TRUMP, LA GUERRA E LE ILLUSIONI di Leonardo Mazzei
Un voto figlio del caos
Dunque, Trump è stato rieletto. La portata dell’evento è chiara. Meno, molto meno, le sue effettive conseguenze. L’inevitabile profluvio di articoli e commenti che ne è seguito a caldo poco aiuta. Se banalità, recriminazioni, speranze e delusioni sono la norma in questi casi, più complesso stavolta trovare il bandolo della matassa sulla svolta che verrà impressa alla politica americana. La difficoltà non nasce solo dal personaggio Trump, ma dal vero caos che attraversando il mondo arriva al cuore di un impero americano che non ha più la certezza del suo dominio illimitato.
E’ questo caos che ha prodotto Trump, non il contrario, come invece vorrebbero le autistiche anime belle del progressismo europeista. L’ha prodotto per riportare l’ordine, ma come il suo predecessore ben difficilmente ci riuscirà.
Il caos è figlio di una crisi che non è solo economica. Più esattamente, esso è figlio dell’incapacità di dare risposta a quella crisi. Un’incapacità che unisce sia la cupola globalista (in genere intricata con le sinistre transgeniche), che il populismo liberista di destra. Quest’ultimo si presenta come “populista” quand’è all’opposizione, rivelando immancabilmente la sua natura ultra-liberista (dunque antipopolare e sistemica) quando arriva al governo. Meloni docet!
La crisi che attanaglia l’Occidente ha infatti un nome: neoliberismo. Quel sistema non è solo ingiusto, esso semplicemente non funziona. Ma, per una maledetta congiuntura storica, la sua crisi si è prodotta nel punto più basso della lotta per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Da qui l’accanimento terapeutico nel riproporre, ogni volta a dosi maggiori, tutte le mostruosità sociali dell’ultimo quarantennio. Il neoliberismo ha fatto cilecca? Diamoci dentro con un neoliberismo rafforzato, concettualmente senza limiti (alla Milei, per intenderci), meglio se inserito in una cornice fortemente autoritaria. Questo riflesso tipico dei dominanti ben lo conosciamo dalle nostre parti. Un esempio: l’Unione Europea è un fallimento? Niente paura, quel che occorre è semplicemente “più Europa”. E via di seguito.
Ovviamente Trump non è una Meloni qualsiasi. Egli prenderà la residenza alla Casa Bianca, non a Palazzo Chigi. Più esattamente, la riprenderà dopo 4 anni di vacanza, secondo caso nella storia degli Usa dopo quello di Grover Cleveland che fu eletto nel 1885 e rieletto nel 1893. La rarità di un simile ritorno ci parla della forza e della profondità del trumpismo. La qual cosa non dev’essere però scambiata per una irresistibile avanzata, come ci dicono i dati ufficiali sul voto.
Stavolta Trump ha vinto con 72,7 milioni di voti, contro i 68,1 della Harris. Smentendo ogni previsione, il candidato repubblicano ha dunque avuto una netta affermazione anche nel voto popolare, oltre che nel numero di “grandi elettori” conquistati. Ma il suo risultato in voti è stato addirittura inferiore a quello da lui ottenuto nelle elezioni perse del 2020 (74,2 milioni). Il fatto è che questa volta la candidata democratica ha perso ben 13,1 milioni di voti rispetto a quelli presi da Biden nel 2020. Alla fine le cose non cambiano, ma è più corretto parlare di un tracollo della Harris, piuttosto che di uno sfondamento di Trump. E, d’altra parte, lo scarto in termini percentuali (50,9% contro 47,6%) non è certo travolgente.
Trump controllerà sicuramente il Senato e quasi certamente la Camera dei rappresentanti. La residua incertezza sta nel fatto che a cinque giorni dal voto non tutti i seggi della Camera sono stati assegnati: misteri della straordinaria efficienza della macchina burocratica a stelle e strisce! Nei numeri sarà quindi un presidente forte, almeno nei primi due anni del suo mandato. Lo sarà anche nel realizzare il suo programma? Questo ce lo diranno solo i fatti, ma la memoria del precedente quadriennio (2017-2021) ci parla soprattutto di un gran casino interno alla sua amministrazione. Probabilmente stavolta sarà diverso, ma chissà. Se il caos che colpisce l’impero è frutto anche dello scontro interno ai dominanti, difficile pensare che i gruppi perdenti tardino ad agire. Vedremo.
