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SEI COSE SULLA FRANCIA (E NON SOLO) di Leonardo Mazzei

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Dunque, anche il secondo turno delle elezioni legislative francesi è alle nostre spalle. I giornaloni enfatizzano la sconfitta del Rassemblement National (RN) e la relativa tenuta di Macron. Il clima è di scampato pericolo: l’Ue può andare avanti con Ursula Pfizer von der Leyen ed il fronte anti-russo non perderà pezzi. Sacrifici e guerra son dunque garantiti. Questa la sostanza del sospiro di sollievo dei media del regime.

Che i loro auspici si realizzino è tutto da vedere, ma per lorsignori questo è il momento dei festeggiamenti. Guai ad ogni analisi che vada un po’ più a fondo. Ad ogni ragionamento che turbi i loro sogni. Stessa cosa a “sinistra”, dove l’arte del prender fischi per fiaschi è da gran tempo la più praticata.

Proviamo allora a fornire qualche spunto di riflessione, tanto su ciò che è accaduto, quanto su quello che potrebbe accadere.

  1. L’effetto distorsivo dei sistemi elettorali

Nella pittoresca “sinistra” italiana ci si esalta sia per la “travolgente” vittoria dei laburisti in Gran Bretagna (mica son massimalisti loro…), sia per la “grande” sconfitta dei lepenisti in Francia. Davvero un clamoroso paradosso, reso possibile solo dai meccanismi distorsivi delle leggi elettorali. Nessuno che dica che se in Francia si fosse votato con il sistema inglese, Bardella si sarebbe già insediato a Palazzo Matignon, con un’ampia maggioranza di seggi in parlamento.

Non ci credete? La dimostrazione è semplice. Il successo dei laburisti è consistito in realtà in un modesto 33,7%, con un altrettanto modesto avanzamento dell’1,6% rispetto alle elezioni del 2019, ed addirittura un calo del 6,3% (3 milioni e 170mila voti in meno) rispetto al 2017, quando alla guida del partito c’era Corbyn… E quanto ha ottenuto il Rassemblement National al primo turno del 30 giugno? Esattamente il 33,2%.

Con il voto di un inglese su tre i laburisti hanno ottenuto 412 seggi su 650, cioè il 63,4% del totale. La loro vittoria è dipesa certo dal tracollo dei conservatori, che han sempre avuto tuttavia molti più consensi dei macroniani in Francia, ma soprattutto dal sistema dei collegi uninominali a turno unico vigente in Gran Bretagna.

Anche in Francia si vota per collegi uninominali, ma il turno di ballottaggio – con il relativo meccanismo dei ritiri – cambia tutto. Anche in questo caso l’effetto distorsivo nella distribuzione dei seggi è notevole, ma porta in genere un segno più “centrista” e presidenziale. Cosa è accaduto infatti domenica scorsa? E’ successo che la prima forza per il numero di consensi (RN) è diventata la terza nei seggi dell’Assemblea Nazionale, a tutto vantaggio del Nuovo Fronte Popolare (NFP) e soprattutto del blocco macroniano (Ensemble).

Ora, per i fissati dell’antifascismo di regime va bene così. L’uninominale a doppio turno ha fermato Le Pen? Viva l’uninominale a doppio turno. Peccato che il primo a beneficiarne sia stato un certo Emmanuel Macron…

In Francia, l’abbandono del sistema attuale e l’introduzione di una legge proporzionale stavano tanto nel programma di RN, quanto in quello del NFP. Adesso, la somma dei parlamentari di questi due gruppi garantirebbe la maggioranza per cambiare la legge. Si andrà in quel senso, come esigerebbe un minimo di decenza democratica, o si eviterà di farlo in nome della “purezza” antifascista? Ecco una bella cartina al tornasole per capire di che pasta son fatti certi “democratici”.

  1. Referendum su chi?

In un articolo di metà giugno avevamo ipotizzato la possibilità che stavolta la trappola, centrista e presidenziale, del secondo turno non avrebbe funzionato. Questa ipotesi si fondava sulla prospettiva, resa possibile dall’elevato astensionismo, di un basso numero di scontri triangolari al ballottaggio. Laddove i grandi esclusi sarebbero stati proprio i candidati macroniani.

