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CONTROFFENSIVA, A CHE PUNTO SIAMO? di Filippo Dellepiane

A circa due mesi dall’inizio della tanto sbandierata controffensiva vale la pena fare un primo resoconto di cosa sta succedendo tenendo conto di alcuni fattori; di seguito:

-il tempo è dalla parte dei russi, nel momento in cui arriverà la rasputiza il fronte tenderà a fermarsi completamente. Ad oggi, ultimo giorno dell’estate dal punto di vista meteorologico, non ci sono piogge ancora in vista. Inoltre, sono gli ucraini che devono dimostrare agli alleati occidentali dei risultati;

-il fattore uomini pesa sempre di più per l’attaccante (gli Ucraini), visto anche l’incredibile squilibrio che c’è nella demografia dei due paesi;

-l’Ucraina mente sempre più spesso ed in modo sistematico rispetto a quanto fanno i russi ma, in ogni caso, la nebbia di guerra è fittissima da entrambe le parti;

-gli obiettivi iniziali della controffensiva (presa di Tokmak, Melitopol, l’isolamento della Crimea) con ogni probabilità non saranno raggiunti, né lo sono mai stati, stante anche le dichiarazioni americane e britanniche a riguardo.

-il fatto che gli ucraini portino la guerra in Russia (droni, attacchi terroristici) segnala sì alcune falle nella difesa del paese ma è un segnale di difficoltà sul campo per gli Ucraini.

– più di questo, con questo grado di coinvolgimento nella guerra, l’Occidente non può fare.

-questo tipo di attacchi “alle retrovie russe” espone la popolazione ucraina a forme di “retaliation”.

Analizziamo, dopo questa piccola premessa, il fronte più caldo vale a dire quello di Rabotyne: piccola località nell’oblast di Zaporizhzhya dove da settimane russi ed ucraini se le danno di santa ragione. Chi un giorno dichiara di aver preso la località, chi dice di averla ripresa il giorno successivo. Al momento i russi pare abbiano ripiegato dalla città, ormai ridotta ad un cumulo di macerie. Gli ucraini, trovandosi di fronte campi minati, bunker, trappole, trincee hanno inizialmente provato ad andare in profondità seguendo questo tipo di direttrice (freccetta gialla)

Penetrare, quindi, in profondità ed avviarsi sulla strada che conduce poi a Tokmak. Il problema è che lì passa la linea Surovikin e vi sono, inoltre, altre numerose piccole linee difensive in tutti i 20 km da Rabotyne a Tokmak, rendendo probabilmente la “scampagnata” un inferno. Gli ucraini hanno deciso, quindi, di provare un’altra strada vale a dire quella di Verbove (linea rossa). E qui il mezzo patatrac, certo ancora locale, per i russi, i quali hanno dovuto constatare che la prima linea difensiva qui da parte degli ucraini è stata sorpassata. Non sappiamo ancora in che entità, si parla fossero soltanto ricognizioni di Kiev e che quindi alcuni soldati si siano soltanto, momentaneamente, trovati oltre la prima linea russa. Che cosa comporta questo? Anzitutto ci fa capire l’intenzione ucraina, vale a dire aprire la testa di ponte. Essendo le truppe da entrambe le parti in numero equivalente chi attacca ha più difficoltà e deve, se ha reparti corazzati, necessariamente ampliare il fronte su cui lavora per poter sfruttare tutta la sua potenza di fuoco. Nell’ottica di aumentare la superficie di attacco vale la pena notare che gli ucraini, dopo alcuni tentativi, hanno evitato totalmente la strada di Novoprokopivka (SOTTO RABOTYNE, LA FRECCIA ROSSA) a causa di una lieve spalla (una collinetta fra 100/150 mt) da cui i Russi sono veramente difficili da scalzare. Ecco il rilievo altimetrico della zona:

Zona rimasta finora silente è Kopani, ad ovest, dove gli ucraini hanno ormai abbandonato ogni tipo di azione offensiva.

PERCHE’ LA SITUAZIONE DI VERBOVE PUO’ PROVOCARE PROBLEMI AI RUSSI?

Rappresenta il ventre molle del sistema di difesa russo, d’altronde la guerra d’attrito è anche questo. Provare e riprovare fino a che non si trovi un punto.

CASO PEGGIORE: Gli ucraini prendono Verbove, dopodiché NON PRENDONO la strada di Tokmak bensì iniziano a minacciare le linee logistiche russe che portano viveri, armi e soldati stessi alla zona di Cherson e alla Crimea. Il rischio è che il corridoio risulti troppo dispendioso a livello umano e di energie e che i russi si trovino in enorme difficoltà e possano sì, a quel punto, abbandonare Tokmak. È il caso peggiore, ce ne sono molte di sfumature, ma non è da escludere.

CASO MIGLIORE: L’evento è da ridimensionare; certo i russi sono in difficoltà ma l’arrivo di due reggimenti (1 reggimento= 1500/3000 uomini) della VDV della 76esima russa (truppe di élite) riescono a frenare l’altro schieramento di élite ucraino, l’82esima brigata ucraina che ha trovato la strada per Verbove. Visto come è stato lungo il conflitto per Rabotyne potremmo aspettarci qualcosa di similare per questa città.

l’imbucata che la 82esima brigata ucraina avrebbe fatto (in rosso la prima linea difensiva russa)

ELEMENTI OGGETTIVI IN QUESTI CASI:

  • essendo una guerra di attrito, come un braccio di ferro, chi crolla spesso crolla di colpo. I russi NON sono crollati e stanno tamponando, hanno anche altre truppe della riserva strategica da poter inviare (fucilieri di marina, per esempio, che sono affluiti nella zona di Tokmak ).
  • Pare il numero di morti e feriti a livello ucraino sia 3 volte superiore a quello russo in alcuni casi (video in cui i russi cercano di convincere gli ucraini ad arrendersi e a non morire invano: https://twitter.com/narrative_hole/status/1696213382943150182?s=08)
  • le condizioni della truppa, a giudicare da video e testimonianze, è veramente difficile anche fra i più esperti da entrambe le parti. Si segnala, per esempio, come l’utilizzo dei droni da parte dei russi non si limiti solo ai corazzati ma anche alla fanteria (sintomo che la produzione russa è molto aumentata, probabilmente con un aiuto, camuffato molto bene, da parte dei cinesi) e non c’è motivo per escludere che gli ucraini non facciano lo stesso. C’è in generale moltissima stanchezza.
  • è ancora presto per dire cosa succederà, il crollo di uno dei due avverrà fra settembre ed ottobre. Per il sottoscritto è il momento deciso della guerra. Se i russi terranno, e ci sono motivi di credere che sia assolutamente nelle loro possibilità, avranno tutto il tempo per passare nuovamente all’offensiva dopo una fase di stallo. La partita si gioca qua.
  • gli Ucraini hanno molta più difficoltà nell’andare avanti con la mobilitazione, a detta del ministro della salute Per questo Zelensky sta minacciando misure draconiane per chi nasconde imboscati o gente che, grazie a contatti, scappa ed evita di andare al fronte.
  • l’età al fronte, dalla parte ucraina, si sta alzando vertiginosamente e non è mai un buon segnale. Il massimo che si può mobilitare è solitamente il 5% della popolazione (la Wehrmacht fra il 1944/45 raggiunse il picco più alto per quanto riguarda la percentuale di popolazione reclutata).
  • con ogni probabilità vincerà chi ha più riserve. Non possiamo contare in questo le voci di una potenziale mobilitazione russa perché dalla mobilitazione allo schieramento delle truppe devono passare necessariamente molti mesi.

SU CHI PUNTARE DUNQUE? Nessuno può saperlo, la situazione è talmente in rapido cambiamento che è difficile fare ogni tipo di previsione. L’unica cosa è che ogni giorno che passa è un giorno più favorevole ai russi ed al congelamento del conflitto con l’arrivo dell’autunno. Questa sarebbe anzitutto una sconfitta mediatica ucraina, di fatto già avvenuta, e chiaramente dalle ripercussioni militari importanti.

Tutto passa da questa parte del fronte. I russi, per poter tamponare le perdite, hanno spostato da nord alcune truppe ed hanno dovuto così rallentare le offensive in zona Kreminna e nella zona del fiume Oskil.

Certo, ci sono voci di raggruppamenti di ingenti forze russe per una potenziale offensiva (si parla circa di un totale di 100000 uomini) ma per ora non sono altro che pettegolezzi, confermati da qualche immagine e comunicato che però non possono prescindere dall’analisi della situazione nel settore Rabotyne-Verbove.

Il resto del fronte si muove, certo, ma si muove a livelli ed intensità diverse (Urozhaine, Bakhmut…) che non valgono la pena sottolineare in questa fase rientrando in un gioco di avanzate e ritirate continue che, sostanzialmente, si bilanciano.

Le ricadute politiche di cosa accadrà sono moltissime, diversificate per ogni possibile scenario. Sicuramente, e qui concludo davvero, l’apertura di Zelensky ad una soluzione politica sulla Crimea ci fa capire che un bagno di realtà a Kiev se lo sono fatto.




IL LATO TOSSICO DELLA TECNOLOGIA di Francesco Centineo

Elettrosmog e technostress sono problemi grossi, enormi, sottaciuti e poco vagliati perchè in fondo, alle persone, poco interessano, troppi sono i vantaggi dovuti al progresso tecnologico per il cittadino medio.
Le lobby e gli interessi economici dell’industria e quella dei governi nell’implementare la sorveglianza digitale panottica fanno il resto e la quarta rivoluzione industriale procede; così come procede senza freni l’installazione di potenti antenne e si avanza nella connessione digitale perpetua di tutto l’ambiente circostante.
Nel mentre, oltre ai ripetitori, le antenne e tutti gli oggetti elettrici che circondano ed infestano le nostre vite, i cittadini-consumatori vivono sempre perennemente immersi nel campo elettromagnetico del proprio cellulare e degli smart objects di cui si circondano nei loro appartamenti, intossicando le proprie esistenze in maniera preoccupante.
Nel 2016 Gabriella Zevi nel saggio I Pericoli Della Tecnologia Invisibile denunciava che “La sindrome di elettrosensibilità e allergia ai campi elettromagnetici interessa decine di milioni di persone in tutto il mondo di cui 2 milioni solo in Italia e 300.00 in Lombardia. Queste persone devono assolutamente evitare i luoghi dove sono in stallate antenne e ripetitori e non possono usare cellulari e computer”.
Tale sindrome si manifesta con sintomi quali “cefalea, dolori, fischi nelle orecchie, calo della vista, debolezza, insonnia fino a sbalzi di pressione, aborti spontanei, aritmie cardiache e dermatiti che si manifestano ad ogni uso di un cellulare o di un elettrodomestico.
Noi ci soffermeremo e concentreremo in particolare sul ruolo delle “information technology”, in quanto smartphone e tablet rappresentano evidentemente quegli strumenti da cui le persone tendono ad essere totalmente “dipendenti” ed essendo utilizzati in maniera costante sono vettori potentissimi di technostress ed elettrosmog.
Partiamo da un fatto: “Nelle scuole della Sylicon Valley, frequentata dai grandi dell’informatica mondiale, è escluso l’uso dei computer” eppure le nostre istituzioni vorrebbero trasformare le nostre scuole in dei “laboratori informatici” iperconnessi e  già alcuni istituti di medie superiore costringono i genitori a comprare un telefonino cosicchè i figli  ricevano i compiti da fare a casa via email; i diari non vanno più bene, non sono alla moda!
Mentre in Italia si prosegue su questa china indegna, francesi e belgi da quasi un decennio hanno vietato l’uso di cellulari ai bambini fino ai 6 anni e fino a 12 hanno reso obbligatorio l’uso dell’auricolare.
Gabriella Zevi scrive che “ L’Agenzia Europea per l’Ambiente ha dichiarato, il 24 gennaio del 2013, che l’uso del cellulare compromette la formazione regolare del cervello dei bambini e la Corte di Cassazione con sentenza del 03.12.2012 n. 17438, ha riconosciuto il rapporto di causa effetto tra l’uso del cellulare e il tumore al cervello” una sentenza che dovrebbe far riflettere tanti genitori.
Inoltre siccome è di moda per i genitori odierni regalare al tablet il ruolo di babysitter dei propri infanti, sappiate che “I ricercatori dell’Università dello Utah hanno scoperto che il cervello di un bambino di 5 anni assorbe una quantità di radiazioni quattro volte maggiore rispetto al cervello di un adulto; la sua barriera emato-encefalica è assolutamente permeabile alle radiazioni, che distruggono cellule neurali che nella vecchiaia potrebbero compensare la morte dei neuroni causata da malattie degenerative come l’Alzahaimer”.
Infatti l’abuso di tali tecnologie favorisce l’insorgere precoce della de-menza come documenta ampiamente il neuroscienziato Manfred Spitzer nel saggio Demenza Digitale edito da Corbaccio che a pag,. 46  scrive “la malattia di Alzhaimer – la causa più frequente di demenza – interessa dapprima solo una piccola porzione del cervello e solamente in un secondo momento si diffonde in tutto l’encefalo. È quindi facile immaginare (ed è stato dimostrato scientificamente)  che il decadimento neuronale cominci molto prima dei sintomi soggettivi e oggettivi della malattia. In questi casi si parla anche della “riserva cognitiva” – quella riserva cognitiva che l’abuso da tecnologia squaglia e dissolve  in quanto il livello di questa “ riserva cognitiva” dipende da “quanto il cervello era formato prima dell’inizio del declino”,  e declino che l’uso di smartphone, tablet e qualsiasi tecnologia a schermo alimentano, impedendo una corretta formazione del cervello stesso.
Oltre ai grossi danni alla salute fisica e cerebrale, anche i danni psicologico-psichiatrici sono notevoli. Pensate che in Asia il problema delle dipendenze è così grave da aver indotto sia la totalitaria Cina che la democratica Corea del Sud ad istituire “campi organizzati in modo paramilitare per il recupero di giovani affetti da dipendenza da computer, internet e smartphone”.
Gabriella Zevi nel summenzionato saggio a pag. 20 riporta che “Nella città di Roma  il policlinico Gemelli ha costituito un ambulatorio per drogati del web e lo psichiatra Federico Tonioni non usa mezzi termini per descrivere il trauma di bambini e ragazzi incapaci di esprimere la loro fisicità, la loro giovinezza, la capacità di creare relazioni sociali”  e sempre la Zevi a proposito dei campi di rieducazione cinese scrive che “L’Espresso del 4 ottobre 2014 ha raccontato che in Cina i ragazzi computer-dipendenti sono curati con internamento e allenamenti di tipo militare; sono i genitori disperati a far internare i propri figli che non riescono più a staccarsi dal computer” e si è scoperto che “i ragazzi che giungono al centro presentaNO una depressione profonda, il 58% aggredisce i genitori, la maggior parte non è in grado di mantenere rapporti di amicizia fuori dal cyber spazio […] ultimamente hanno cominciato a macchiarsi di crimini violenti come avviene abitualmente negli Stati Uniti”.
I danni ed i problemi causati dall’abuso delle smart technology, dalla diffusione di oggetti elettrici ed intelligenti, la propagazione di onde energetiche capillare di antenne e ripetitori, e la mania di interconnettere tutti gli spazi possibili ed immaginabili sottopongono l’essere umano ed anche tutti gli altri esseri viventi ad una esposizione micidiale all’elettrosmog, un inquinamento terribile e poco considerato che porta con sè effetti devastanti sulle nostre esistenze.



IL MISTERO DI MARIO TRONTI di Carlo Formenti*

Volentieri pubblichiamo questa densa e brillante riflessione di Formenti sul pensiero dell’appena scomparso Mario Tronti. Nel messaggio con cui Formenti ce lo segnala leggiamo: «rendo omaggio a quello che considero il reale contributo di Tronti al pensiero anticapitalista contemporaneo (contributo che prescinde a mio avviso da certe sue quasi inspiegabili scelte politiche)». Già… Per questo ci siamo permessi cambiare il titolo — Che cosa ho imparato da Mario Tronti è quello originale.

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Questo non è un necrologio. Odio questo genere letterario perché, avendo a lungo lavorato nella redazione cultura di un grande quotidiano, lo associo a quelli che in gergo giornalistico si definiscono “coccodrilli”, vale dire gli articoli “precotti” che ogni redazione conserva nel proprio data base, in attesa di sfoderarli per celebrare la morte di questo o quel personaggio famoso. Sono scritti che raramente si sottraggono alla retorica, all’abuso di luoghi comuni e al mix di distacco e artificialità che caratterizza un testo costruito “a tavolino”, privo cioè delle emozioni suscitate dall’evento reale della morte. Quello che segue è invece il tributo che sento di dovere al pensiero di un autore che ha contribuito non poco a indirizzare il mio lavoro teorico recente. Un tributo che non ha pretese di “oggettività” accademica, nella misura in cui ricostruisce il pensiero di Tronti enucleandone gli aspetti che più si avvicinano al mio punto di vista sul mondo attuale, mentre trascura quelli che sento meno affini. 

