li hanno proiettati oltre il Potere stesso, sconfiggendolo.

E a proposito della determinazione e coerenza degli hunger strikers del 1981, giova ricordare che le volontà rilasciate ai loro familiari prima di morire furono quelle di non acconsentire ad una eventuale alimentazione forzata da parte del regime carcerario, qualora fossero andati in coma.

Nelle manifestazioni di commemorazione degli scioperanti del 1981 svoltesi negli anni a venire, spesso apparivano cartelli con la foto di Margaret Thatcher e la scritta “Wanted for murder” (“Ricercata per omicidio”). Da parte nostra ci sentiamo di giudicare molto più grave e vigliacco il comportamento del suo governo in quella circostanza, che non un qualsiasi altro atto di violenza diretta da lei ordinato che abbia provocato l’uccisione di qualcuno in qualche altra circostanza.

E a proposito di vigliaccheria, ricollegandoci ai giorni nostri, anche lo sciopero della fame di Khader Adnan Mohammad Musa è un fortissimo atto di accusa alla criminale vigliaccheria degli occupanti israeliani nei confronti dei palestinesi. Essa è sotto gli occhi di tutti da 75 anni. Khader Adnan per la Palestina, come Booby Sands per l’occupazione dell’Ulster, l’hanno affrontata e smascherata. Non a caso la solidarietà tra il popolo palestinese e quello irlandese è reciproca ed è ben rappresentata dai murales che appaiono sia in Irlanda del Nord, sia in Palestina.

Non ci sentiamo comunque, in conclusione, di consegnare al lettore una smaccata apologia dell’eroismo (indubbio) di questi combattenti per la libertà, né di sottolineare un’ammirazione (che pure c’è ed è immensa) per loro: rischieremmo di passare per fanatici, come qualcuno avrà forse considerato anche loro e le loro scelte.

Tutti noi stiamo del resto combattendo a modo nostro contro antiche e nuove oppressioni nel difficilissimo periodo storico che stiamo vivendo: la distanza siderale tra le nostre forme di lotta e quelle estreme in cui hanno perso la vita Khader Adnan, Bobby Sands e gli altri hunger strikers, non ci mette forse neanche nella posizione morale di poter parlare così apertamente di loro. Una sorta di pudore e di riconoscimento di entrambe le forme di lotta ce lo impone. Perciò, nel loro ricordo commosso oltre che nel rispetto del dolore delle loro famiglie, ci sembra più opportuno invitare ad un silenzio introspettivo meditando sul rapporto tra le nostre vite, il nostro presente e questi esempi così luminosi.

* Membro del Direttivo Nazionale del Fronte del Dissenso

Un pensiero su “DEL MARTIRIO PER LA GIUSTIZIA di David Monticelli*”

  1. Anna Maria Rita Daina dice:

    Magnifico articolo, anche per l’efficace equilibrio fra tono e profondità.

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