Il fatto è che la partecipazione al voto ha registrato invece una crescita imponente, assolutamente imprevista in quelle dimensioni. Al primo turno ha votato infatti il 66,7% degli aventi diritto, rispetto al 47,5% delle elezioni precedenti. Il che vuol dire che il 40% di chi si era astenuto nel 2022 stavolta si è recato alle urne. Per i meccanismi della legge francese, una più elevata partecipazione al voto abbassa la soglia di ammissione al secondo turno. A dispetto delle loro modeste percentuali, molti candidati macroniani si sono così ritrovati al ballottaggio, dove la desistenza (cioè, il ritiro) decisa dal NFP ha fatto il resto.

Alla fine, il 33,2% del RN è diventato il 24,8% in seggi, il 28,1% del NFP il 31,9%, ma soprattutto il modesto 20,0% dei macroniani ha portato alla conquista del 28,8% dei seggi. Un giochino, basato sull’interdizione nei confronti dell’estrema destra, che ha funzionato ancora una volta.

Su questo ci eravamo sbagliati, prevedendo che il vecchio trucco stavolta avrebbe fatto cilecca sia per la profondità della crisi francese, sia per la radicalità dell’odio popolare nei confronti di Macron. Sempre nell’articolo già citato, avevamo però messo in guardia da un pericolo. Partendo dalla consapevolezza che le elezioni francesi si sarebbero trasformate in un referendum, così scrivevamo:

«Molto dipenderà da come le elezioni verranno vissute dai francesi. Se verranno viste come un referendum sul Presidente è certo che Macron soccomberà. Se, sciaguratamente, dovesse invece riuscire il giochino di trasformare il voto in un referendum su Le Pen allora i macroniani, benché falcidiati, avrebbero qualche possibilità di restare in qualche modo in gioco. Vedremo».

Ora, quello che è successo è chiaro: il referendum c’è stato, ma su Le Pen non su Macron. E le conseguenze sono state quelle previste. A questo esito assurdo ha contribuito in maniera decisiva la scelta della desistenza, subito annunciata la sera del 30 giugno dal NFP.

Ma davvero dopo 7 anni di macronismo, di autoritarismo, di feroci politiche antisociali, in ultimo di una postura guerrafondaia ed antirussa, il pericolo principale era Le Pen? Non scherziamo, per favore. Oltretutto, senza i ritiri il Rassemblement National avrebbe avuto sì più seggi, ma mai la maggioranza assoluta, mettendo un Macron enormemente più debole davanti ad un quadro totalmente ingestibile, una situazione che prima o poi avrebbe imposto le sue dimissioni.

  1. Il falso antifascismo premia Macron (dedicato ai sinistrati)

Lo strano “antifascismo” del XXI secolo è tutt’altro che innocente. Le oligarchie lo amano molto, ed il presunto radicalismo di una sinistra transgenica ci casca ogni volta di più. Una ragione ci sarà, sia per il primo che per il secondo fenomeno. Ma mai che si rifletta a fondo su questa interessante ed incessante convergenza.

Il comodo vezzo di definire “fascista” tutto ciò che non piace, risparmia le due fatiche dell’analisi e dell’argomentazione. La verità è che i grandi movimenti (quello sulle pensioni, ed ancor più quello dei Gilet Gialli) che hanno caratterizzato la Francia negli anni del potere macroniano, sono stati per loro natura trasversali. Segno della crisi delle grandi narrazioni e di una politica ridotta a governance. Ma segno anche che se la destra mai potrà interpretare la lotta contro le forme classiche dell’ingiustizia sociale, l’attuale sinistra globalista e gender fluid mai potrà raccogliere la spinta oppositiva ed anti-oligarchica delle campagne e delle periferie (i cosiddetti “esclusi della globalizzazione”). La cartina del voto nei collegi francesi è lì a dimostrarcelo.

Ovvio come la risultante di queste due speculari incapacità sia l’incomunicabilità tra due mondi. Un fossato che renderà felici assai quelli che son convinti di essere di fronte al “fascismo eterno” e ad un redivivo Pétain, ma che farà invece il gioco dei ben più concreti “eterni dominanti” che talvolta vincono le elezioni pur non partecipandovi direttamente.

Il confortevole “antifascismo” di questi ultimi ha degli scopi che non potrebbero essere più evidenti.