  1. Operai e capitale. Ovvero la difficoltà di sbarazzarsi di una eredità ingombrante

La biografia teorica e politica di Tronti è caratterizzata da un paradosso: benché l’avesse “rinnegata” non molti anni dopo averla scritta, Operai e capitale (1) è rimasta la sua opera di gran lunga più conosciuta, e ha continuato a esercitare una profonda influenza anche dopo che l’autore ne aveva preso le distanze, segnando il punto di vista che intere generazioni di militanti hanno avuto, e hanno tuttora, in merito alle chance di superare il modo di produzione capitalistico. Dato che non mi interessa fare storia della teoria marxista degli anni Sessanta in Italia, mi limito qui di seguito a richiamare sinteticamente quelle che considero le tesi fondamentali contenute nel libro in questione: 1) le lotte operaie sono il motore dello sviluppo capitalistico e ne determinano in misura sostanziale i tempi e le modalità; 2) il cosiddetto “operaio massa”, vale a dire la figura che il proletariato di fabbrica ha assunto nella fase fordista dell’organizzazione capitalistica del lavoro, sviluppa obiettivi, pratiche e metodi di lotta che esprimono una coscienza politica spontaneamente anticapitalista, rivoluzionaria. In altre parole, in questa fase storica il lavoro vivo incarna una politicità immediata; 3) le tradizionali organizzazioni operaie, a partire dal PCI, ignorano questa realtà per cui, invece di riconoscere le potenzialità rivoluzionarie della coscienza di parte inscritta nella propria base sociale, imboccano la via del “nazional popolare”, neutralizzano cioè la parzialità operaia per imbrigliarla in una strategia che riduce la parte al tutto e la subordina a un progetto di “democrazia progressiva”; 4) viceversa Tronti – al contrario di Gramsci e dei suoi successori – non vedeva più il Principe nel partito ma lo identificava direttamente con la classe, l’unico vero soggetto rivoluzionario; 5) corollario di tale visione non era la negazione di qualsiasi ruolo del partito rivoluzionario, bensì la sua trasformazione: da coscienza “esterna” alla classe a strumento deputato a coordinare e organizzare sul piano tattico la lotta spontaneamente rivoluzionaria del proletariato.

  1. La “conversione” di Tronti. Ovvero il riconoscimento della autonomia del politico

La presa di distanza dalle tesi appena descritte avviene, come si è detto, non molti anni dopo la pubblicazione di Operai e capitale. Pur non ripudiando il principio secondo cui sarebbero le lotte operaie a determinare lo sviluppo capitalistico, Tronti ammette che, nella misura in cui tale determinazione non esita in un processo rivoluzionario guidato e organizzato (come si vede, l’idea di un partito ridotto a svolgere mansioni puramente tattiche inizia a vacillare), il capitale è perfettamente in grado di sfruttare le stesse lotte operaie ai propri fini (Tronti non si è convertito alle tesi di Gramsci, ma qui è difficile non riconoscere le analogie con la categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”). Questo iniziale riconoscimento della autonomia del politico si rafforzerà a mano a mano che la ristrutturazione capitalistica e la transizione al modo di produzione postfordista evidenzieranno il  nodo problematico che si annida nella teoria marxista: nella misura in cui la lotta di classe viene ricondotta a contraddizione immanente al modo di produzione, non esiste alcuna via di uscita dal processo di riduzione dell’operaio collettivo a capitale variabile; la forza lavoro, essa stessa capitale, non riesce a divenire autonoma, per cui la teoria che vede nello sviluppo capitalistico una variabile dipendente delle lotte operaie mostra la corda. La via d’uscita va quindi  ricercata nella rivalutazione del ruolo del politico. Ma qui sorge un altro nodo problematico, visto che Tronti conserva una visione squisitamente novecentesca del politico. Per lui, come argomenta Franco Milanesi in un bel libro (2), il politico conserva il senso di visione strategica e organizzazione, capacità tattica e densità di cultura, ceti dirigenti e popolo attorno a un comune progetto di trasformazione. La politica è tensione affermativa di volontà, decisione e governo in opposizione alle forze dell’ordine economico. Nel solco tracciato da Marx, Lenin e Schmitt, occorre riconoscere cha la politica è forzatura, invenzione, volontà di sconvolgere il flusso temporale; non è continuità nel progresso bensì successione di fratture, interruzioni, ribaltamenti, è anche, infine e soprattutto, capacità di tracciare il confine fra amico e nemico. Come inquadrare questa visione nel contesto delle disastrose sconfitte della classe operaia negli anni Ottanta e successivi?

Nell’ultimo Tronti (3) le implicazioni di questa svolta assumono toni tragici: negli anni Ottanta, argomenta, il movimento operaio non ha perso una battaglia, ha perso la guerra e, a seguito di tale sconfitta, è stata la politica stessa a tramontare, riducendosi a mera gestione amministrativa per conto del capitale. I governi sono sempre più tecnici e meno politici e le maggioranze parlamentari hanno il compito esclusivo di eleggere dei consigli di amministrazione dell’azienda-paese. I partiti non hanno semplicemente cambiato forma, hanno rinunciato alle ragioni stesse della propria esistenza, riducendosi a collettori di voti e ad agenzie di comunicazione. Questa visione radicalmente pessimista si estende all’intera realtà contemporanea e il suo innesco catastrofico coincide con il crollo del sistema socialista: è a partire da allora che nelle sinistre si diffondono sentimenti di condanna e di rifiuto nei confronti non solo delle rivoluzioni ispirate al modello bolscevico del 1917, ma dell’intero “secolo breve”, descritto come una sorta di museo degli orrori macchiato da guerre e totalitarismi (4). Viceversa per Tronti il Novecento è piuttosto un secolo “tragico” che imponeva decisioni e scelte di vita radicali, senza alternative, il secolo dell’aut aut, dello slogan socialismo o barbarie. L’ideologia postmoderna che emerge dal suo naufragio si sbarazza di questo spirito con le parole che annunciano la “fine delle grandi narrazioni” (5) o addirittura la “fine della storia”(6). Sparita la grande politica novecentesca che lacerava la continuità del flusso temporale costringendolo a procedere per fratture, ribaltamenti e catastrofi, la storia assume la forma d’un eterno presente in cui tutto cambia senza che nulla cambi veramente.

Tronti indica nella coppia amico/nemico il bersaglio preferito di questa reazione antinovecentesca che accomuna destre e sinistre, conservatori e progressisti: assistiamo una mobilitazione totale contro la visione dicotomica della società che conduce alla condanna senza appello del punto di vista antagonista che era stato a fondamento di un secolo di storia del movimento operaio. Il risultato è la mutazione della tragedia in farsa: la lotta politica scade a reality show, il che non neutralizza la ferocia della lotta di classe (basti pensare alla macelleria sociale perpetrata dalla rivoluzione neoliberale) né, tantomeno, quella dei conflitti internazionali: nelle nuove guerre che le potenze occidentali scatenano contro le nazioni e i popoli che si ribellano al loro dominio l’inimicizia non viene civilizzata, al contrario diviene assoluta, le “guerre umanitarie” contro gli “stati canaglia” ne trasformano i leader locali in altrettanti “mostri”. Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi, Assad (oggi Putin) vengono tutti rappresentati, sfidando il senso del ridicolo, come altrettanti Hitler. Che ne è della politica in questo contesto? Provo a rispondere riprendendo le riflessioni critiche di Tronti: 1) sul fallimento del 68 e dei movimenti che ne hanno ereditato lo spirito (postoperaisti, femministe ecc.); 2) sulla necessità di rivendicare la tradizione rivoluzionaria novecentesca come “rivoluzione conservatrice”; 3) sulla necessità di ricostruire una prospettiva dicotomica, antagonista, nell’era dell’eclissi del soggetto di classe. Svolgerò infine alcune considerazioni in merito alle ragioni della paradossale fedeltà del Tronti militante al PCI, pur in presenza delle degenerazioni in senso neoliberale di quel partito e dei suoi eredi.

  1. La deriva neoliberale del 68

I giovani del 68, argomenta Tronti, erano radicalmente anti autoritari, ma ignoravano che abbattere l’autorità non significa automaticamente liberare le potenzialità dell’essere umano: poteva voler dire, e questo è ciò che in effetti ha voluto dire, liberare gli spiriti animali del capitalismo che scalpitavano dentro quella gabbia di acciaio che il sistema politico aveva costruito come rimedio della lunga crisi dei decenni centrali del Novecento, punteggiati da guerre e rivoluzioni scatenate dall’utopia del libero mercato. Negli anni Settanta può così trionfare quello che autori come Boltanski e Chiapello hanno definito “il nuovo spirito del capitalismo” (7): l’esaltazione della soggettività “desiderante” da parte dei nuovi movimenti, che si allontanano progressivamente dall’impegno per la difesa dei bisogni proletari, diviene adesione inconsapevole a una nuova cultura capitalista che fa leva sulle pulsioni consumiste, sull’edonismo individualista “emancipato” da ogni legame sociale e sulla critica radicale della razionalità del limite in qualsiasi campo dell’esistenza e dell’agire umani.

Nel 68 Tronti non vede una svolta epocale, un grande inizio, bensì la fine, la conclusione del Novecento. Più che di un grande balzo trasformativo, si è trattato, alla fine dei conti, di un banale cambio di ceto politico, in seguito al quale la storia si è progressivamente convertita nello scorrere di “un tempo senza epoca”, nel quale ogni increspatura viene scambiata per una svolta epocale, mentre nessuna vera svolta è più possibile a fronte di una realtà caratterizzata dalla dittatura del presente, un presente che ignora passato e futuro. Se il grande Novecento è stato l’epoca delle grandi rivoluzioni – grandi anche nel loro tragico fallimento – la sua parte terminale è invece il tempo delle rivoluzioni immaginarie, fallite prima ancora di iniziare. Paradigmatico, in tal senso, il destino del femminismo, movimento nei confronti del quale Tronti confessa di avere inizialmente nutrito simpatia e interesse, almeno finché il “femminismo della differenza” è stato neutralizzato dal prevalere del proprio lato emancipatorio. Nel momento in cui l’emancipazione vince, la rivoluzione perde: avanzando verso l’uguaglianza fra generi le donne non sono salite ma scese sulla scala delle libertà; hanno acquisito nuovi diritti, ma i diritti qualsiasi società moderna è più che disposta a concederli, perché è consapevole che si tratta di un altro modo per assicurare il potere a chi comanda. Nella misura in cui l’emancipazione si è sviluppata in senso contrario alla differenza di genere, la politica della differenza si è piegata alla logica borghese di neutralizzazione e depoliticizzazione; la vittoria dell’emancipazione sancisce l’inclusione senza residui del femminile nel sistema. Si tratta un  destino condiviso da tutti i nuovi movimenti, i quali hanno finito per soccombere, più che di fronte alla repressione o a minacce totalitarie, al trionfo di una democrazia intesa esclusivamente come emancipazione individuale, di un progetto che mira a isolare l’individuo e a impedirgli di entrare in rapporto con altri individui, a costruire una massa atomizzata agevolmente manipolabile.

Giudizi analoghi, tanto più amari in quanto implicano una dura autocritica delle sue antiche tesi, Tronti esprime nei confronti della deriva postoperaista. Si potrebbe dire, argomenta, che il “peccato originale” dell’operaismo è la sua concezione immanente del processo rivoluzionario, vale a dire l’idea secondo cui il principio del superamento è inscritto nelle dinamiche stesse del modo di produzione capitalistico. Si tratta di un principio di immanenza che si rovescia perversamente in principio di cattura, sintetizzato nello slogan secondo cui occorre essere dentro-contro il rapporto di capitale, dopodiché, non essendoci più alcun fuori, non c’è alcuna possibilità di fuoriuscita. Da qui  l’illusione di poter battere il capitale sul suo stesso terreno, che è quello dell’accelerazione-intensificazione dello sviluppo (sociale, politico e culturale, oltre che economico). Illusione, argomenta Tronti, perché “nessuno può essere più moderno del capitale”, nessuno può batterlo a un gioco di cui controlla ogni mossa e ogni regola. La critica di Tronti affonda fino al nocciolo duro della teoria operaista (e tocca qui i più espliciti accenti autocritici), vale a dire fino all’idea secondo cui la soggettività operaia rappresenta, al tempo stesso, l’unico vero motore dello sviluppo capitalistico e il principio immanente del suo rovesciamento. “Abbiamo forse caricato gli operai di un progetto eccessivo”, ammette (8), e la nostra illusione è svanita nel momento in cui è apparso chiaro che “la rude razza pagana” non ce l’avrebbe fatta a rovesciare il capitale. Né avrebbe potuto farcela, perché gli operai rappresentano sì una parte, ma una parte interna al capitale (si potrebbe dire che la scoperta trontiana dell’autonomia del politico, è stata la scoperta che aveva ragione Lenin: la coscienza spontanea degli operai non supera la coscienza tradeunionista e può divenire rivoluzionaria solo attraverso l’organizzazione politica).

Il pessimismo tragico di Mario Tronti si oppone  all’ottimismo euforico di Antonio Negri, l’altro grande vecchio dell’operaismo italiano. Incapace di prendere atto della natura contingente del ciclo di lotte dell’operaio massa, e tantomeno disposto a rinunciare al dogma secondo cui è sempre la forza lavoro a determinare lo sviluppo del capitale, Negri cerca di proiettare il carattere spontaneamente antagonista dell’operaio massa su una successione di figure prive di consistenza reale: dall’operaio sociale alla moltitudine. Tronti liquida la metafora dell’ “operaio sociale” come un tentativo di “fabbrichizzare” il sociale, di estendere la qualità dell’antagonismo di fabbrica al sociale diffuso, che viene sovraccaricato di coscienza anticapitalista per compensare il declino di potenza dell’operaio tradizionale. Quanto alla moltitudine, più che rappresentare una nuova forma di soggettività di classe, rispecchia il processo di atomizzazione sociale generato dalla ristrutturazione capitalistica. Negri e altri tentano di negare l’evidenza proponendo una lettura “biopolitica” dell’antagonismo fra capitalismo immateriale e lavoratori della conoscenza: visto che il capitale mette oggi al lavoro la vita stessa, il conflitto non è più fra capitale e lavoro, bensì fra capitale e umanità intera. Ma questa visione si regge su uno sfrenato ottimismo tecnologico che attribuisce al capitalismo immateriale il merito di avere realizzato la profezia dei Grundrisse: fine della legge del valore e transizione immediata al comunismo, resa possibile dal fatto che i lavoratori della conoscenza sono in grado di assumere il controllo di un processo lavorativo già compiutamente socializzato grazie alla loro cooperazione spontanea. Un discorso  che ignora il fatto che i mezzi di produzione e i prodotti immateriali sono in grado di confiscare più di ogni altro l’attività lavorativa umana e di egemonizzare le coscienze di lavoratori e consumatori (9). Contro  l’imperativo che impone di essere ipermoderni, celebrando ogni accelerazione nell’evoluzione tecnologica come un balzo in avanti verso il comunismo, si erge la diffidenza trontiana nei confronti della natura demonica della tecnologia, nonché l’invito a riconoscere il lato conservatore delle rivoluzioni novecentesche, la loro resistenza nei confronti dell’innovazione come arma di colonizzazione del sociale da parte  del capitale.