La sconfitta della cosca globalista… e quel che verrà
Che la cosca globalista sia stata sconfitta è certamente un fatto positivo. Doppiamente positivo, perché quella cosca è la prima responsabile della guerra in corso. Ma l’affermazione di Trump non è stata certo la vittoria dei pacifisti contro i guerrafondai. Essa è stata piuttosto il frutto di un giudizio di merito sull’incapacità dell’amministrazione Biden di vincere la guerra. In altre parole, i democratici non avrebbero perso se Putin fosse stato sbaragliato. Ma così non è andata, ed il conto è stato depositato nelle urne.
L’impasse in Ucraina ha contribuito a portare sul banco degli imputati il globalismo. Quella americana è una storia di guerre, ma mai come questa volta la scelta bellicista è apparsa collegata ad una visione ideologica. Putin è stato sì presentato come un aggressivo dittatore, ma pure come un omofobo ed un alfiere dei combustibili fossili, sordo al richiamo ossessivo alla questione climatica. Questi temi, così come quello dei flussi migratori, spaccano gli Stati Uniti in due. Una frattura nella quale si è inserito con successo Trump, il quale però non avrebbe comunque vinto senza la crescente spaccatura sociale tra i vincenti ed i perdenti della globalizzazione. La carta a colori degli Usa, con il blu dei democratici a colorare gli stati della East e della West Coast, e il rosso dei repubblicani a riempire lo spazio degli stati più interni, ne è la più evidente rappresentazione.
Ovviamente, i commentatori anti-trumpiani fanno notare come appaia assurdo questo sostegno degli strati popolari ad un multimiliardario, per giunta accompagnatosi nell’occasione con l’uomo più ricco del mondo, quell’Elon Musk che con la sua Tesla è il simbolo stesso dell’odiata transizione energetica pensata su misura per i ricchi. Questi commentatori avrebbero ragione, se non fossero gli stessi che nulla hanno da dire sui soldi di Bill Gates, George Soros ed altri “benefattori” della loro setta. Ed avrebbero ragione se segnalassero almeno di sfuggita lo stato effettivo della cosiddetta “democrazia” liberale – cosa che si guardano bene dal fare – dove a competere nelle campagne elettorali a suon di miliardi sono ormai solo i pochi Paperoni che possono permetterselo.
Quello in corso da anni negli Usa è il più classico degli scontri tra dominanti. La lotta tra un’oligarchia col “bollino blu”, progressista e politicamente corretta, e l’outsider di turno che si fa largo con l’astuzia e la spregiudicatezza, nasconde in realtà il conflitto tra le diverse bande e gli opposti interessi di un sistema che è per sua natura conflittuale al suo interno. Almeno a noi italiani, il caso di Silvio Berlusconi dovrebbe averci insegnato qualcosa.
Tornando agli Usa, se le ragioni che hanno portato alla crisi di egemonia del blocco globalista sono piuttosto evidenti, meno chiaro è quel che seguirà. Il trumpismo è infatti un impasto assai eterogeneo, abbastanza coeso nell’opporsi al progressismo cosmopolita, ma denso di contraddizioni sul piano sociale. Ecco perché, man mano che la politica della nuova amministrazione si dipanerà, la crisi americana potrebbe in realtà aggravarsi. Esattamente quello che ci auguriamo.
La Guerra Grande a una svolta?
Fin qui la politica “interna”, con l’ovvia avvertenza che l’interno di una grande potenza come gli Usa si proietta sempre all’esterno, intrecciandosi inevitabilmente con la stessa politica estera di Washington. Se al globalismo si sostituisce la rinazionalizzazione dell’economia americana, sebbene sempre in forma privatistica e mercatista, ovvie le conseguenze sui tanti paesi che con gli Usa commerciano in maniera massiccia. Il caso degli annunciati dazi, e delle preventive convulsioni politiche tedesche, ce ne offre una dimostrazione evidente. Questa spinta alla rinazionalizzazione non è tuttavia una novità, né un’esclusiva repubblicana, basti pensare all’enorme sostegno all’economia nazionale (2.000 miliardi) varato da Biden nel 2021. Con Trump, però, questo processo subirà un’accelerazione. In quale misura e in quali forme ce lo diranno i prossimi mesi.
Ma il tema che più interessa, quello che più intriga ed alimenta illusioni, è certamente quello della guerra. Trump non ha l’obbligo della continuità con l’amministrazione Biden, dunque può permettersi – almeno in teoria – un’ampia libertà di manovra. Come la eserciterà? Il “nuovo” presidente ama parlare di pace, ed è qui che ogni abbaglio è possibile. Abbagli pericolosi, fuorvianti, da contrastare con decisione e da subito.