In passato gli imperialisti a stelle e strisce ci hanno abituato all’hitlerizzazione preventiva (cioè funzionale all’attacco armato ai rispettivi Paesi) di Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi. Ma ancor oggi tutti i nemici dell’Occidente vengono etichettati come fascisti, a partire da Putin. Ma “fascista” è l’Iran, la Cina, la Corea del Nord. L’Ucraina di Zelensky invece no, perché sta dalla parte giusta. Ma, si sa, il fascismo si insinua anche nel campo dei giusti. E così “fascisti”, benché nella Nato, sono pure Orban ed Erdogan, rei di sospette simpatie putiniane. Più complesso il caso Meloni: fascista quando critica la cupola di Bruxelles, democratica quando manda le armi in Ucraina e fa la faccia feroce contro la Russia.

Ma se il falso “antifascismo” della copula dominante ha il suo perché, la subalternità della sinistra è semplicemente spaventosa. Ad una povertà concettuale ed analitica davvero impressionante, fa riscontro il nullismo politico di chi non sa andare oltre gli schemi dominanti. Alla fine vince sempre quello che viene considerato come il “meno peggio”: in Francia Macron, in Italia magari il Pd. Una prospettiva che non sembra poi così lontana, basti pensare all’oscena ammucchiata andata in onda in Piazza SS. Apostoli a Roma lo scorso 18 giugno. Dove persino Rifondazione Comunista ha manifestato contro il regionalismo differenziato insieme a chi (il Pd appunto) quell’obbrobrio l’ha reso possibile con lo stupro del Titolo V della Costituzione del 2001.

  1. La falsa alternativa della destra

Detto della sinistra passiamo alla destra, dove si propone un’alternativa largamente falsa ed ingannevole. Guardando all’Italia è fin troppo facile dimostrarlo, con il truffaldino “sovranismo” di Meloni che si traduce nel concreto servilismo verso la Nato, la Casa Bianca e (pur con qualche mal di pancia) pure verso Bruxelles. Dove l’alternativa ai governi tecnici, od a trazione piddina, consiste nelle stesse politiche austeritarie ed antipopolari dei Monti e dei Draghi.

Ma qui ci occupiamo della Francia ed è giusto allora parlare un po’ più a fondo del Rassemblement National, il cui spauracchio contribuisce ormai da decenni a tenere bloccata la situazione. Se definire “fascista” tout-court il Rassemblement National è chiaramente una forzatura, la xenofobia è invece il marchio reale della formazione di Le Pen. Un marchio pesante, effettivo, non la semplice raffigurazione dell’avversa propaganda.

La questione non è l’immigrazione in sé, che comprensibilmente i ceti popolari vorrebbero frenare allo scopo di rallentare il processo di svalutazione salariale in atto.  Il problema è l’attacco ai diritti di cittadinanza di chi in Francia vive e lavora da anni. Una linea che, attraverso il principio della “preferenza nazionale”, punta alla guerra tra poveri, che – ove si affermasse – rischierebbe di portare alla guerra civile. Una linea che si sposa, non a caso, con la più violenta islamofobia e con il totale sostegno al sionismo ed alla sua politica genocida. Che questa linea generi ripulsa è naturale, che ciò giustifichi il voto ai macroniani no. Ma quel che è certo è che questa destra rappresenta in definitiva una falsa alternativa al dominio delle oligarchie. Bene essere chiari sul punto.

Nella concreta lotta contro il blocco dominante il trasversalismo è necessario, raccogliere i mille rivoli del dissenso sociale pure, ma alla fine non “tutto fa brodo”. Far incontrare le tante ragioni della rivolta, dandogli una prospettiva, sarebbe il primo compito, ove vi fosse, di una forza autenticamente rivoluzionaria. Questa forza purtroppo non c’è, ma questo non è un problema solo francese.

  1. Ma neppure Macron può cantare vittoria

Ai punti precedenti abbiamo visto come tanto il falso antifascismo, quanto la vera xenofobia della destra, abbiano fatto il gioco del piccolo Napoleone sfornato dalla Banca Rothschild. Ma neppure lui può cantare vittoria. Grazie ai due fattori di cui sopra, l’inquilino dell’Eliseo è riuscito ad evitare la disfatta, ma il quadro uscito dal ballottaggio è confuso assai. Di certo il Rassemblement National deve riporre nel cassetto i sogni di gloria, ma per il resto nessuno ha davvero vinto: né la sinistra del NFP, né il blocco macroniano.