  1. Un rivoluzionario conservatore

La visione trontiana della rivoluzione presenta notevoli analogie (del resto rivendicate in più occasioni) con quella di Benjamin (10). Al pari del grande eretico della Scuola di Francoforte, Tronti considera le rivoluzioni novecentesche come altrettanti tentativi di opporsi all’invasione della società da parte dei barbarici istinti animali del capitalismo. Il peccato originale di larga parte della cultura marxista è consistito nel descrivere la rivoluzione socialista come  il compimento della rivoluzione borghese, come un’accelerazione verso la modernità. Questo punto di vista era profondamente radicato nella Seconda Internazionale e nella Socialdemocrazia tedesca che ne costituiva il nerbo teorico e organizzativo, un punto di vista sintetizzabile nella convinzione che il progresso tecnologico, lo sviluppo delle forze produttive, avrebbe automaticamente determinato la transizione a una forma sociale più avanzata di quella capitalistica. Criticando questa illusione, Benjamin, citato da Tronti, diceva che “non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente”. Lo stesso Tronti aggiunge che, a partire da un determinato momento storico, l’imperativo a essere moderni (che per i postoperaisti diviene l’imperativo a essere assolutamente moderni) coincide di fatto con l’essere per lo sviluppo della società capitalista. Contro questa concezione continuista del progresso umano, secondo cui l’innovazione capitalistica è necessariamente destinata convertirsi nell’innovazione socialista, si contrappone il punto di vista discontinuista della rivoluzione d’ottobre guidata da Lenin, l’idea di una volontà rivoluzionaria che interrompe bruscamente il flusso “normale” degli eventi storici, una  brusca interruzione che impone con la forza le ragioni della riproduzione sociale contro quelle del progresso economico e che fa sì, secondo Tronti, che la rivoluzione del 17 somigli più alle rivoluzioni conservatrici che a quelle borghesi. Questa auto rappresentazione del proprio pensiero come “rivoluzionario conservatore” si fonda oltretutto su un radicale pessimismo antropologico: diversamente da Rousseau e dai suoi emuli contemporanei di sinistra, Tronti non crede a una umanità che nasce “buona” ma poi viene corrotta dalla società (per cui basterebbe riformare quest’ultima per eliminare il male dal mondo), ma è convinto che il male sia radicato nella natura stessa dell’uomo, il che rende ancora più fondamentale la missione civilizzatrice del politico.

Purtroppo, come si è visto, per Tronti l’appello alla centralità del politico non può che suonare nostalgico dopo la catastrofe antipolitica di fine Novecento. A venir meno, infatti, è stato lo spirito rivoluzionario di una classe che non si fondava sulla sua capacità di incarnare l’interesse generale di un popolo, di una nazione o dell’umanità intera bensì, al contrario, sulla natura costitutivamente di parte dei suoi interessi. Che ne è di questo punto di vista irriducibilmente di parte in un mondo in cui il soggetto operaio sembra essersi dissolto nella massa individualizzata? La risposta di Tronti suona decisamente spiazzante se non addirittura enigmatica laddove scrive che “il punto di vista operaio non esiste più, rimane il punto di vista” o, con parole ancora più radicali che “l’odio di classe non esiste più, resta l’odio”. Con queste due affermazioni, Tronti sembra dirci che, mentre la parte non dispone più di un soggetto, né di un progetto, che la rappresentino, esistono ancora la possibilità e la volontà di opporsi al tutto, all’ordine complessivo, alla “forma di vita” dominante così come essa si esprime in politica, in economia, nella cultura, nell’agire quotidiano.

In altre parole, per sopravvivere a se stessa la politica dovrebbe transitare dalla contestazione dei rapporti di produzione alla contestazione di un’intera civiltà, lo spirito dell’inimicizia  non dovrebbe più rivolgersi solo contro il capitale, bensì contro l’intera civiltà occidentale. Così, dopo avere ironizzato sulla retorica dei principi e dei valori occidentali che accompagna le reazioni agli attentati degli integralisti islamici, Tronti afferma che quei valori e quei principi non sono i suoi e, benché non ritenga giusto attaccarli in quel modo, ciò non lo induce a difenderli in nome della difesa di uno stato di cose che considera turpe. Insomma: l’ultimo Tronti non è divenuto un pensatore pacifista, al punto che, ricordando le sue conversazioni con Miglio e Bobbio ai tempi in cui erano tutti e tre in parlamento, racconta come Miglio – con grande scandalo di Bobbio – avesse affermato di considerare la vendetta come la categoria politica più importante, e che lui, al contrario di Bobbio, si era riconosciuto in quell’affermazione, associandola al detto di Benjamin secondo cui non si combatte per le generazioni a venire, bensì per vendicare le sofferenze e i soprusi degli antenati asserviti. Questa postura vale anche per il tema della guerra, rispetto al quale Tronti dichiara  di non avere mai condiviso l’utopia di un mondo pacificato: meglio riconoscere che la dimensione della guerra fa parte della natura umana e che, più che esorcizzarla, occorrerebbe “civilizzarla” (tema squisitamente schmittiano). Una funzione venuta meno dopo la caduta del Muro e la fine della guerra fredda, eventi che hanno inaugurato l’era delle “guerre umanitarie” in cui il nemico è stato ridotto a criminale, legittimando qualsiasi mezzo per annientarlo. Donde il monito a una classe politica che, avendo smarrito la capacità di interpretare la geopolitica, non sa riconoscere, né tantomeno governare, le trasformazioni di un mondo che minaccia di innescare conflitti distruttivi non più fra nazioni ma fra interi continenti. A questo punto si fa pressante l’interrogativo sulle ragioni di quella che ho sopra definito la paradossale fedeltà del Tronti militante al PCI, pur in presenza delle degenerazioni in senso neoliberale di quel partito e dei suoi eredi.

  1. Perché questo “vecchio bolscevico” è rimasto con gli aborti politici partoriti dal PCI?

Sarò sincero: questa domanda per me resta a tutt’oggi priva di una risposta accettabile, per cui mi limito a elencare qui di seguito le motivazioni che lo stesso Tronti mi ha fornito nel lungo dialogo che  abbiamo avuto qualche anno fa (11), motivazioni che considero a dir poco inconsistenti, dopodiché  proverò a formulare una ipotesi sul vero errore di prospettiva che sta alla base di una scelta apparentemente inspiegabile. Le motivazioni addotte nell’occasione appena accennata sono sintetizzabili in quattro punti che ruotano attorno al concetto che Tronti sintetizza con la necessità di “essere bolscevichi”.

Uno. Essere bolscevichi, argomenta, significa essere maggioritari, scegliere di operare laddove si concentra la forza necessaria per cambiare le cose. E’ per questo motivo, sostiene che ha fondato la rivista Classe Operaia, prendendo le distanze dall’esperienza minoritaria di Quaderni Rossi, e quando anche Classe Operaia divenne una setta, ha deciso di rientrare nel PCI, perché convinto “che occorra sempre stare nel grosso della forza anche se non corrisponde alla mia idea”.

Due. Essere bolscevichi, aggiunge, vuol dire comprendere la necessità del professionismo in politica. Non la politica come mestiere, bensì la politica come beruf, il termine weberiano che compendia in sé i significati di professione e vocazione. Tronti considera necessaria la professione politica perché non crede nell’ottimismo democratico che attribuisce a tutti i cittadini la capacità di decidere, per cui rifiuta la retorica sulla democrazia partecipativa.

Tre. Essere bolscevichi significa inoltre diffidare dell’estremismo: “La politica cammina su due gambe, il conflitto e la mediazione, se cammina solo sulla prima abbiamo l’estremismo, se cammina solo sulla seconda abbiamo l’opportunismo” (evidentemente non ha saputo/voluto prendere atto che la politica delle formazioni in cui ha militato per decenni camminava solo su quest’ultima gamba)

Quattro. Essere bolscevichi significa infine essere realisti: ”Il realismo”, dice, “si misura sulla durata delle conseguenze che tu attribuisci al tuo agire”, per cui, se vuoi che tali conseguenze durino, a volte devi rinunciare a determinati principi e valori, perché è più probabile che tu riesca a realizzarli se il tuo progetto dura nel tempo, mentre, se ti intestardisci a volerli mettere in atto qui, subito e a qualsiasi costo, andrai quasi certamente incontro al fallimento.

La mia ipotesi è che il vero motivo dell’abbaglio trontiano risieda nella quarta motivazione. Tronti ci dice di avere scelto di collocarsi laddove si concentra la forza per il cambiamento, sacrificando valori e principi ai vincoli dettati dalla contingenza storica in vista di una loro possibile, futura ripresa e realizzazione. Ma a quali vincoli “oggettivi” si riferisce? Mi pare evidente che qui entra in campo, in barba a molte delle intuizioni critiche formulate dallo stesso Tronti, una visione rimasta costantemente maggioritaria nel marxismo occidentale, vale a dire quella secondo cui nessuna volontà rivoluzionaria può avere ragione delle “leggi” economiche dello sviluppo capitalistico, nonché degli scenari geopolitici “sovradeterminati” da tali leggi. Così il “realismo” trontiano ricade però in una visione della storia come processo lineare, unidirezionale, animato da una necessità immanente, “naturale”, in palese contraddizione con le sue riflessioni sul politico come rottura del flusso “normale” degli eventi storici.

Se qualcosa ho potuto imparare da Tronti è quindi solo grazie alle lezioni di altri maestri che, come Gyorgy Lukacs (12), mi avevano vaccinato contro le insidie del determinismo e del meccanicismo. Ecco perché, malgrado questa pur grave debolezza del Tronti “realista” – che gli amici delle sinistre radicali non gli hanno mai perdonato –, resto convinto che nessun progetto di ricostruzione di un punto di vista rivoluzionario possa prescindere dal suo contributo teorico su temi quali l’autonomia del politico, i disastrosi effetti dell’infatuazione del marxismo occidentale per il progresso tecnologico e lo sviluppo economico; la critica della svolta individualista delle culture di movimento (e la loro conseguente cattura da parte del campo liberale); la rivendicazione della tradizione novecentesca della logica amico/nemico e del punto di vista di parte associato alla lotta di classe. Per quanto riguarda in particolare quest’ultimo punto, mi preme citare tre frasi estratte da altrettanti scritti recenti: “il cemento dell’amicizia politica è una ben specifica e determinata e consaputa inimicizia sociale, non uno stare con ma uno stare contro”; “compito del partito è oggi semplificare politicamente la complessità sociale. Tornare a dividere l’uno in due al di là di tutte le apparenze sistemiche”; “che una parte va ricostruita è indubbio, altrimenti non c’è partito né politica, ma quale parte parte, strutturata come, riferita a cosa, in quale forma organizzata”. Rispondere agli ultimi quattro quesiti è il compito di qualsiasi forza politica intenzionata a rilanciare una prospettiva anticapitalista.

* Fonte: PER UN SOCIALISMO DEL XXI SECOLO

Note

(1) M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.

(2) F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis, Milano 2014

(3) In questo scritto farò riferimento soprattutto alle seguenti opere di Tronti: Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009; Dall’estremo possibile, Ediesse, Roma 2011; Dello spirito libero, il Saggiatore, Milano 2015.

(4) Vedi, in particolare, M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.

(5) Cfr. J-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.

(6) F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.

(7) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(8) Cfr. M. Tronti (a cura di C. Formenti), Abecedario ( con due Dvd); DeriveApprodi, Roma 2016.

(9) Sulla capacità del neocapitalismo digitale di plasmare l’identità e la cultura di lavoratori e consumatori cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. Vedi anche il mio Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.

(10) Per una ricostruzione del pensiero “antimoderno” di Benjamin vedi A. Visalli, Classe e partito, Meltemi, Milano 2023.

(11) Vedi Abecedario, op. cit.

(12) Cfr. La mia Prefazione a G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023. vedi anche C. Formenti, Ombre rosse. Saggi sull’ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.

 

 




ANCHE IN CINA IL TIMONE SI È ROTTO di Paolo Cleopatra

ANCHE IN CINA IL TIMONE SI È ROTTO: Cina, mito dalle grandi contraddizioni. Un’economia globale a vocazione egemonica.

Il mondo è cambiato!

Questo è quanto percepisco io, nato durante la metà del secolo passato, quando le cose parevano immutabili e i cambiamenti sembravano accadere per via del lento scorrere degli eventi.

Era il tempo dei “cattivi”, tutti da una parte, e dei “buoni”, di cui facevamo parte, dall’altra. Poi, con la gioventù, le nostre percezioni cambiarono e la nostra consapevolezza, con la quotidianità, iniziò a farsi ben più articolata, gli ideali e le illusioni ad esser sottoposti a critica.

Alcuni di essi caddero inesorabilmente.

Tra gli altri miti, oggi è l’immagine della Cina a erodersi.  Finora idealizzata nell’immaginario collettivo come locomotiva infaticabile ed inarrestabile, essa riporta una serie di dati economici deboli e pare attualmente indecisa tra il lanciare più stimoli per sostenere l’economia interna oppure ritirare gli incentivi governativi, che hanno sinora alimentato a dismisura la bolla immobiliare. Quest’ultima ipotesi potrebbe, in un’economia ancora fortemente globalizzata, creare un rallentamento economico profondo, innescare importanti disordini sociali interni e costituire un potente fattore deflagrante per le economie di tutto il pianeta.

Un crollo definitivo del settore immobiliare cinese e del relativo settore finanziario potrebbe infatti fare precipitare il paese, che negli ultimi trent’anni ha visto crescere continuamente la sua economia, in una prima impensabile recessione che non toccherebbe solo il suo mercato interno, come già detto, ma avrebbe conseguenze devastanti per tutti noi.

Quella che pare essere una cattiva gestione della crisi che, precisiamolo, è maggiormente di debito privato che di debito pubblico, potrebbe trasformarsi e, quindi, generare un lungo periodo di stagnazione molto simile a quello che attraversò il Giappone trent’anni fa. Ricordiamo tutti gli anni Novanta.

In questo momento la Banca centrale cinese ha già per la seconda volta in quattro mesi tagliato i tassi di interesse, reazione analoga a quella che fu intrapresa dopo il 2008 nel mondo occidentale al fine di stimolare il credito e l’economia. La sfida è profonda ed il mercato azionario ed obbligazionario cinese è sempre stato abbastanza opaco, essendo sia i dati sull’economia che quelli dei principali indicatori tenuti saldamente in mano dal governo di Pechino, che rilascia solo quelli che ritiene non intacchino i propri interessi nazionali.

Conoscendone le abitudini, sarà difficile che il governo adotti al momento misure più forti, anche perché cerca di far sgonfiare il più possibile il fenomeno per limitare i disordini popolari e la tensione sociale.

Durante gli scorsi mesi, e più propriamente lo scorso anno, abbiamo assistito a proteste scoppiate spontaneamente, brutalmente represse allorché in moltissime città i proprietari di mutui per appartamenti residenziali protestavano e chiedevano di avere consegnati gli appartamenti per i quali già pagavano, magari da anni, le rate del mutuo.

In Cina infatti le regole per vendere o acquistare residenze immobiliari sono decisamente diverse dalle nostre. Chi desidera acquistare paga all’atto dell’acquisto in contanti oppure accendendo un mutuo, quindi, non alla consegna dell’immobile come da noi. La società di costruzione inizia allora a costruire la nuova lottizzazione oppure procede con la costruzione se questa era già iniziata. Seguendo questa modalità, il governo ha per anni stimolato una serie molto grande di infrastrutture con conseguente sviluppo immobiliare in tante città. Sviluppo che ha comportato nello stesso tempo ad una crescita esponenziale del mercato, delle aziende di costruzione e dell’economia relazionata direttamente ed indirettamente alle costruzioni.

Potremmo dire che, se le aziende non avessero utilizzato quei denari anche per sviluppare investimenti diversi, il tutto avrebbe potuto procedere in modo lineare e molto più stabile che in altre parti del mondo ma, come sempre, dietro i dettagli si annidano i problemi.

I governi delle varie provincie hanno in molti casi contratto prestiti per finanziare progetti infrastrutturali costosi, non sempre rispondenti a reali necessità. Ricordiamo, tra l’altro, che la terra in Cina è di proprietà dello stato e, quindi, dei governi locali e che viene normalmente da essi data in affitto, per lunghissimo tempo, alle aziende di costruzione per costruire e rivendere stabili abitativi o centri commerciali. Questa tendenza è stata utilizzata per rimpinguare le casse dei governi locali, permettendogli così di raggiungere le quote di sviluppo assegnate annualmente dal governo centrale ed anche, a volte, per intascare profitti personali, fatto molto comune nel paese in oggetto. Anche i costruttori a loro volta incassavano il prezzo di vendita delle costruzioni in anticipo sull’effettivo termine e consegna dei lavori, la qual cosa ne permetteva l’utilizzo per finanziare altri investimenti.

Il meccanismo si è alimentato in questo modo per anni, in presenza di una crescita di domanda che ha fatto lievitare il costo degli immobili del dieci o più per cento annuo. Questa tendenza non solo ha convinto milioni di persone della neonata classe media ad investire per la propria abitazione, ma ad investire anche per intenti speculativi, quindi indebitandosi, su una seconda o terza casa da porre in affitto per cercare di assicurarsi una pensione ed una vecchiaia migliori.

Le politiche che hanno originato questa prassi e gli effetti riscontrati rischiano di creare una enorme bolla immobiliare e già la più grande azienda mondiale del settore, la Evergrande, è risultata insolvente e con circa trecento miliardi di dollari di debiti. Parliamo sempre di debito, come già fatto in precedenti interventi, anche se questa volta le banche non hanno avuto una responsabilità diretta, come accaduto nel caso americano dei subprime. Anche in Cina viviamo con una economia a debito come negli Stati Uniti.! Purtroppo l’effetto potrebbe risultare il medesimo.