Per molti l’arrivo di Trump segnerà la fine della guerra in Ucraina, dunque il riconoscimento della sconfitta occidentale. A parere di chi scrive un errore gravissimo. Trump non solo non metterà fine alla Guerra Grande (copyright Limes), ma finirà probabilmente per aggiungere nuova benzina all’incendio in corso. Mi rendo conto che si tratta di una lettura decisamente controcorrente, ma che ritengo realista e ben fondata. Vediamo il perché.
Dovrebbe essere chiaro a tutti come la guerra d’Ucraina sia stata decisa a suo tempo a Washington per disintegrare la Federazione Russa, come premessa al decisivo confronto con la Cina. Ora la guerra non sta andando come nei disegni americani, ma questo non significa certo la rinuncia ai suoi obiettivi strategici. Obiettivi necessariamente bipartisan, che nessun capo dell’impero a stelle e strisce potrebbe mai contrastare neppure se lo volesse.
Quello che un presidente può fare – e che Trump sicuramente farà – è invece la rimodulazione dei piani di guerra. Il che non è poca cosa, ma è l’esatto contrario della fine della guerra. Sbaglia quindi sia chi pensa che nulla cambierà, sia chi pensa che il cambiamento consista nella pace.
Per capire in cosa consisterà questo tentativo di rimodulazione (tentativo, perché molto dipenderà da chi sta dall’altra parte della barricata) bisogna fare un passo indietro. Quando si parla di Terza Guerra Mondiale non si intende un conflitto immediatamente generalizzato ed istantaneamente alla magnitudo più elevata. Si intende invece un conflitto esteso, esistenziale per le parti in lotta, che potrà concludersi solo con la ridefinizione di nuovi equilibri globali. Come si è visto fin qui, un simile conflitto può svolgersi con l’uso di armi avanzatissime, ma stando al di sotto della soglia nucleare, sebbene il rischio di arrivarvi sia sempre elevato. Un conflitto di questo tipo può prevedere anche periodi di tregua armata, di scaramucce non decisive, come pure momenti in cui la guerra economica prevale sul confronto militare.
Fatta questa premessa, veniamo al nodo decisivo della questione.
Mentre aumenterà la pressione sulla Cina, Trump pare orientato a dare via libera ad un attacco più deciso di Israele nei confronti dell’Iran. Sappiamo tutti come per l’entità sionista siano decisive le armi che arrivano da oltreoceano, nonché le portaerei dispiegate nel Mediterraneo e nel Golfo Persico. Una copertura mai messa in discussione da Biden alla faccia del genocidio a Gaza, ma che sarà ancora più forte con Trump nel ruolo di comandante in capo. Se alle dichiarazioni seguiranno i fatti, la situazione in Medio Oriente non potrà che peggiorare. Altro che svolta di pace!
A questo indurimento sul fronte mediorientale seguirà un allentamento su quello ucraino? Questa è l’ipotesi che fanno in molti, ma quanto è realistica?
Attenzione a un Minsk III
La domanda è: cosa intende Trump quando parla di pace? C’è davvero l’idea di riconoscere un posto diverso alla Russia negli equilibri internazionali, accettando quindi un passo indietro nelle pretese della Nato, o si sta solo preparando l’ennesimo tranello? In tutta evidenza – almeno a me così pare – la “seconda che hai detto”, come direbbe il comico.
Da qui l’estrema prudenza di Putin, la cui circospezione non risponde solo ad evidenti esigenze diplomatiche. Dieci anni fa a Mosca sono rimasti scottati con i protocolli di Minsk I (5 settembre 2014) e Minsk II (12 febbraio 2015), accordi truffa completamente disattesi sia da Kiev che dai suoi protettori occidentali. E grande è il timore di finire intrappolati in una sorta di Minsk III, che servirebbe solo alla Nato per guadagnare tempo e riorganizzarsi, per poi riprendere la guerra al momento opportuno.
Ad oggi Trump non ha ancora presentato il suo piano. Ma da quello che trapela (cioè, che viene lasciato trapelare) l’idea sarebbe quella di: (1) congelare il fronte sulle linee attuali, (2) istituire una fascia demilitarizzata, (3) rimandare sì per 20 anni l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, garantendogli però una copertura militare quantomeno equivalente. Sono accettabili per la Russia questi tre punti? La risposta è no.
Il cessate il fuoco avverrebbe infatti sul modello coreano, senza alcun accordo di pace. Un riconoscimento de facto, ma non de jure, della realtà sul campo. Chiaro come una simile “soluzione” terrebbe sotto pressione la Russia per i prossimi anni. Per Mosca una prospettiva inaccettabile.