I numeri dell’Assemblea Nazionale parlano chiaro. A fronte di una maggioranza di 289 seggi, RN ne ha 143, Ensemble 166, il NFP 184, l’area gollista (Les Républicains – LR) 66. Nessun blocco può dunque governare da solo. I macroniani potrebbero allearsi con LR, ma sarebbe del tutto insufficiente. Vista la Conventio ad excludendum nei confronti di RN, si potrebbe ipotizzare una maggioranza tra sinistra e macroniani. Ma anche questa è una soluzione impraticabile, perché se dai seggi del NFP si tolgono i 78 de La France Insoumise – LFI (ostracizzata dai macroniani al pari di RN), la maggioranza resta ancora lontana.

Dunque, anche il disegno dei socialisti di ricongiungersi a Macron in un’alleanza anti Le Pen ed anti Mélenchon non ha i numeri. Li avrebbe solo con l’aggiunta dei gollisti. Ma questo creerebbe problemi tanto ai lontani eredi del Generale, quanto ai discendenti di Mitterand.

I socialisti (69 seggi) non vedrebbero l’ora di rompere con LFI, ma forse un’alleanza che arrivasse ad LR porterebbe alla rottura pure con i Verdi (28 seggi) e con i sia pur malleabili comunisti (9). A quel punto il governo potrebbe nascere, ma i socialisti avrebbero così decretato il loro completo isolamento a sinistra. E questo non se lo possono permettere. Non a caso il loro segretario, Olivier Faure (nel frattempo autocandidatosi a primo ministro), esclude – almeno per ora – una rottura del NFP.

La proposta di una coalizione che tagli fuori RN ed LFI è stata sostanzialmente ufficializzata da Macron in una “lettera ai francesi” uscita sui giornali regionali del 10 luglio. Si tratterebbe di fatto di una sorta di “governo del presidente” che gli permetterebbe di restare in sella fino al 2027. E di farlo in spregio alla volontà dei francesi, perché quel governo avrebbe sì la maggioranza in parlamento ma non nel Paese. Non a torto, Mélenchon ha definito la pretesa espressa dall’Eliseo come il “ritorno del veto reale sul suffragio universale”.

Mentre scriviamo, il progetto macroniano non viene respinto soltanto a sinistra, dove si discute in maniera un po’ pittoresca del candidato del NFP alla guida del governo, ma pure dai gollisti. Un esponente di spicco di LR, il presidente del Senato Gérard Larcher, ha detto a Le Monde che il suo partito non intende entrare in nessuna coalizione, che in un’assemblea composta da tre minoranze  non si potrà far altro che adottare la linea del “cabotaggio legislativo”, con l’esame “testo per testo” senza alcuna maggioranza precostituita.

Larcher non avrebbe potuto fare di meglio per fornirci la fotografia di una crisi politica senza precedenti. Altro che vittoria di Macron! La sua parziale tenuta diventerebbe vittoria solo se alla fine la sua proposta di coalizione venisse accolta. Ma per adesso siamo ben lontani da quell’esito.

  1. La Francia, la guerra, lo stato d’eccezione

La prospettiva che la Francia diventi un “Libano senza sole” renderà di certo ancora più aggressivo Macron. Ed il fatto che questo avvenga in uno scenario di guerra apre a tentazioni presidenzialiste pericolose assai. Altro che fascismo!

Di fronte a questo scenario, i canti di vittoria della sinistra francese fanno sinceramente pena. Abbiamo già detto che Macron non ha vinto, ma potrebbe sentirsi sufficientemente forte per provare a rovesciare il tavolo. In tutta evidenza le istituzioni della Quinta Repubblica non tengono più, a partire proprio da quella decisiva: la Presidenza della Repubblica, con i suoi poteri per certi aspetti perfino superiori a quelli del presidente americano, alla faccia di quel “semipresidenzialismo alla francese” di cui si blatera nei talk show! Una nuova Costituente sarebbe dunque nei fatti, ma come arrivarci?

Intanto è in vigore la pessima Costituzione del 1958, figlia del colpo di stato istituzionale della primavera di quell’anno, che riportò De Gaulle al potere consegnandogli poteri straordinari per la durata di sei mesi.