Nel caso cinese dobbiamo aggiungere a questa potenziale instabilità economica anche le conseguenze di tutto ciò che è avvenuto per causa delle decisioni prese negli ultimi anni atte ad arginare apparentemente il Covid, con la ben nota “tolleranza zero” e le chiusure di mesi per la quasi totalità dell’economia.

In aggiunta, le industrie tecnologicamente più avanzate stanno vivendo momenti di incertezza, dato lo stretto controllo del governo centrale, per non rischiare di divulgare notizie che potrebbero compromettere la sicurezza nazionale.

Non è assurdo dire, quindi, che l’economia cinese sta affrontando il rischio di una possibile deflazione che, come tutti sanno, peggiora il debito e lo porta in molti casi a non essere più esigibile. Meglio sarebbe essere in presenza di inflazione e di politiche di aumenti salariali, che potrebbero aiutare ad assorbire il peso del debito nel tempo.

Non sono passati molti giorni, infatti, da quando alcuni giornali hanno pubblicato la notizia che il National Bureau of Statistic cinese non sta pubblicando i dati specifici sulla disoccupazione giovanile urbana, sicuramente perché fortemente influenzati dal rallentamento incombente. Si pensa a percentuali a due cifre e molto vicine ad un venti per cento. Un dato, questo, che se confermato avrebbe dell’inverosimile in relazione alla Cina.

Parliamo essenzialmente di giovani con una laurea e non di contadini o mano d’opera non specializzata. L’elevata disoccupazione tra i giovani urbani è causata in parte da una “bolla universitaria”. Questo ci dice che ci sono più giovani che ottengono titoli universitari e che hanno comunque un’istruzione superiore che posti di lavoro da riempire. I dati comunque diffusi a luglio parlano di una disoccupazione complessiva relativamente bassa, rispetto ai nostri standard, del 5,3 per cento.

Un’ultima considerazione è lecito fare, leggendo che alcuni giganti della tecnologia cinese avrebbero emesso ordinativi per complessivi cinque miliardi di dollari in microchip ad alta tecnologia da utilizzare nello sviluppo dell’AI generativa, in previsione di ulteriori restrizioni da parte degli Stati Uniti.

Dove ci porterà questa corsa sfrenata verso l’intelligenza artificiale in Cina, la fabbrica del mondo? Si investe moltissimo in questa tecnologia, proprio in un paese che sembrava essere sinora escluso da problematiche inerenti la disponibilità del lavoro. Gli studenti con alta preparazione perché quindi non trovano impiego? Dove potremo arrivare nel nostro futuro prossimo, se anche nel paese a più grande vocazione egemonica schierato apparentemente sul lato opposto dell’occidente si soffre di mali analoghi a quelli a noi ben conosciuti?

Sarà forse che il sistema economico-finanziario su cui si basa, molto simile al nostro, mostra i suoi limiti, al netto delle condizioni iniziali del paese? Oppure c’è una relazione con il fatto che la Cina sia il paese simbolo, più volte menzionato ad esempio dal World Economic Forum?

Ripetiamo quanto abbiamo già scritto: si può anche stampare denaro, ma non si può stampare benessere!




LA CIVILTA’ DEL DEBITO di Paolo Cleopatra

GOVERNO DEL CAPITALE FINANZIARIO: LA CIVILTA’ DEL DEBITO Come, utilizzando il debito, ci è stata regalata l’idea di libertà e benessere

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

Ogni giorno le persone pongono domande a cui normalmente vengono date risposte non vere, mistificate.

Esploriamone insieme alcune, per tentar d’ottenere risposte più attendibili.

Il denaro viene creato con il duro lavoro e dopo anni di sacrifici?

In realtà il danaro viene prodotto in tre diversi modi.

La prima forma di denaro è quella creata dal governo, delegandone l’emissione alla banca centrale oppure alla zecca dello stato, ma l’emissione della moneta resta comunque sotto il controllo del governo. Il denaro fisico si presenta allora nella forma di banconote o monete.

Tale denaro rappresenta solo una piccola frazione del volume totale e varia in quasi tutte le nazioni dal 3 all’8 per cento. Questo denaro viene creato, tra l’altro, anche per soddisfare gli obblighi a cui devono fare fronte le banche, come per esempio il contante che possiamo prelevare da uno sportello bancario. Se consideriamo il valore di una qualunque banconota, scopriamo che la sua stampa costa pochi centesimi, e che quindi il profitto per la creazione di ciascuna banconota o moneta è molto alto. Questa differenza tra il costo ed il valore nominale si chiama signoraggio e parteciperà alle entrate del governo. Il governo quindi trae profitto dalla stampa delle banconote e dal conio delle monete quando ne detiene la proprietà.

La seconda forma di denaro viene invece creata dalle banche private e si basa sul debito. Non capita di sovente di riflettere sul fatto che la stragrande maggioranza dei soldi in circolazione nascono nel settore bancario privato, attraverso un’operazione in sé banale di digitazione ad una tastiera di computer. Nella maggior parte delle economie sviluppate, circa il 97% dell’intera offerta di moneta è creata in forma digitale dalle banche, e quindi potremmo dire che la maggior parte del denaro nel mondo è in un qualche modo, a nostra insaputa, già privatizzato. I governi hanno quindi esternalizzato in modo indiretto, da tempo, la creazione di denaro digitale. L’idea, tuttavia, di usare il debito come forma di denaro risale a molto tempo fa, e precisamente all’inizio del ‘700, con il Promissory Notes Act del parlamento inglese. Secondo tale normativa, la promessa di pagamento formalizzata ha lo stesso valore di un’effettiva banconota.

Oggi questo meccanismo è stato digitalizzato e viene comunemente chiamato debito.
Le banche, creando denaro senza alcun sottostante, sono quindi libere di creare ma anche distruggere il debito: In altre parole, prima si crea il denaro, poi lo si dà in prestito lucrando sugli interessi e poi, una volta ripagato, lo si cancella sia come debito che come credito, e quindi quel denaro non esiste più.

Il debito che contraiamo con una banca può anche diffondersi perché ad esempio quando acquistiamo una casa, il venditore può usare il denaro ricevuto da noi per comprare cose oppure potrà deporlo nel proprio conto presso un’altra banca. Ciò significa che, nel nostro sistema attuale, se volessimo avere più crescita in presenza di uno stato che non stampa denaro avremmo bisogno di più debito.

L’intera economia mondiale si basa su queste promesse di pagamento.

Quindi, ricapitolando, il debito è in realtà denaro visto da due prospettive diverse. Per la banca il debito è un bene utilizzabile come denaro, mentre per il mutuatario è una passività, quindi effettivamente un vero debito. Parliamo comunque della stessa cosa. Sembra complicato ma quello che non dobbiamo mai scordare è che quando una banca emette un prestito, non ci sta fisicamente dando i risparmi di qualcun altro.

Il mercato immobiliare, rappresentando una forma sicura e redditizia di investimento con cui creare debito, è stato uno dei principali strumenti per la creazione di denaro digitale prima dei derivati. Infatti, se non possiamo pagare un mutuo, avremo la casa pignorata.

Abbiamo quindi visto due metodologie di creazione di denaro, parleremo dopo avere esaminato altri quesiti comuni della terza e più devastante forma di creazione di denaro.

Per quale motivo i governi non stampano sempre solo denaro fisico?

La ragione principale comunemente riportata è che non si vuol dare eccessivo potere ai politici, perché questi potrebbero tentare di stamparne più del necessario per soddisfare le promesse elettorali. Se ciò corrispondesse al vero, sarebbe in effetti da evitare, perché distruggerebbe il valore del danaro attraverso un’impennata inflattiva importante che penalizzerebbe maggiormente gli strati più bisognosi delle persone.

Il denaro depositato resta di mia proprietà e la banca lo presterà ad un altro cliente?

Quando depositiamo i nostri soldi in banca non siamo più legalmente proprietari di quel denaro o meglio diveniamo creditori di quella somma verso la banca. La proprietà d’uso, oltre la sua custodia, viene trasferita alla banca che ne manterrà una parte del totale a riserva e ne presterà il restante ad altri. Solo a titolo di esempio, negli Stati Uniti, ma penso fosse simile anche in Europa, sino a poco tempo fà il 10% dei depositi veniva mantenuto come riserva ed il 90% riutilizzato per altri usi tra i quali altri prestiti. A loro volta, coloro che ricevevano il prestito potevano depositare quei soldi in un’altra banca, e quella banca poteva prestare il 90% di quella cifra, e così via.

Questo meccanismo prende il nome di prestito a riserva frazionaria. Quando ci dicono che trasferiscono i soldi sul nostro conto dicono una bugia, perché non viene trasferito nulla. Quello che viene chiamato deposito è semplicemente la registrazione da parte della banca del suo debito verso di noi. Registra solo ciò che ci dovrebbe rendere, così come registrerà un debito a chi presterà dei soldi. Alla fine della fiera, un deposito iniziale di 100 euro con un requisito di riserva del 10% può portare a 1000 euro di denaro in circolazione. Dal 26 marzo 2020 però, la Federal Reserve ha ridotto a zero l’obbligo di riserva. Questa norma ha eliminato l’obbligo per tutte le istituzioni creditizie. In tal modo le banche possono creare quantità infinite di denaro senza preoccuparsi di avere alcuna riserva. Le banche possono investire e creare vari strumenti finanziari, come derivati e titoli di borsa. Lo fanno per ottenere rendimenti superiori ed il rischio viene in ogni modo scaricato in parte anche sui clienti.

Alcune stime, certamente difficilmente verificabili, collocano il mercato dei derivati nel mondo a oltre un quadrilione di dollari, vale a dire circa dieci volte il valore dell’economia globale. Durante le stagioni di crescita economica tanti si indebitano, fanno prestiti e spendono per cose che, normalmente, non potrebbero permettersi. Questo provoca una crescita economica! Le persone devono però ripagare i crediti avuti e se non possono contrarne altri, né ripagare quelli già contratti, le banche smetteranno di concedere loro credito e quindi vi saranno protesti o pignoramenti che faranno precipitare l’economia in recessione e le banche accumuleranno situazioni di insolvenza.

Le riserve delle istituzioni finanziarie compenseranno le perdite avute?
Questo sarebbe naturale ed è già accaduto nel corso dei secoli. Ma nel 2008 il mondo forse non voleva né poteva vivere una recessione. Le banche erano talmente grandi e legate a filo doppio l’una con l’altra, costituendo una parte talmente importante dell’offerta di moneta che, quando stavano per crollare, i governi hanno dovuto usare le banche centrali per salvarle. Ricordiamo ancora una volta che le banche creano, sotto forma di debito, la quasi totalità del denaro in circolazione. E se questi debiti creati digitalmente non possono essere ripagati l’intero sistema fallisce, con il rischio di collasso dell’impianto monetario globale.

Dal 2008 l’economia, ormai morta, è stata mantenuta artificialmente in uno stato di vita vegetativa. Più di un decennio di tassi di interesse iper-bassi, che fondamentalmente hanno reso gratuito il prestito di denaro quasi per tutti, hanno causato distorsioni talmente grandi da aggravare l’intero problema. Si è voluta perseguire una strategia di guadagni a breve termine dilazionando il dolore ed il problema a lungo termine. Quando le banche private di grandi dimensioni fanno scommesse rischiose e subiscono perdite, le banche centrali possono o devono salvarle attingendo al proprio portafoglio infinito. Il presidente della Fed Jerome Powell, in una recente intervista per una trasmissione della CNBC, ha detto infatti “Lo stampiamo in digitale. In quanto banca centrale, abbiamo la capacità di creare denaro digitalmente. E lo facciamo comprando buoni del tesoro, oppure obbligazioni, oppure altri titoli garantiti dal governo, e questo di fatto aumenta l’offerta di moneta”.


Tutto questo denaro che viene creato è come quel pezzo di carta di cui abbiamo parlato prima, la promessa di pagamento, tranne per il fatto che la firma in fondo è quella di tutti noi cittadini. Abbiamo firmato che il tutto verrà ripagato attraverso le tasse da noi e dalle nostre generazioni future.
La tassazione e il commercio internazionale sono i due modi principali con cui i governi possono raccogliere denaro.

Ma allora se le banche centrali sono dello stato, nessuno deve rimborsare i debiti, giusto?

Tale denaro viene utilizzato per rimborsare con gli interessi i prestiti fatti al governo dalla banca centrale. Quindi, quando i governi usano le banche centrali per salvare le banche private che si sono comportate in modo irresponsabile, contraggono un debito che, alla fine, dovrà essere rimborsato dai contribuenti. Oggi la maggioranza delle banche centrali non è comunque sotto il controllo dello stato, sono partecipate da banche molto importanti a loro volta private, quindi rispondono sempre a quei famosi quanto misteriosi Mercati di cui da molti decenni sentiamo sempre parlare.

Questo denaro digitale entrerà comunque nel sistema economico per aiutare le aziende in difficoltà?

No! Le banche centrali usano il loro denaro magico per acquistare obbligazioni del governo o altre obbligazioni da esso stesso garantite. Il mercato obbligazionario esiste infatti per prestare denaro ad aziende oppure agli stessi governi anche se la stampa e tutto il sistema di informazione parlino molto più spesso del mercato azionario, in realtà il mercato obbligazionario è quello più grande.

L’obbligazione è un impegno a pagare?

Un’obbligazione è fondamentalmente un debito emesso da un governo oppure da una banca o una società. Le banche centrali, che non dispongono di risparmi propri, devono creare nuovo denaro per acquistare queste obbligazioni che poi terranno a garanzia dello stesso denaro emesso.

La banca centrale va in bancarotta se non agisce come decidono i Mercati?

Secondo la Banca Centrale Europea, che ha pubblicato un documento a tal proposito, le banche centrali sono protette dall’insolvenza grazie alla loro capacità di creare più denaro. Nella nostra situazione attuale, i governi sono bloccati tra l’incudine e il martello. Non possono raccogliere nuovo denaro, eccetto che aumentando le tasse, ma hanno debiti di trilioni nei confronti delle banche centrali. La speranza è che il denaro preso in prestito possa far ripartire l’economia. Quando le banche centrali acquistano obbligazioni emesse dal governo o dalle società, possono finire per possedere gran parte dei beni esistenti nel mondo. Ad esempio, il bilancio della banca centrale giapponese è quasi più grande dell’intero Prodotto Interno Lordo del Giappone. Essa possiede una percentuale impressionante del mercato azionario giapponese! La Banca Centrale del Giappone è quindi il maggiore azionista del mercato azionario. La Banca Centrale svizzera possiede almeno 90 miliardi di dollari in azioni di società americane, tra cui Apple, Microsoft, Google e Amazon.

Riassumendo, queste banche centrali stanno creando denaro dal nulla e non possono andare in bancarotta, tuttavia stanno comprando beni reali. Qualcosa però non quadra in questa situazione.

Creare denaro dal nulla e usarlo per comperare beni reali presenta alcune conseguenze. Questo tipo di interventi delle banche centrali scollega dalla realtà i mercati azionari mondiali. Per l’intera durata del ventesimo secolo, il mercato azionario è stato un riflesso più chiaro dell’economia reale. Ma durante gli ultimi decenni la situazione è andata completamente fuori controllo. Il mercato azionario statunitense, ad esempio, è diventato quasi due volte più grande del prodotto interno lordo dell’intera nazione, il che letteralmente non ha senso. L’intervento delle banche centrali è la ragione principale per cui molti mercati azionari hanno avuto buone performances anche dopo la crisi del 2008. Le banche centrali hanno stampato trilioni di dollari o euro e li hanno immessi nel mercato, dandoli però indirettamente alle banche e ai fondi di investimento con tassi di interesse quasi dello 0%. Questo denaro è arrivato quindi sul mercato azionario, facendolo esplodere, mentre l’economia reale ne ha tratto benefici molto modesti.

Sopra abbiamo menzionato il fatto che la stampa continua di denaro porta all’inflazione.

Perché allora l’inflazione non si era ancora manifestata alla fine del 2020? In realtà si è manifestata a livello globale, ma nei prezzi delle case e nei mercati azionari. Il denaro stampato finisce direttamente nel valore di questi beni, spingendone i prezzi verso l’alto. Di conseguenza, le poche persone che possiedono grandi quantità di azioni finiscono per diventare super-ricche, mentre l’economia reale non vede alcuna crescita.

I ricchi quindi diventano più ricchi e i poveri diventano più poveri. Le persone avvertono la grande disuguaglianza economica nella società, ma non hanno idea di da dove provenga.

Quanto sopra ci porta alla terza forma di creazione di denaro, la più folle di tutte. Le monete digitali delle banche centrali.