Ancora più improponibile il punto (3). L’idea di Trump, evidentemente già elaborata da tempo negli ambienti Nato, è semplice. Fare finta che l’Ucraina non entri nel Patto Atlantico, assicurandogli però lo stesso sostegno che gli è stato fornito per preparare e condurre la guerra in corso. Questo obiettivo verrebbe raggiunto con la firma di un gran numero di accordi bilaterali tra gli stati della Nato e Kiev, sul modello di quello sottoscritto tra Meloni e Zelensky nel febbraio scorso. Se finisse così la futura Ucraina, pur formalmente esterna, finirebbe per essere non un semplice membro ordinario, ma addirittura un super-membro di fatto della stessa Nato. Altro che la neutralità chiesta da Putin!
Ovvio come questo punto della mancata neutralità se ne porti dietro un altro, quello della “denazificazione” chiesta dal Cremlino. “Denazificare” significa cambiare radicalmente l’attuale gruppo al potere a Kiev, non passare semplicemente da Zelensky (comunque ormai bollito) ad un qualsiasi uomo dell’entourage di Porošenko (il presidente dei crimini del 2014) come sembra si voglia fare.
E’ naturale che Trump voglia imporre una svolta. La situazione attuale è infatti insostenibile per la Nato. Fallite le sanzioni, la Russia potrebbe essere sconfitta solo con l’invio di un nutrito contingente militare, operazione per la quale al momento i bellicosi europei non sembrano ancora pronti. Di fronte all’alternativa tra la sconfitta e l’invio delle truppe, quella di Trump è una mossa astuta quanto infida: prendere tempo senza nulla concedere a Putin.
Chi scrive non crede che Mosca cadrà nel tranello, anche se le pressioni di altri paesi dei Brics potrebbero spingere in quella direzione. Certo, l’idea della trattativa verrà sicuramente accolta. Ma discutere dei preliminari di una trattativa è cosa ben diversa dal concluderla. Ed iniziarla – questo è il punto decisivo (vedi le vicende del Vietnam e della Corea) – non significa necessariamente un cessate il fuoco.
Chi vivrà vedrà. Ma non ci stupiremmo se dovesse essere proprio questo il primo punto di inciampo di una trattativa che è difficile in sé, ma soprattutto per il contesto generale in cui eventualmente si svolgerà. A Mosca sanno perfettamente che l’intenzione di Trump non è certo quella di arretrare nel conflitto globale col quale gli Usa vogliono ribadire la propria supremazia. MAGA – Make America Great Again (rendere l’America di nuovo grande) –, è stato il motto col quale Trump ha vinto il 5 novembre. Che lo possa realizzare ne dubitiamo fortemente, ma che lo voglia perseguire con tutti gli strumenti è certo.
In quanto a tempi, mezzi, tattiche e priorità la guerra di Trump non sarà identica a quella di Biden, ma guerra sarà. Meglio saperlo.
PS – In questo articolo, già fin troppo lungo, non ci siamo occupati delle ricadute della vittoria di Trump in Europa. Qui ne vedremo delle belle, e non solo per le contorsioni dei commentatori da talk show e dei tanti burattini che popolano il teatrino della politica continentale. Serio sarà l’impatto sulla tenuta di tanti paesi e della stessa Ue. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo.
Make America Thirteen Again è l’unica soluzione.
Certo sorgerebbero poi altri problemi perché così è la storia, morta una contraddizioni se ne fa un’altra, ma almeno avremmo superato quelli interminabili di adesso … e poi in fondo è solo un’iperbole.
È mai possibile che ‘sti cacchio di liberal-marxiani non vengano mai sfiorati dal dubbio che, forse forse, il sistema politico americano potrebbe essere stato ”in tal guisa” congegnato, apposta per fornire alle scellerate masse queste forme di scelte sostanzialmente/ontologicamente irrilevanti, e ciò, affine di preservare per il maggior tempo che sia possibile la potenza conseguita dagli USA in questi decenni (secoli)? Ma del resto, in quanto liberali e/o marxiani, sono esperti di false alternative (e, in questo caso, mi riferisco all’alternativa o, meglio, supposta contrapposizione tra il marxismo e il liberalismo).
E sì, perché costoro, siano essi marxiani o liberali, vorrebbero, comunque sia, tutti che l’UOMO tornasse nel paradiso terrestre perduto. E I marxiani lo vorrebbero collettivo, il paradiso (col comunismo), mentre i liberali lo preferiscono individuale (mediante l’arricchimento personale e il ”successo”).
Due forme diverse della medesima illusione gnostica, insomma. Maledetti.