Il problema è che l’art. 16 di quella Costituzione prevede la possibilità dello stato d’eccezione in termini talmente generici da assegnare al presidente una discrezionalità senza limiti. Leggiamolo:

«Quando le istituzioni della Repubblica, l’indipendenza della nazione, l’integrità del territorio o l’esecuzione degli impegni internazionali sono minacciati in maniera grave ed immediata e il regolare funzionamento dei poteri pubblici costituzionali è interrotto, il Presidente della Repubblica adotta le misure richieste dalle circostanze dopo aver ufficialmente consultato il Primo ministro, i Presidenti delle assemblee ed il Presidente del Consiglio costituzionale. Egli ne informa la nazione con un messaggio. Tali misure devono essere ispirate dalla volontà di assicurare ai poteri pubblici costituzionali, nel minor tempo possibile, i mezzi necessari per provvedere ai loro compiti».

Vista questa norma costituzionale, considerato il soggetto chiamato ad applicarla, pare difficile non rendersi conto di quel che potrebbe accadere. Di nuovo: altro che fascismo! Anche per questo avevamo intitolato il precedente articolo “Cacciare Macron”. Quella era la vera priorità prima delle elezioni. Quella resta la priorità dell’oggi.

2 pensieri su “SEI COSE SULLA FRANCIA (E NON SOLO) di Leonardo Mazzei”

  1. Graziano+PRIOTTO dice:

    Finché durerà l’occupazione statunitense …
    le elezioni politiche in Paesi soggetti al dominio coloniale, come è purtroppo il caso dell’intera UE, non possono che essere conferme della sudditanza: ad ingigantire e rafforzare il vassallaggio è la mancanza di dignità e di autorevolezza dei politici che si sono succeduti nel dopoguerra. Se proviamo a fare una carrellata appare evidente: inFrancia da De Gaulle fino a Mitterand, Hollande, Macron e via scadendo.
    In Germania da Adenauer a Brandt, Schmidt , timidamente forse ancora Kohl (che rifiutò di andare in Guerra con gli USA in Irak, prima gjuerra del Golfo ma pagò a Bush padre i costi dell’intervento in marchi sonanti) ) e più coraggiosamente Schröder (che rifiutò l’inganno della seconda guerra del Golfo nel 2003) fino ad Angela Merkel (che firmò col degno compare Holland i trattati di Minsk conl’intento poi dichiarato di mai farli rispettare all’Ucraina e allo scopo di preparare la guerra) e per finire con l’attuale insignificante e vile cancelliere che si è lasciato distruggere dall'”alleato” USA il gasdotto pagato anche con investimenti tedeschi è una caduta continua verso la sudditanza ed obbedienza più
    vergognosa.
    Non che in altri Paesi vada meglio, anzi, salvo il paio di noti governanti con la schiena dritta, in tutta l’UE non si vedono che servi obbedienti pronti a sacrificare i propri Paesi e la vita dei cittadini pur di non ricevere le sgridate dai padroni d’oltre Atlantico.
    Il nazifascismo non era morto del tutto, lo vediamo quotidianamente risorgere sotto mutate spoglie, colorato di verde e di rosso, ma coi metodi ben noti. E di questi giorni la notizia che una rivista tedesca , “Compact” che mai aveva subito un processo per qualsivoglia motivo, è stata chiusa, locali ed abitazioni dei redattori perquisiti, materiali requisiti e divieto di pubblicare. Come nel 1933 le opposizioni sono dichiarate furi
    legge. Lo aveva fatto la commissaria europea con i portali TV russi e non vi era stata la minima protesta, il sonno dei cittadini europei è profondo ed a russare più sonoramente sono i falsi e sedicenti partiti di “sinistra” per i quali vale l’appellativo di sinistri come aggettivo.
    Ora in Germania arriveranno i missili USA e non si leva alcuna protesta, anzi la stampa tutta gioisce dell’obbedienza alle decisioni USA di trasformare il Paese in un obiettivo primario in caso di conflitto atomico. Nel1983 in Germania un milione di cittadini aveva manifestato per mesi contro lo stazionamento dei missili Pershing , intellettuali e scrittori come ad es Heinrich Böll erano presenti ai blocchi davanti alle basi USA per impedire l’arrivo dei missili che nel 1988 furono poi ritirati.
    Ora nulla di tutto questo: se strade vengono bloccate da giovani che si incollano all’asfalto non è per scongiurare la catastrofe atomica ma … per dimostrare contro il cambiamento climatico !!!

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