La terza forma di denaro prende il nome di Quantitative Easing. Il Quantitative Easing, o allentamento quantitativo, è una nuova forma di denaro inventata dalla banca centrale giapponese nel 1989. In seguito è stato reso popolare dalla Federal Reserve negli Stati Uniti durante la crisi del 2008, così come dalla BCE e da altre istituzioni analoghe.

Nel Quantitative Easing, una banca centrale crea denaro digitale per fornire prestiti direttamente al settore bancario, alle grandi società assicurative e a tutte quelle istituzioni finanziarie che sono in difficoltà. È un modo per inondare l’economia di denaro in momenti in cui si verificano eventi estremi, come le crisi finanziarie. In conseguenza di ciò, i bilanci delle banche centrali sono andati completamente fuori controllo al fine di sostenere le rispettive economie per qualche anno.

Durante la crisi del 2008, il Quantitative Easing è stato tentato per la prima volta al di fuori del Giappone, generando solo negli USA 700 miliardi di dollari per il salvataggio del sistema bancario, e sollevando contemporaneamente molte controversie.

Si pensava che fosse uno scenario di emergenza “una tantum”, ma nel decennio successivo la Federal Reserve e tutte le altre maggiori banche del Mondo non sono state in grado di cambiare rotta. Quindi le banche centrali hanno continuato a generare centinaia di miliardi di dollari, euro e altre valute in poche ore. Ma l’effetto di tale iniezione di denaro è apparso sempre più debole, a mano a mano che la stampa di denaro è continuata.

Dal 2008, quando l’economia è andata in rianimazione, il mercato azionario si è saldato con le banche centrali. Più soldi vengono stampati dalla banca centrale, più il mercato azionario sale, e più ricchezza viene accumulata da chi è già molto ricco. Dalla fine dello scorso secolo, la ricchezza di queste persone è cresciuta in modo esponenziale. Quando le banche centrali stampano denaro, i primi destinatari godono di condizioni privilegiate a spese dei successivi destinatari che ricevono tale denaro quando l’inflazione ha già preso piede. Questo fenomeno è noto come effetto Cantillon.

L’effetto Cantillon descrive l’effetto disomogeneo delle politiche monetarie sull’economia. Cioè, se una banca centrale inietta più denaro nell’economia, il conseguente aumento dei prezzi non si verifica in modo uniforme.


Alcuni esperti ritengono che, quando i possessori di grandi capitali inizieranno a vendere le loro azioni e i loro immobili in modo da acquistare altri beni la velocità del denaro, cioè il tasso con cui il denaro passa di mano nell’economia, inizierà a salire. Ed è allora che si potrebbe vedere l’inflazione reale schizzare impazzita nell’economia generale.

Quindi, per ricapitolare, le banche centrali non dispongono di risparmi sul proprio conto e non possono andare in bancarotta, ma possono creare quantità infinite di denaro acquistando titoli di stato. Un’obbligazione è una promessa di restituire con gli interessi il denaro preso in prestito sia dal governo che da una società. Le banche possono, in una certa misura, investire usando i depositi dei consumatori di cui hanno il possesso legale. Quelle che sono troppo grandi per fallire vengono sostenute dalla banca centrale, dando vita ad una perversa spirale dove alla fine è sempre il cittadino che si trasforma in pagatore di ultima istanza. Nel caso del governo, infatti, tale denaro dovrà essere restituito dai futuri cittadini del paese, attraverso il meccanismo della tassazione.

Conclusioni e domanda finale: cosa dovrebbe essere fatto?

È chiaro che le persone che hanno perso il proprio lavoro hanno bisogno di aiuto, ma stampare ulteriore denaro non è altro che un rimedio che evita di affrontare la vera soluzione. Decenni fa, le società e le nazioni avrebbero dovuto concentrarsi sulla creazione di vera ricchezza, invece di gonfiare il mercato immobiliare e industriale finanziarizzandolo. Vale a dire che le banche avrebbero dovuto concedere prestiti alle aree più produttive della società, come le piccole e medie imprese, i piccoli imprenditori del commercio, il settore dell’istruzione, dell’innovazione, della ricerca e dello sviluppo di nuove tecnologie. I benefici avrebbero portato più posti di lavoro, maggiore innovazione, migliore concorrenza e migliori standard di vita per le persone nel lungo periodo. Inoltre, i governi avrebbero potuto raccogliere più tasse dai redditi nel frattempo aumentati, senza necessariamente aumentare le aliquote delle tasse stesse. Il maggiore gettito fiscale derivato da standard di vita più elevati avrebbe potuto quindi essere speso in programmi sociali per aiutare coloro che sono veramente bisognosi. Il modo in cui viene creato il denaro e il sistema bancario in generale sembrano oggi una follia distopica e la gente ha iniziato a notare che il sistema non funziona più.

Il sistema monetario è così radicato e così pervasivo che diventa invisibile. Nessuno l’ha mai messo davvero in discussione.

Quando le cose hanno iniziato ad andare male, la gente ha puntato il dito sulle cose che sono visibili, che sembrano essere la presunta causa dei problemi, ma che sono solo evidenze superficiali ripetute però in continuazione dall’apparato del mainstream, facili da vedere e capire. Le cause che portano oramai a frequenti ciclicità negative sono insite nel sistema e difficilmente riformabili se non si alterano i presupposti di base. Un mix di sistema basato sul debito eccessivo, sulla finanziarizzazione estrema e su un dilagante effetto di cancellazione sta causando estrema fragilità e quantità sempre crescenti di massiccia disuguaglianza nella ricchezza individuale.

Dovremo purtroppo affrontare presto le conseguenze di tale sistema incredibilmente infragilito.

Penso che tutto questo porterà a qualcosa di molto spiacevole nel prossimo decennio. Nessuno può sapere esattamente come sarà, ma potrebbe comportare enormi quantità di inflazione e una crescita economica lenta, nota sfortunatamente come stagflazione. Questo è già successo nel passato, ma stavolta potrebbe essere molto peggio, a causa della quantità eccessiva di debito e dell’effetto incontestabile dell’instabilità sociale creata dal disagio, ma soprattutto dalla perdita di speranza, in larghe fasce della popolazione occidentale. Riscontriamo comunque che è il sistema che è in discussione, infatti anche in Cina, dove la Banca Centrale è governata dallo stato e dove non si può negare che non vi sia crescita economica, assistiamo ad un fenomeno di forte disoccupazione giovanile concentrata nel segmento dei giovani con livelli di studio superiori.

Alcune persone pensano che le monete stabili digitali saranno in grado di risolvere molti problemi. Altri sostengono che le nazioni possano stampare quantità infinite di denaro a condizione di produrre abbastanza beni per pagare gli interessi sul debito che il governo deve alle banche centrali. La tesi, in questo caso, è che il debito non debba mai essere rimborsato, ma sia solo necessario pagarne gli interessi. Difficile commentare sulla bontà di una soluzione o di un’altra: non credo che nessuno possa farlo, non essendo mai state messe alla prova. Ma se non cambia il modello dentro cui è organizzata l’economia, quindi la nostra vita, sarà impossibile non portare alle estreme conseguenze questo treno che corre verso un burrone.

Si può stampare denaro, ma non si può stampare benessere.




LA DOLCE GABBIA DELLA TECNOLOGIA di Paolo Cleopatra

GOVERNO DEL CAPITALE FINANZIARIO: LA DOLCE GABBIA DELLA TECNOLOGIA Central Bank Digital Currency, ovvero la perdita del possesso 

Parte seconda

Alla fine del mese di agosto 2023 il summit delle nazioni BRICS, che si terrà in Sud Africa, lancerà una nuova piattaforma digitale, attraverso cui i membri del sistema potranno eseguire scambi tra loro. In futuro, essa potrebbe anche erogare una moneta unica, una sorta di sovra-moneta parallela a quella utilizzata nei loro rispettivi paesi.

Questa nuova moneta non sarà disponibile ai cittadini per le normali transazioni, ma sarà utilizzata unicamente dai governi e dalle principali banche ed entità finanziarie dei singoli stati per commerciare tra loro senza l’obbligo di dover usare il dollaro. Inizialmente, quindi, per le transazioni non governative o bancarie si continuerà ad usare la moneta attuale, anche se pian piano verrà sempre più incentivato l’uso di quella elettronica, ovvero CBDC, Central Bank Digital Currency. Sarà un tipo di valuta digitale centralizzata. Questa definizione racchiude in sé la natura dello strumento e la sua struttura organizzativa con limiti e prerogative.

Al momento vi sono molteplici perplessità, non è chiaro il punto di arrivo della trasformazione in atto e a cosa potrà portare negli anni futuri nella comunità dei BRICS.

L’India, membro importante ed economia in forte crescita per i prossimi anni al pari di altre economie, non pare disposta a rinunciare alla propria rupia. La Cina, altra realtà che insieme all’India totalizza circa il trenta per cento della popolazione globale, pare essere per storia, dimensione, cultura ed economia la nazione a forte vocazione egemonica in questo contesto.

Il rublo digitale è già stato annunciato recentemente e già la Cina dispone di uno yuan digitale. Brasile e India stanno anch’esse lavorando per lanciare le loro valute digitali e lo stesso vale, come oramai largamente pubblicizzato, sia per l’UE che per gli USA.

La Federal Reserve ha infatti lanciato lo scorso mese una prova per dodici settimane della propria CBDC, a cui partecipano varie istituzioni finanziarie come Mastercard, Citibank, HSBC e Wells Fargo. La piattaforma di nome FedNow è l’infrastruttura digitale programmabile con cui gestire il sistema che consentirà il futuro lancio del dollaro digitale, anche se al momento servirà solamente per transazioni tra Istituzioni.

È evidente come tutti i blocchi economici mondiali stiano lavorando per la trasformazione della moneta fisica, oggi di proprietà esclusiva del portatore, in uno strumento nuovo dai risvolti inediti.

Cerchiamo qui di seguito di esaminare le caratteristiche della versione privata delle CBDC, vale a dire quelle che saranno riservate a noi come privati cittadini e che potrebbero influenze i nostri diritti ed i nostri doveri.

Stiamo parlando di qualcosa che rappresenta il cambiamento più significativo per il concetto di denaro in tutta la storia dell’umanità. Senza timore possiamo affermare che le nostre vite e le nostre abitudini saranno cambiate per sempre in modo radicale.

Entriamo nel merito della questione.

Il partito dell’attuale ministro delle finanze olandese Sigrid Kaag il 26 ottobre ha presentato al parlamento una nuova serie di leggi. Questa proposta legislativa è stata pubblicizzata come freno al riciclaggio illegale di denaro e richiederebbe che tutte le banche siano costrette a tracciare e tenere registrazione di qualsiasi transazione superiore ai 100 euro. Il limite per la segnalazione, in questo momento, è fissato a circa 10.000 euro. Ciò darebbe al governo l’accesso a un’incredibile quantità di dati personali sui suoi cittadini. Si tratta di dati a cui sarebbe in grado di accedere in qualsiasi momento e senza specificarne le ragioni in assenza di alcun tipo di mandato giudiziario.

Dall’altra sponda dell’oceano, l’amministrazione Biden sta cercando di far passare nuove leggi che ridurrebbero la soglia per la segnalazione bancaria da $ 10.000 a soli $ 600. Questo ha attirato critiche importanti ed è stato definito un mandato di perquisizione su vastissima scala senza bisogno del consenso di un giudice. A difesa della proposta il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, ha cercato di sminuire queste preoccupazioni suggerendo che gli americani non hanno nulla di cui preoccuparsi. Questo solleva alcune domande. Se si tratta solo di poche informazioni, perché il governo le vuole a tutti i costi? Ma in ogni caso, cosa succederebbe se il governo non avesse solo accesso alle transazioni oltre un certo limite di spesa, ma potesse vedere tutto illimitatamente?

È proprio qui che le CBDC entrano in scena. Assomigliano alle criptovalute, ma laddove la maggioranza delle criptovalute è decentralizzata e privata, le CBDC sono esattamente l’opposto. Una CBDC è completamente posseduta e controllata dal nostro governo che terrà quindi il nostro portafoglio, i nostri soldi, e avrà accesso a tutti i nostri dati finanziari, comprese le informazioni su ciascuna transazione nella nostra vita quotidiana.

Queste nuove valute renderanno anche obsolete le banche o il concetto di banca così come lo abbiamo vissuto sino ad oggi. I tipici servizi bancari, che nel corso degli ultimi anni si sono sempre più digitalizzati, non sarebbero più necessari. Il nostro conto e il nostro portafoglio sarebbero direttamente nelle mani del governo.

Ricordando la famosa finestra di Overton, potremmo dire che solo un paio di anni fa le CBDC erano considerate ipotetiche e irrealizzabili, ma oggi sono realtà.

Valute digitali analoghe sono già state lanciate appieno in undici paesi. E secondo il sistema di tracciatura dell’Atlantic Council, 112 nazioni in tutto il mondo sono in una fase di implementazione delle CBDC. In altre parole, molto presto una qualche CBDC arriverà anche nelle nostre tasche. Sembra che stiano tutti parlando la stessa lingua e dicendo le stesse cose. I maggiori centri di potere mondiali, infatti, lanciano il medesimo messaggio a reti unificate: sicurezza, tranquillità, facilità ed inclusione.

Il Primo Ministro del Regno Unito Rishi Sunak, nel suo precedente ruolo di ministro delle finanze ha detto che le CBDC sono una nuova forma di denaro che favorisce la sicurezza e l’inclusione (di chi e in che modo è tutto da dimostrarsi); la Federal Reserve statunitense afferma che la CBDC sarebbe la forma di denaro più sicura disponibile e offrirebbe un miglioramento della sicurezza rispetto all’attuale sistema monetario. Il Fondo Monetario Internazionale dichiara inoltre che le CBDC offrirebbero maggiore tranquillità e molta meno volatilità rispetto alle criptovalute attualmente disponibili. Il World Economic Forum ritiene che le CBDC contribuiranno a promuovere l’inclusione finanziaria in tutto il mondo, oltre che fornire maggiore sicurezza e protezione riducendo la criminalità finanziaria.

Purtroppo, però, l’introduzione di una CBDC rappresenta una fondamentale cessione di sovranità che consentirebbe al nostro governo di tracciare quasi tutto ciò che facciamo, cosa acquistiamo, quando lo acquistiamo e da chi lo acquistiamo. In altre parole, darebbe ai nostri governi una quantità di potere che non hanno mai avuto nella storia dell’umanità. Come se non bastasse, la parte più preoccupante non è solo che avrebbero accesso a tutti i nostri dati finanziari, ma il fatto che una CBDC è per definizione programmabile.

I nostri soldi e il modo in cui potremo utilizzarli potrebbero essere quindi programmati in modo da consentirci di spenderli solo per determinati prodotti approvati e impedirci di acquistarne altri. Potrebbe essere qualcun altro a decidere quali prodotti sarebbero essenziali. Potrebbe venir posto un tetto massimo oppure una scadenza temporale, avere un limite di spesa giornaliero oppure entro un certo lasso di tempo. Ricordiamo i recenti e ripetuti stati di emergenza che sono perdurati nel nostro paese almeno due anni.

È importante capire come queste azioni potrebbero diventare una realtà quando le CBDC entreranno nelle nostre vite. Un altro modo molto plausibile in cui una CBDC potrebbe essere utilizzata per controllare come usiamo il nostro denaro è di abbinarlo alla nostra produzione di anidride carbonica. Sappiamo tutti che il nostro mondo è diventato ossessionato dalle emissioni di anidride carbonica, e che, molto presto, la maggior parte di noi avrà un limite personale relativo a quanta ne potrà produrre.

Esso è in fase di collaudo e si parla di applicarlo in molte nazioni della Terra. La CBDC metterebbe nelle mani del nostro governo l’intera cronologia dei nostri acquisti e, in tal modo, potrebbe anche calcolare il nostro consumo di carbonio. Oppure, invece di impedirci di acquistare questi articoli, potrebbero semplicemente multarci per la produzione di CO2 in eccesso. E poiché saranno già padroni del nostro denaro, le multe sarebbero automaticamente prelevate dal nostro conto. È importante ricordare cosa è stato fatto pochi mesi fa in Canada da Justin Trudeau durante la rivolta dei camionisti contro il Governo.

In Cina, dove una versione di CBDC è già attiva, i punteggi di credito sociale di ogni singola persona sono collegati ai rispettivi conti bancari. Questo è il regime che il governo cinese ha già imposto su oltre 23 milioni di persone. La maggior parte di noi non vive in Cina ma in una società considerata molto aperta, libera e “inclusiva”. Questo è il motivo per cui molte persone temono l’implementazione di una CBDC, visto che i governi hanno già dimostrato un’inaudita sete di potere nei confronti dei propri cittadini.

Le implicazioni di questo cambiamento di paradigma sono considerevoli, e al netto del messaggio propagandistico che viene trasmesso ininterrottamente a suo favore non è chiaro, allo stato attuale, quali saranno le ripercussioni per la vita del normale cittadino.

Dal punto di vista storico possiamo dire che dopo l’età del baratto e la nascita della moneta come mezzo di scambio, quest’ultima abbia sempre rappresentato non solo la funzione di intermediario tra merci e persone, ma anche l’intrinseca proprietà dell’individuo che la possiede. Proprietà data dal possesso fisico che ne determina l’accumulazione, il risparmio, l’investimento o anche solo la sicurezza del soddisfacimento dei propri bisogni primari.

Se questi presupposti non sono più garantiti, ma tecnologicamente superati attraverso l’espropriazione del contenuto fisico ed in secondo luogo del valore nel tempo del denaro, il significato stesso del possesso sarà svuotato ed annullato.  Non per nulla, quest’operazione di svuotamento è iniziata con la finanziarizzazione dell’economia e la pervicace privatizzazione degli istituti bancari.

Oggi, infatti, il nostro denaro depositato presso un istituto bancario cambia automaticamente natura all’atto del deposito, divenendo da proprietà un credito verso l’istituto medesimo, credito che può anche essere perso in caso di fallimento, perché non più garantito dallo stato. Il cambiamento appare sottile, ma a ben riflettere diviene sostanziale. Attraverso la finanziarizzazione spinta dell’economia, la creazione di valore non è più dovuta ad un processo che richiede necessariamente il lavoro e la sua accumulazione, e quindi all’obbligatorietà che un titolo esprima sempre il valore rappresentato da un sottostante.

Guardando oggi al fenomeno, che ha radici lontane nel tempo, si comprende bene come la preparazione alla smaterializzazione della moneta e della sua proprietà sia già stata indotta concettualmente ad esempio attraverso le carte di credito. Oramai è solo questione di tempo per la sua completa attuazione.

La negazione della libertà è un altro degli aspetti che non viene valutato mai troppo ma che pervade un cambiamento di questa portata nella società e nella gestione della proprietà individuale. La libertà di disporre a proprio piacimento di ciò che è nostro, e magari anche di dissiparne il valore, è all’interno delle nostre prerogative di uomini liberi di agire senza costrizioni e vincoli ad un’autorità esterna che arriva a spiare atto dopo atto tutto quello che facciamo, carpendone informazioni che andranno ad alimentare il regime di controllo.

Non solo quindi potremo essere indirizzati a cambiamenti di abitudini e gesti quotidiani, ma teoricamente a tanto altro di cui al momento possiamo unicamente speculare.

Lungi dal volerci barricare dietro le abitudini del passato ed apprezzando le possibilità rese disponibili dalla tecnologia, dovremo affrontare questo cambiamento cercando di bloccare l’imposizione a paradigmi di subalternità intellettuale con strategie adeguate al nostro tempo, per cercare di conservare alcuni dei valori costitutivi dell’essere umano, quali la libertà e la dignità.




L’INCREDIBILE CASO DELLA BIS di Paolo Cleopatra

GOVERNO DEL CAPITALE FINANZIARIO: L’INCREDIBILE CASO DELLA BIS Bank of International Settlements, dal riciclaggio dell’oro nazista al controllo delle valute digitali mondiali

Entrando nel dibattito sul capitale finanziario e sulla sua rivoluzionaria ed amorale trasformazione per imporre un incontrastato dominio alla popolazione mondiale, ho ripercorso la storia della BIS, ovvero la Bank of International Settlements. Una storia dalle fosche tinte che molto ci parla delle metodiche utilizzate.

La maggioranza delle persone purtroppo ricorda solo i nomi d’alta risonanza come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, ma noi parleremo della BIS, che ha sede nella città svizzera di Basilea e che è sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale.

Il suo nome, italianizzato in “Banca dei Regolamenti Internazionali”, non ci rivela molto della sua natura reale e di ciò che essa pare essere divenuta al giorno d’oggi.

Per capire il potere di questa istituzione è sufficiente dire che si tratta di una pseudo “banca centrale delle banche centrali”, punto di coordinamento per tutte le maggiori banche centrali del pianeta.

In base alla Convenzione dell’Aia, la BIS con tutti i propri beni e immobili è immune da qualsiasi interferenza, sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Nessun governo può espropriarla né requisire, sequestrare o confiscare i suoi beni o può proibirle di importare ed esportare valuta e metalli preziosi come l’oro, né adottare, in definitiva, qualsiasi misura restrittiva nei suoi confronti.

Oggi, in base agli accordi stilati con il governo svizzero, i dipendenti e i dirigenti della BIS godono di un particolare stato diplomatico che permette loro di conservare e trasferire informazioni completamente segrete senza dover rendere conto a nessuno e di ricevere stipendi che sono esentasse. La sede di Basilea si trova all’esterno della giurisdizione svizzera, come se fosse un piccolo stato nello stato. La polizia svizzera non può entrare né condurre perquisizioni, così come succede per il Fondo Monetario Internazionale negli Stati Uniti.

La BIS aspira oggi anche ad essere il centro per il futuro sistema delle valute digitali di tutte le banche centrali, le Central Bank Digital Currencies, meglio conosciute con l’acronimo CDBC.

Ripercorriamo quindi un po’ la storia di questa istituzione e di alcune delle figure che ne hanno caratterizzato la vita.

Nata nel 1930 allo scopo di incassare gli indennizzi che la Germania avrebbe dovuto pagare a seguito della Prima Guerra Mondiale, la BIS cambiò subito dopo scopo perché i menzionati indennizzi dopo un certo tempo furono sospesi e in seguito cancellati completamente.

Di fatto la creazione della BIS consentì in breve tempo la nascita del nuovo marco ed il riarmamento della Germania da parte del regime nazista, così come purtroppo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Si trasformò infatti in un centro di smistamento dell’oro posseduto dalle varie banche centrali europee e convogliato inizialmente in Gran Bretagna, poi in Germania, dopo l’occupazione dell’allora Cecoslovacchia nel 1938.

Con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, la BIS sorprendentemente rimase attiva e divenne parte integrante dell’apparato nazista. I due architetti originali della BIS nel 1930 furono il governatore della Banca d’Inghilterra, Montagu Norman, e il presidente della banca centrale tedesca Reichsbank, Hjalmar Schacht.

Nel 1934, il New York Times definì Schacht “il pilota dalla volontà di ferro della finanza nazista”.

Durante tutta la Seconda Guerra Mondiale, la BIS giocò un ruolo fondamentale nel riciclare l’oro saccheggiato dai nazisti e nel gestire acquisti all’estero anche da nazioni nemiche per conto del regime nazista. I membri fondatori della BIS furono le banche centrali di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Belgio e un consorzio di banche giapponesi. Alcune quote vennero offerte anche alla Federal Reserve statunitense, che rifiutò di partecipare direttamente ma ne trasferì l’opportunità ad alcune banche commerciali tra cui JP Morgan (uno dei suoi maggiori azionisti, peraltro!).

Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, barone e figlio di una lunga dinastia di banchieri britannici, è stato uno degli uomini più influenti al mondo. Il New York Times lo ha descritto come il supervisore dell’impero invisibile di ricchezza dei britannici. Un singolo discorso da parte sua poteva influenzare immediatamente il corso del mercato mondiale.

Hjalmar Schacht era invece un vero e proprio dittatore finanziario, a cui il governo tedesco aveva concesso pieni poteri dopo il fallito colpo di stato organizzato da Hitler a Monaco di Baviera nel 1923.

Il progetto di stabilizzazione del nuovo marco fu possibile grazie a un prestito di 25 milioni di dollari ricevuto dalla Banca d’Inghilterra in virtù dell’intervento personale di Montagu Norman, che aveva ricevuto personalmente Schacht alla fermata del treno durante il suo viaggio a Londra con lo scopo di procurarsi fondi.

Da quel punto in avanti, Schacht riuscì prima ad ottenere una rateazione e infine la completa cancellazione dei debiti della Germania nei confronti degli altri paesi vittoriosi nella Prima Guerra Mondiale.

La BIS divenne il veicolo primario per finanziare l’ascesa del regime nazista anche con la collaborazione di Allen Dulles, avvocato e partner del più grande studio legale americano dell’epoca, Sullivan & Cromwell, che aveva aperto un ufficio a Parigi nel 1930 e di cui Dulles era il direttore.

Dulles aveva lavorato per i servizi segreti americani e in seguito sarebbe diventato il primo  direttore della CIA.

Attraverso la sua conoscenza personale con Hjalmar Schacht, Dulles riuscì a combinare complesse operazioni finanziarie  portando in Germania prodotti dal tutto il mondo cosi come dagli Stati Uniti, prodotti che erano essenziali per il regime nazista e per il suo successivo sforzo bellico.

In pratica traeva profitti dal conflitto finanziando entrambe le parti, attraverso l’intermediazione finanziaria della BIS.

Nel consiglio di amministrazione del tempo della BIS troviamo :

Walter Funk, ministro dell’economia per il Terzo Reich dal 1938 al 1945 e presidente della Reichsbank, la banca centrale tedesca. Funk è stato dichiarato criminale di guerra nel Processo di Norimberga e condannato all’ergastolo, ma poi scarcerato per motivi di salute nel 1957; Emil Puhl, vicepresidente della Reichsbank; Hermann Schimtz, criminale nazista condannato a Norimberga e amministratore delegato del colosso chimico tedesco IG Farben, produttore, tra le altre cose, del gas letale usato per sterminare i prigionieri nei campi di concentramento, condannato a soli 4 anni di prigione al Processo di Norimberga; Kurt Baron von Schröder, finanziere nonché alto ufficiale delle SS. Questi fu uno dei personaggi chiave nel facilitare la nascita e salita al potere del nazismo in Germania. Venne condannato solo a tre mesi di prigione anche se dichiarato colpevole a Norimberga.

Nel 1944, i delegati europei alla conferenza di Bretton Woods raccomandarono il rapido scioglimento della BIS ma John Maynard Keynes, noto economista (propositore tra l’altro,incredibile a dirsi per l’epoca, di una sola valuta centrale mondiale, il BANCOR), vi si oppose in tutti i modi, coinvolgendo anche il segretario del tesoro statunitense Henry Morgenthau.

Con l’arrivo poi del nuovo presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, lo scioglimento fu sospeso e nel 1948 la decisione originale fu definitivamente annullata.

Da quel punto in avanti la BIS giocò un ruolo centrale nel coordinare le attività delle banche centrali europee e dell’attività finanziaria transatlantica, per poi divenire punto di governo normativo per tutte le maggiori banche centrali, ricordiamo tra le altre le direttive Basel II e Basel III.

Gli attuali membri della BIS sono 63 banche centrali nazionali, tra cui la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea, tutte le banche nazionali europee, compresa la Banca d’Inghilterra. Sorprendentemente anche tutte le banche centrali dei BRICS, vale a dire le banche centrali di Brasile, Russia, India , Cina e Sud Africa.

L’attuale presidente della BIS è il francese François Villeroy de Galhau, che è il governatore della Banca di Francia, mentre il direttore generale è Agustín Carstens, che è stato governatore della Banca del Messico.

La BIS è attualmente gestita da un gruppo di tecnocrati le cui regole, solo per ricordare, sono state definite tra il 1931 ed il 1956 dallo svedese Per Jacobsson mentre ne era importante consulente. I suoi primi rapporti annuali stilati per la BIS, infatti, sono ancora oggi importanti linee guida per tutte le tesorerie dei paesi occidentali.

Abbiamo visto un esempio di come ciò che regola lo scambio delle valute e le loro normative internazionali e nazionali sia stato, nell’ultimo secolo, progressivamente definito nel segreto più assoluto influenzando dall’esterno il potere legislativo degli Stati nazionali europei e non solo. Esso è stato posto, attraverso meccanismi complessi e falsamente migliorativi, in mano ad entità quindi da nessuno elette e fondamentalmente private. L’esempio menzionato riporta infatti quanto organizzato dal 1930 sino ad i nostri giorni ed anche durante la Seconda Guerra Mondiale.

Mentre le popolazioni combattevano strenuamente l’una contro l’altra ed i morti si contavano in milioni, esisteva un’organizzazione, fatta tra quelli che sul campo erano dichiaratamente “nemici”, che in silenzio progettava come far transitare enormi quantità di danaro da una parte all’altra del mondo e come regolamentarne i flussi e le transazioni.

Chi dirige e postula le linee programmatiche presenti e future della BIS o di qualunque altra istituzione sovranazionale è in effetti il detentore del nostro denaro e quindi della nostra stessa libertà?




LA CHIESA SI OCCUPI DELLA SALVEZZA DELLE ANIME di Francesco Centineo

In un lungo articolo dal titolo IL PAPA, L’ECOLOGISMO E GLI ANTIBERGOGLIANI dell’amico e compagno di lotta Moreno Pasquinelli leggiamo che «Nella sparpagliata fronda antibergogliana non ci sono soltanto tradizionalisti, conservatori e reazionari, albergano veri e propri controrivoluzionari, quelli che disprezzano come deleterie tutte le forme politiche della modernità (in primis democrazia e socialismo), nostalgici quindi dei regimi che furono, segnati dal sodalizio, più profano che sacro, tra trono e altare. Sparpagliata e ribelle fronda, le cui frazioni più oltranziste, difendendo lugubri profezie apocalittiche, giungono a dire che con Bergoglio l’Anticristo occupa il soglio pontificio».

Così chiosa l’amico Moreno Pasquinelli a proposito delle dichiarazione del filosofo Scandroglio che su La Nuova Bussola scrive: «Fedeli al comando di monsignor Américo Aguiar, responsabile della Gmg di Lisbona, che ha ordinato di non far cenno all’evangelizzazione durante la Gmg […] Alla desertificazione della fede hanno sostituito la desertificazione climatico-ambientale; all’inquinamento delle anime l’inquinamento di fiumi, laghi e mari; all’integrità morale l’ecologia integrale; alla salvezza eterna quella breve legata alla lotta contro il riscaldamento globale; alla conversione a Dio la conversione ambientale; ai sacramenti la raccolta differenziata e le auto elettriche; alla diversità di carismi la biodiversità; all’esame di coscienza l’autoaccusa del riscaldamento globale antropico; alle processioni le marce ambientaliste; ai venerdì di magro i Fridays for Future; al timor Dei l’ecoansia; alla Madonna, Greta Thunberg. Al culto a Dio, il culto della dea Terra. […] L’ambientalismo, anche in salsa cattolica, invece assegna una dignità personale ad animali, vegetali e cose; e così una tematica oggettivamente marginale diventa necessariamente centrale. […] Assegnando dunque alle creature non umane un valore che non hanno, l’ambientalismo ribalta l’ordine gerarchico che vede l’uomo superiore per dignità alle altre creature corporee, spingendolo in basso e accusandolo di sfruttare il pianeta. Una dinamica schiettamente satanica, dato che il diavolo può solo creare disordine, ossia invertire specularmente il valore intrinseco dei beni. Il vitello d’oro sta ora pascolando in quel di Lisbona».

Pasquinelli nel commentare tali dichiarazioni cita Wojtyła e San Francesco, i quali, ovviamente, parlavano del Creato come un qualcosa da rispettare e con cui vivere in armonia, ma mai e poi mai si sarebbero sognati di sostituire «ai sacramenti la raccolta differenziata e le auto elettriche; alla diversità di carismi la biodiversità; all’esame di coscienza l’autoaccusa del riscaldamento globale antropico; alle processioni le marce ambientaliste; ai venerdì di magro i Fridays for Future; al timor Dei l’ecoansia; alla Madonna, Greta Thunberg. Al culto a Dio, il culto della dea Terra.” giustamente Scandroglio prosegue aggiungendo che i bergogliani “Assegnando dunque alle creature non umane un valore che non hanno, l’ambientalismo ribalta l’ordine gerarchico che vede l’uomo superiore per dignità alle altre creature corporee, spingendolo in basso e accusandolo di sfruttare il pianeta. Una dinamica schiettamente satanica, dato che il diavolo può solo creare disordine, ossia invertire specularmente il valore intrinseco dei beni».

Alchè Pasquinelli interpretando tali dichiarazioni a fini politici e non dottrinali accusa il filosofo di «assolvere il vampiresco sistema capitalistico — vero responsabile, con la sua insaziabile pulsione ad accumulare profitto, dello sfruttamento dell’uomo e del saccheggio delle risorse naturali», quando è ovvio ai nostri occhi che lo Scandroglio stia invece facendo il contrario ed esattamente ciò che deve fare un credente: riportare ordine e gerarchia rispetto a ciò di cui la Chiesa si deve occupare e sollevare da colpe terrene l’essere umano che deve tornare ad adorare Dio e il Cielo e non a preoccuparsi della Terra, di quella se né occupassero i politici, i sacerdoti debbono occuparsi dell’essenza non della sostanza, ed è per questo che Scandroglio coglie il punto quando asserisce che «l’ambientalismo ribalta l’ordine gerarchico che vede l’uomo superiore per dignità alle altre creature corporee» e su questo punto dispiace che Pasquinelli non si renda conto che San Francesco piuttosto che Wojtyla sarebbero stati perfettamente d’accordo con tali dichiarazioni, in quanto “l’ambientalismo in salsa bergogliana” è postantropocentrico e nega quello che dottrinalmente è il ruolo dell’Uomo nel Cosmo, ovvero quello di “Custode della Natura”, di Pontefice tra il Cielo e la Terra, in quanto l’essere umano, ritrovata la propria centralità, il proprio spirito, la propria condizione divina (o primordiale), tornerebbe automaticamente a vivere in “armonia” con il Creato, almeno da un punto di vista “dottrinale” e “teologico”; perciò è chiaro che lo Scandroglio stia, con le sue dichiarazioni,  avversando il capitalismo e non lo stia sostenendo, ed anzi, questo rifiuto della modernità non né fa un controrivoluzionario, tutt’altro, ma né fa un vero e proprio rivoluzionario, in quanto il rifiuto della modernità coincide con il rifiuto del materialismo, quindi con il rifiuto della condizione che porta l’essere ad occuparsi solo di cose terrene, materiali e lo trasforma nel predatore che tutti oggi conosciamo, o, al contrario, lo trascina in questo senso di autocolpevolezza pseudo-moralista e lo scaraventa, appunto, in questa condizione di subalternità rispetto alla Natura della quale non solo fa parte ma ne è appunto il “Custode”.

Ma per custodire il Creato e vivere in armonia con esso, l’unica soluzione risiede nel ritrovare da parte dell’uomo moderno la propria spiritualità. L’Uomo deve tornare al Cielo e all’essenza e perciò in tutto questo la Natura e l’ambientalismo non possono che avere un ruolo secondario, contingente e marginale per un’autorità spirituale come dovrebbe essere quella della Santa Romana Chiesa.

Un ultimo appunto che facciamo con simpatia, stima ed affetto al compagno Moreno: carissimo Moreno comprendiamo il senso di ciò che dici e possiamo anche in parte condividerlo ma il problema è a monte, in quanto tu da comunista (bravo comunista!) quale sei, non puoi accettare il punto di vista dottrinale, e caro Moreno, fattelo dire, non si può essere cattolici senza accettare la dottrina. In definitiva, caro Moreno la fede e la religione sono una cosa, la politica un’altra, non dovresti mischiare i due aspetti! E Scandroglio ha ragione: la Chiesa deve occuparsi dell’anima non del corpo! Quanto alle accuse di malthusianesimo e luteranesimo riteniamo che qui l’abbaglio sia gravissimo ed irrispettoso, ma soprattutto fuori luogo oltremodo e maniera, in quanto nessun cattolico potrà mai essere né malthusiano, né tanto meno luterano e queste sono verità assiomatiche per cui dissentiamo totalmente dal giudizio del Pasquinelli.




WAGNER: TEORIA E PRASSI DELLA CONTRORIVOLUZIONE RUSSA di OG

E’ nota la nostra posizione sul conflitto in corso in Ucraina, come lo è la nostra condanna della cosiddetta “Marcia della Giustizia” messa in scena dalla Wagner. Malgrado le differenze con l’autore dell’articolo, volentieri pubblichiamo questa sua inchiesta sulla Wagner e le ragioni dello scontro con Putin.

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«Definirei la Marcia della Giustizia di Wagner un iniziale progetto neo-cosacco di autentica Controrivoluzione russa, anche sul piano ideologico e sociale e di costruzione statale…Prigozhyn è solo il volto visibile di questi cosacchi “bianchi”……è il volto politico, non è l’atamano, in Wagner comanda una ristretta cerchia militarista….Il richiamo al 1917 di Putin non inquadra bene il fenomeno di neo-cosacchismo antirivoluzionario ma ci fa può far cadere in errore di analisi». [Semyon Uralov, politilogo russo, 28 giugno 2023, “Sputnik Mbank”]

La dottrina militare  wagnerita e il problema strategico della sicurezza nazionale russa

Nel corso degli articoli che scrissi ormai almeno due anni fa per il presente Blog, ritenevo che l’elite nazionalista e neo-liberista dei wagneriti, chiamati anche “i musicisti” o “l’orchestra” dai russi, avrebbe inevitabilmente alzato la testa contro la frazione oligarchica più potente a Mosca, quella del capitalismo di stato con tendenza ideologica internazionalista e eurasiatista ben rappresentata dalla Difesa e dallo stato maggiore; nel dicembre 2021 ritenevo scrivendo su questo blog che la Russia avrebbe rotto il fronte ukraino e con ciò vedevo mettersi in moto anche la chiara possibilità di un’offensiva interna della fazione nazionalista-cristiana grande russa contro quella internazionalista, capitalista di stato e eurasiatista che propugna l’esigenza prioritaria dell’alleanza strategica tra Mosca e Pechino. Tutt’ora la partita è in corso, come si è visto il fine giugno scorso con l’insurrezione nazionalista wagnerita “marcia per la giustizia”.

Se il Presidente Putin ha di fatto vinto il conflitto strategico con i Democrats bideniti, con l’Unione Europea e in gran parte con lo stesso ultra-nazionalismo ukraino, si è però aperto per lui un fronte interno molto pericoloso. Fronte interno aperto appunto dai “musicisti”; non è sul campo solo la volontà di autonomia dei reparti wagneriti dal ministero della Difesa, ma è anche la dottrina della Sicurezza nazionale a distanziare la fazione wagnerita dai “neo-bolscevichi” degli apparati dello stato profondo russo.

Che cosa vuole la Wagner? E’ ormai diffuso in tutto il mondo un agile e importantissimo saggio che è un po’ una sorta di vangelo dell’ideologia nazionalista wagnerita “Io, comandante di Wagner”; per quanto l’autore – Marat Gabidullin – abbia da anni preso le distanze dalla compagnia militare privata Wagner, il valore storico del documento è eccezionale e dovrebbe bene rispecchiare lo spirito wagnerita.  Dmitrij Utkin, ufficiale del GRU e storico comandante di brigata dalla prima operazione militare wagnerita, quella del 2014 in supporto al neo-zarista Strelkov che finirà per restituire alla madrepatria la Crimea e il Donbass (sui wagneriti continua peraltro a gravare in quel contesto l’ombra dell’omicidio dell’importante figura del tenente colonnello di Lughansk Aleksandr Bednov, ucciso l’1 gennaio 2015, critico da posizioni internazionaliste e eurasiatiste del nazionalismo russo e politicamente vicino all’ultrasinistra di Mozgovoy, anche lui nemico dei wagneriti e anche lui ucciso il 23 maggio 2015), ha delegato nel corso degli anni il ruolo di volto presentabile, opinon maker e impresario finanziario economico al più noto propagandista E. Prigozhin. Utkin compare nel saggio di Gabidullin come Beethoven e come l’unico vero leader della compagnia militare privata Wagner.

L’originaria ideologia wagnerita rimanda chiaramente e assai esplicitamente all’estremismo della destra nazionale slava antisemita e antigiudaica, da qui il proliferare di articoli anche su riviste specializzate occidentali, come ad esempio “Domino”, sul neofascismo dell’orchestra. In realtà, nel corso degli anni, l’elite wagnerita ha tentato di modernizzare un modello di tradizionale e coerente nazionalismo russo e di decisivo superamento del paganesimo panslavo della Rodnoveria (“fede nativa”) militarizzando il patriottismo e la religione cristiana russa; in questo senso si colloca chiaramente alla destra del Cremlino, si percepisce affine alle correnti più tradizionaliste dell’Ortodossia del patriarcato cristiano di Mosca, ma per quanto rivendichi la continuità ideologica con i Controrivoluzionari dell’armata volontaria bianca prenderà anche le distanze dal neo-zarismo reazionario di uno Strelkov, che rimane agli occhi dei wagneriti ingabbiato dentro un internazionalismo eurasiatista che è estraneo all’antipolitica militarista, identitaria e nazionalista dei “musicisti”.

Anche la dottrina militare della Wagner pare risentire fortemente di tale impulso volontarista, prendendo apertamente le distanze non solo dalle recenti dottrine militari americana o cinese, per le quali ai tre tradizionali ambiti conflittuali: terra, aria, mare si sono ora aggiunte la dimensione cognitiva (con tanto di guerra climatica), quella subterrestre e quella extraterrestre, ma distanziandosi anche dalla strategia di Gerasimov, arrivando alla aperta derisione del concetto di filosofia della guerra non convenzionale elaborata dalla Difesa di Mosca e all’attacco continuo e aperto verso “il corrotto e oligarchico statalismo neo-sovietico” vigente con Shoygu. A tale modello la compagnia militare privata oppone apertamente un impianto di evidente radice liberista e ultra-nazionalista basato sulla redistribuzione del sovraprofitto oligarchico e statalista a vantaggio di soldati, agricoltori e piccoli e medi imprenditori. Per i wagneriti guerreggiare significa solamente uccidere o morire per la “santa Russia”: non vi sarebbero alternative né scappatoie; da qui il tragico esempio di autentico terrore di guerra talvolta esibito dai wagneriti, nonostante a loro parziale giustificazione potrebbe essere portato il fatto di essersi trovati costantemente di fronte combattenti addestratissimi e pronti a tutto come quelli di ISIL o dell’ukraino estremista russofobico AZOV.

La stessa retorica sulle circa 2.000 testate nucleari tattiche che la “guerra di nuova generazione” della Difesa utilizza non tanto per la deterrenza ma per la compellence aggiornando così la Dottrina Primakov solleva l’ilarità dei miliziani dell’orchestra che accusano i generali e i giovani figli degli oligarchi moscoviti di trovare tutti i modi — anche lo spauracchio nucleare — per non fare la guerra di trincea. Noto un brano rap wagnerita, “combattiamo in tutto il medioriente per salvare il cristianesimo”, dove si accusano proprio i figli degli oligarchi e dei generali di Mosca di vivere come globocrati, non come veri russi cristiani pronti in ogni momento a dare il sangue per la madrepatria e per il Cristo ortodosso; i brani più ideologici sono perciò quelli di Lik Dmitry come “Sangue onore patria coraggio” per cui il martirio finale per la madrepatria redimerebbe anche una vita all’insegna della cattiva morale (“I cuori coraggiosi stanno bruciando, c’è un giuramento nella coscienza, andiamo in battaglia sino alla morte…”) ma il più noto e diffuso è senz’altro quello della nota cantante russa Vika Tsyganova — Wagner — che mescola elementi di mitologia pagana e di cristianesimo ortodosso (“Membri dell’orchestra soldati della Russia..i nostri caduti i nostri santi (sono)… L’ Esercito celeste di Dio”).

Al di là delle canzoni e della retorica apologetica nel corso di poco più di un anno la Wagner ha perso sul fronte ukraino su un effettivo di 78 mila combattenti inviati ben 22 mila soldati e 46 mila sarebbero prigionieri; in varie zone della immensa Russia già vi sarebbero 9 cimiteri wagneriti, circa 4 mila caduti lì avrebbero trovato in questi mesi cristiana sepoltura. Numeri da far impallidire ogni stima e confronto. Del resto in un documento interno e riservato trovato in Mali e divulgato dalla BBC l’elite wagnerita scriveva che alla base di ogni operazione militare vi deve essere “il senso continuo di martirio perché la grande Russia possa continuare a vivere quando ognuno di noi non ci sarà più”.

Nella foto: Mali Gennaio 2022: dopo la vittoria dei nazionalisti antimperialisti del Comitato di salvezza popolare di Assimi Goita, il popolo maliano ringrazia i wagneriti per aver iniziato a ripulire finalmente l’Africa dal terribile peso del colonialismo razzista europeo. Nel fronte del Mali i wagneriti hanno affrontato i jihadisti, talvolta riportando la peggio, talvolta difendendosi con coraggio ma saranno poi accusati dalla comunità internazionale di gravissimi crimini di guerra.

L’attacco al putinismo e il futuro della Russia

L’ultra-nazionalismo grande-russo quale unico elemento decisivo della compagnia militare privata era emerso dalla testimonianza di Gabidullin, in cui l’unica organizzazione che ne usciva bene, oltre naturalmente a quella di Utkin, era proprio lo Stato Islamico — ISIL in russo — affrontato solamente dai mercenari del nazionalismo grande-russo senza timore, ma al tempo stesso ammirato da questi ultimi per il suo “idealismo religioso” — a differenza del machiavellico e calcolatore esercito di Assad.

Scriveva il Nostro (p. 169) che «Lo Stato Islamico non era l’esercito di…. Assad….Era un avversario forte, estremamente organizzato, disciplinato, sprezzante nei confronti della morte. Gli appelli alla guerra santa e al califfato universale avevano attirato un gran numero di uomini che dovevano prepararsi a sacrificare la loro vita senza tante storie. Senza ostinarsi nell’offensiva, attaccavano con coraggio e passione, mandando avanti i kamikaze. In difesa…ci costringevano di continuo ad anticipare il contrattacco su più lati in simultanea». In più casi, con ammirazione esplicitata senza remore e senza falsità, venivano ricordati i guerrieri del califfato musulmano che alla fine opponevano di continuo “una resistenza disperata” agli avanzanti wagneriti (p. 281) nonostante lo scarso equipaggio, mentre venivano costantemente presi di mira sia l’ oligarcato neosovietico moscovita sia il baathismo della famiglia Assad per i loro accordi politici e per la spartizione indolore di zone petrolifere proprio con quei jihadisti dello Stato Islamico che uccidevano, appena potevano, i ragazzi della compagnia militare privata Wagner.

Tutto ciò che rimaneva nei mercenari dopo tanto sangue dato e sparso, dopo tanta orribile e nauseante violenza era la nostalgia irriducibile ed insopprimibile per la Russia eterna, oltre gli zar, oltre i bolscevichi, anche oltre quelle armate bianche e monarchiche da loro tanto amate, oltre Vladimir Putin….«Quella riunione spontanea è durata per tutto il giorno, gli scambi di battute e le facezie hanno gradualmente lasciato posto a conversazioni più meditate sulle questioni militari. Poi è scesa la notte. Come sempre lì, il giorno cede rapidamente all’oscurità: il crepuscolo è fugace. Le discussioni si sono esaurite da sole. Ognuno si è immerso nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, che guardavano lontano, verso il nord, là dove si stendeva una grande Nazione, con tutti i suoi eterni problemi, ma che era pur sempre la nostra eterna patria. Là c’erano i nostri amici, i nostri genitori, le nostre mogli, i nostri figli. Le albe e i tramonti, la taiga infinita, il lago Baikal, le pianure della Russia centrale e le foreste degli Urali, il miele della Baschiria, la vodka e tante altre cose a cui pensavamo con nostalgia».

Come si è visto, ulteriore esempio di questi giorni, con la campagna “africana” dei mercenari dell’ultra-nazionalismo russo, il Cremlino non può fare a meno delle operazioni della compagnia militare privata; al tempo stesso il Presidente Vladimir Putin continua a dare fiducia alla filosofia della guerra non convenzionale, neo-sovietica, della coppia Gerasimov-Shoygu. Il Cremlino non sembra voler sciogliere l’equivoco a-strategico tra un nazionalismo militarista neo-liberista e a tratti populista al quale il legame strategico con il “partito comunista” di Xi Jinping inizia a stare davvero stretto o un neo-stalinismo adeguato ai tempi e multipolare per cui, come detto, la relazione speciale con Pechino sarebbe decisiva. Per quanto le tesi complottiste che volevano, nel giugno 2023 nei momenti precedenti la “marcia della giustizia”, i wagneriti e talune frazioni del GRU coordinarsi con la CIA siano fuori da ogni realtà e del tutto fuorvianti è però un fatto che l’elite wagnerita abbia relazioni storiche con l’Academi-Blackwater (Cfr.  https://www.constellis.com/) del nazionalista trumpiano americano Erik Prince come è un fatto che fazioni della destra ideocratica controrivoluzionaria dell’ortodossia siano particolarmente vicine a fazioni della destra cristiana americana, che supportano gli esponenti più conservatori e antiglobalisti del partito repubblicano statunitense.

La questione Wagner da questione interna russa rischia perciò di divenire una questione di politica di guerra mondiale in cui siamo ormai avviati. Il ‘900, secondo Nolte, fu il secolo della guerra civile mondiale ideologica tra i rivoluzionari leninisti internazionalisti e i contro-rivoluzionari nazionalisti borghesi o piccolo-borghesi; questo secondo la visione dell’ultra-nazionalismo russo, radicato ben oltre l’ideologia dell’orchestra nella società civile russa, non sarà il secolo del conflitto geopolitico tra terra (Eurasia) e mare (Occidente) ma del conflitto culturale tra internazionalismo mondiale planetario e nazionalismo cristiano resistente e controrivoluzionario.

In tale ottica potrebbe essere preferibile per il tradizionalismo ortodosso un’alleanza tattica con il nazionalismo cristiano americano che regoli i conti con la Silicon Valley e con Davos ad un impulso internazionalista e globale che provenga dalla confinante Cina. Un documento ideologico diffuso dai wagneriti in Donbass era significativamente intitolato “Noi siamo la Contro-rivoluzione russa” (мы русская контрреволюция песня Вагнера); come già specificato il legame con le fazioni e con le tendenze più tradizionaliste del cristianesimo russo è un elemento che nella logica interna farà sicuramente la differenza nel prossimo futuro.

Più che alle correnti filonaziste del neopaganesimo russo o a quelle di rigida obbedienza neo-zarista più affini a Strelkov, come si continua a fare in occidente, i wagneriti andrebbero invece rivisti alla luce della tradizione di quel nazionalismo ortodosso d’estrema destra, che nel corso degli anni più vicini a noi ha sempre indicato in Yury Budanov [1] il simbolo più alto dell’identità della Russia più profonda e di quella sparuta minoranza di eroi russi che avrebbe salvato la patria nel momento del massimo pericolo e del massimo caòs, eroi che sarebbero stati prima mandati allo sbaraglio nell’infernale macello ceceno poi infine machiavellicamente scaricati dallo stato maggiore e dallo stesso Cremlino putiniano, il cui accordo con i Kadirovcy è stato sempre in fondo mal tollerato dai patrioti ed è tuttora mal tollerato dagli stessi wagneriti. La stessa postura sociale assunta dal portavoce politico dei “musicisti” Prigozhin, di difesa estremista e demagogica, neoliberista, della piccola borghesia russa contro il gruppo di pressione industriale-militare (“la casta” del capitalismo statale), potrebbe avviare la nascita di un movimento nazionale popolare destinato a giocare un significativo ruolo nella Russia post-putiniana.

Pubblicità di una mostra religiosa eseguita nel centro Wagner di S. Pietroburgo; “Stiamo combattendo per Cristo e per i nostri monasteri ortodossi” ( Marzo 2023)  il titolo della mostra.

In definitiva, in un mondo che rischia pericolosamente, ben di più che durante la guerra fredda, di affogare nella terza guerra mondiale si stanno contrapponendo nel contesto russo due scuole strategiche: i controrivoluzionari wagneriti rimettono al centro la strategia isolazionista delle guardie volontarie antimarxiste bianche e dei cosiddetti “Centoneri” in una logica di resistenza difensiva e ultra-nazionalista a oltranza, non imperiale ma neutralista tra Oriente e Occidente, mentre gli apparati statali della Difesa, considerati dai wagneriti neo-sovietici, internazionalisti e staliniani, dunque anti-nazionalisti, puntano anzitutto all’integrazione russa nel più grande spazio imperiale eurasiatico. Se per questi ultimi, siano essi neo-stalinisti o conservatori ortodossi, la centralità russa si gioca nella consegna del passaggio del potere mondiale alla Cina “socialista”, per i Controrivoluzionari della Wagner la centralità russa riporta al centro quella logica neo-isolazionista della Russia fortezza, etnicamente e socialmente identitaria che dovrebbe per ciò restare lontana da eccessivi passi imperiali. Tale linea isolazionista e nazionalista costituisce una importante scuola di pensiero nel pensiero strategico russo, che va dall’ammiraglio e ministro protoslavofilo Siskov, assolutamente contrario a marciare verso occidente dopo la liberazione dall’invasione napoleonica, sino al pensatore neo-slavofilo Solzenicyn, che negli ultimi anni di vita formulò una vera e propria dottrina strategica di sicurezza nazionale basata sul rifiuto da posizioni di “nazionalismo-etnico” di occidentalismo e neo-asiatismo cinese in nome della identità russa originaria. Il pericolo più grande di questi tempi per lo scrittore del capolavoro “Una giornata di Ivan Denisovic” era rappresentato dall’inverno demografico russo, per questo invitava la classe dirigente putiniana a rafforzare strategicamente il nazionalismo identitario mistico e ortodosso come unico antidoto all’espansionismo della Nato da occidente, della Cina “socialista” da Oriente; invito in fondo non molto differente da quello arrivato con la wagnerita e controrivoluzionaria “marcia della giustizia” dello scorso giugno.

Come ha scritto l’ideologo nazionalista E. Cholmogorov, il Kathèkon, l’idea di trattenere l’anticristo, sarebbe oggi lo stivale militarista pan-russo che ripristina l’ordine e il silenzio per almeno un po’ di tempo chiudendo con violenza la botola da cui uscirebbero vampiri, lupi mannari, assassini; la militarizzazione della religione cristiano ortodossa russa e del nazionalismo russo nel contesto della dottrina della sicurezza nazionale e di un nuovo governo liberista e di ideocrazia cristiana integrale fondata su un nazionalismo sacrificale, radicalmente antiglobalista, molto più di quanto lo sia stato il putinismo centrista ad esempio, è probabilmente il nuovo ambito di pertinenza della Wagner ben oltre quell’etichetta di neo-paganesimo che gli specialisti occidentali continuano a cucirgli addosso.

NOTE

[1] Yuri Budanov è stato un ufficiale dell’esercito russo nato nel 1963 e ucciso il 10 giugno 2011. Budanov rimane una figura molto controversa in Russia; condannato da un tribunale russo per presunti crimini di guerra in Cecenia, è considerato un vero e proprio eroe nazionale abbandonato dai vertici militari per la gran parte delle famiglie russe. Durante la condanna e ancor più dopo la morte Budanov è divenuto un simbolo sia per le correnti nazionali russe che per le fazioni più conservatrici dell’Ortodossia russa. Cfr. “La terra è orfana” (senza Budanov) canzone nazionalista di A. Chikunov https://www.youtube.com/watch?v=8vCF8ocTQIo; A. Harchikov, Budanov eroe russo, canzone nazionalista; https://www.youtube.com/watch?v=L-l6RGj2zT0HYPERLINK “https://www.youtube.com/watch?v=L-l6RGj2zT0&t=2s”&HYPERLINK “https://www.youtube.com/watch?v=L-l6RGj2zT0&t=2s”t=2s;

funerali di Budanov, Mosca 13 giugno 2011 – https://www.youtube.com/watch?v=s04bLazVw6M – in cui il nazionalista Zhirinovsky (Partito liberaldemocratico russo, LPDR) è l’unico esponente istituzionale che si reca a rendere l’ultimo saluto patriottico al defunto Budanov, oltre ai vecchi commilitoni e a altri militari, mentre nessun esponente del putiniano Russia Unita si presenta ai funerali.

Khimki, Cimitero Novoluzhinsky, Yury Budanov




IL PAPA, L’ECOLOGISMO E GLI ANTIBERGOGLIANI di Moreno Pasquinelli

«Laudato sie mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significazione». San Francesco

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Una sterminata folla di giovani ha concluso gaudente la GMG (Giornata Mondiale della Gioventù). Pur dentro la sua crisi esistenziale, la Chiesa cattolica ha messo in scena una formidabile prova di forza, a dimostrazione, semmai ce ne fosse stato bisogno, che con essa bisogna ancora fare i conti.

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Il grande filosofo Augusto Del Noce amava definirsi un cattolico tradizionalista, precisando che ciò non significava né conservatore né tantomeno reazionario. Nella sparpagliata fronda antibergogliana non ci sono soltanto tradizionalisti, conservatori e reazionari, albergano veri e propri controrivoluzionari, quelli che disprezzano come deleterie tutte le forme politiche della modernità (in primis democrazia e socialismo), nostalgici quindi dei regimi che furono, segnati dal sodalizio, più profano che sacro, tra trono e altare. Sparpagliata e ribelle fronda, le cui frazioni più oltranziste, difendendo lugubri profezie apocalittiche, giungono a dire che con Bergoglio l’Anticristo occupa il soglio pontificio. Le più moderate sostengono che protestantesimo e modernismo l’hanno oramai avuta vinta. Un giudizio categorico le accomuna tutte: il Concilio Vaticano II è stato un evento catastrofico, sia per i mutamenti liturgici che teologici.

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Il primo degli Incontri Preparatori svoltosi in Portogallo ha avuto questo titolo “Ecologia integrale: la cura per l’altro e per l’intero creato”. Leggiamo nel sito ufficiale della GMG:

«Riflettiamo sulle risorse del pianeta e su cosa lasciamo alle generazioni future. Prendersi cura della casa comune implica riflettere sulla dimensione umana e sociale. L’ecologia integrale è inseparabile dalla nozione di bene comune. […] Un’ecologia integrale richiede tempo per ritrovare una serena armonia con il Creato, riflettere sul nostro stile di vita e sui nostri ideali, contemplare il Creatore. Tutto è collegato. L’esistenza umana riposa su tre pilastri fondamentali: la relazione con Dio, con gli altri e con la Terra. […] Prenditi cura della nostra casa comune! Ora!».

E’ cosa nota quanto a fondo il pontificato bergogliano abbia condiviso il racconto catastrofista del cambiamento climatico e di conseguenza la salvifica transizione energetica (fino al sostegno al Green Deal targato Ue). Questa condivisione — che è solo uno degli aspetti del sostanziale accodamento della chiesa cattolica nei confronti dell’élite globalista dominante: non si dimentichi che nel rispetto della psico-pandemia sono state chiuse le chiese e si è impedito ai sacerdoti di amministrare i sacramenti —, è stato condannato da alcune delle queste agguerrite minoranze cattoliche ribelli non solo come errore politico anche come satanica perversione teologica.

E’ il cattolicissimo filosofo Tommaso Scandroglio a sferrare l’attacco più violento (di fatto di paganesimo) contro la bergogliana “Ecologia Integrale”:

«Fedeli al comando di monsignor Américo Aguiar, responsabile della Gmg di Lisbona, che ha ordinato di non far cenno all’evangelizzazione durante la Gmg, ecco che i giovani parleranno, ascolteranno e discuteranno di riscaldamento globale, scioglimento dei ghiacciai e condizionatori. Alla desertificazione della fede hanno sostituito la desertificazione climatico-ambientale; all’inquinamento delle anime l’inquinamento di fiumi, laghi e mari; all’integrità morale l’ecologia integrale; alla salvezza eterna quella breve legata alla lotta contro il riscaldamento globale; alla conversione a Dio la conversione ambientale; ai sacramenti la raccolta differenziata e le auto elettriche; alla diversità di carismi la biodiversità; all’esame di coscienza l’autoaccusa del riscaldamento globale antropico; alle processioni le marce ambientaliste; ai venerdì di magro i Fridays for Future; al timor Dei l’ecoansia; alla Madonna, Greta Thunberg. Al culto a Dio, il culto della dea Terra.

La Gioventù del Littorio Ambientalista, di verde vestita, è pronta dunque a farsi convertire, anzi a farsi pervertire. Infatti l’ambientalismo c’entra con il cattolicesimo come Al-Qāʿida c’entra con la pace nel mondo […]

L’ambientalismo, anche in salsa cattolica, invece assegna una dignità personale ad animali, vegetali e cose; e così una tematica oggettivamente marginale diventa necessariamente centrale, anche per riempire un vuoto di contenuti palese nella pastorale della Chiesa dato che il proprium dottrinale cattolico è stato pressoché cancellato. Assegnando dunque alle creature non umane un valore che non hanno, l’ambientalismo ribalta l’ordine gerarchico che vede l’uomo superiore per dignità alle altre creature corporee, spingendolo in basso e accusandolo di sfruttare il pianeta. Una dinamica schiettamente satanica, dato che il diavolo può solo creare disordine, ossia invertire specularmente il valore intrinseco dei beni. Il vitello d’oro sta ora pascolando in quel di Lisbona». [La Nuova Bussola Quotidiana

Ora, anche volendo trascurare il contributo di Francesco d’Assisi sulla sacralità di tutto il creato, a noi non pare che questo antropocentrismo radicale, di converso la svalutazione della natura, siano un dato assodato della teologia cristiana. E’ noto come la teologia cattolica si sia venuta definendo nel II e III secolo in contrasto col dualismo gnostico, il quale condannava il mondo materiale come regno del male poiché costruito da un demiurgo malvagio. Di contro alla “eresia” gnostica, i cristiani opposero che il mondo, la natura e la vita erano doni di Dio, che quindi le creature tutte, l’uomo certo in primis, erano testimonianza, non solo della onnipotenza, ma della gloria e bontà Sue. Lo stesso esistere è cosa buona rispetto al nulla della non-esistenza, è cosa sacra.

Affermava Papa Wojtyla:

«Il dominio accordato dal Creatore all’uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di “usare e abusare” o di disporre delle cose come aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di “mangiare il frutto dell’albero” (cfr Gn2, 16 ss.), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti dela natura visibile, siamo sottomessi non solo a leggi biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire». [G.M. Salvati, Crisi ecologica e concezione cristiana di Dio, in Sapienza, pp 145-160]

L’importanza della dimensione ecologica (e la connessa responsabilità dell’essere umano) non l’ha inventata quindi Bergoglio, poiché è da molto tempo che la Chiesa si interroga sulle responsabilità umane (anche proprie) per il contegno predatorio nei confronti della natura venuto avanti dalla rivoluzione industriale; quindi non solo il monito per la minaccia che incombe sull’umanità a causa del disastro ambientale; ma l’esortazione a vivere in solidarietà e armonia con la natura e tutte le sue creature.

A ben vedere e per quanto possa apparire paradossale, l’ “antropocentrismo radicale” di certi antibergogliani, implicando una concezione veterotestamentaria sfruttatrice e belluina della relazione dell’uomo col resto del creato, quindi la sua missione dominatrice, non di discosta molto dalla concezione gladiatoria darwinista della cosiddetta “selezione naturale”. Diversi i punti di partenza, medesimo quello di arrivo.

Ribadito che quanto stiamo dicendo non deve in nessun modo essere scambiato come indulgenza verso la collusione strategica del papato con la cupola mondialista, la critica di certi antibergogliani ci mostra un secondo curioso paradosso: essi convergono sulla tesi centrale della tanto vituperata élite eco-terrorista. Qual è la colonna portante della loro campagna? che il riscaldamento globale sarebbe causato dalle emissioni di CO2, avrebbe cioè cause antropiche.  Ebbene certo cattolicesimo reazionario non si fa scrupoli a dire la stessa cosa: Scrive lo stesso Tommaso Scandroglio:

«I mali di cui soffre il pianeta, dalle alluvioni ai terremoti, sono di origine antropica. Ma non come credono gli ambientalisti. Sono conseguenza del peccato originale, che è la causa ultima dell’armonia spezzata, come insegnano Bibbia e catechismo». [I mali della terra sono colpa dell’uomo? Sì ma secondo la Genesi]

Col pretesto dell’ontologico peccato originale Scandroglio non solo finisce per assolvere il vampiresco sistema capitalistico — vero responsabile, con la sua insaziabile pulsione ad accumulare profitto, dello sfruttamento dell’uomo e del saccheggio delle risorse naturali —; giunge alla medesima condanna dell’essere umano degli ambientalisti intransigenti seguaci dell’Ecologia profonda — Greta Thunberg, Theodore Kaczynski, Serge Latouche, Claude Levi-Strauss —per i quali il mammifero uomo per sua natura è una minaccia per l’eco-sistema, di cui la malthusiana richiesta di ridurre drasticamente la popolazione mondiale.

La nostra critica alle aberrazioni di certi cattolici reazionari non sarebbe esaustiva se non segnalassimo la loro fatale teologica contraddizione. Essi denunciano lo scandalo del Vaticano II come evento della protestantizzazione della chiesa cattolica. Non si avvedono che con questa loro concezione del primato assoluto del peccato originale — ovvero la tesi che esso avrebbe irreparabilmente corrotto l’anima umana da rendere impossibile all’uomo di compiere il bene, anzi da farne perenne vettore del male — sono essi per primi seguaci del luteranesimo, ma nella sua versione più terribile e gnostica, quello della polemica antipelagiana. Non l’uomo quindi, con le sue forze potrà mai curare o salvare il pianeta, potrà accadere solo in virtù dell’intervento divino.